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12 febbraio 2024

«In treatment: frammenti narrativi di alcuni scenari psicoterapeutici» di Valter Santilli

 

Johannes Vermeer. Ragazza con l'orecchino di perla (1665 ca.)


Anni fa ebbi l’occasione di guardare alcune scene degli episodi italiani del serial televisivo In Treatment, provai una sensazione di noia e di fastidio come quando vidi alcune scene de Il Grande Fratello. In entrambi i casi provai la sensazione di essere un passivo voyeur al quale si voleva far credere che quello a cui stava assistendo fosse, seppure virtualmente, la rappresentazione vera e intima di ciò che è la realtà umana. Mi sembrava eclatante l’imbroglio di far passare quella storia televisiva, affetta dall’ambizione di descrivere nei tempi dello ‘spettacolo’, per ciò che accade quando una persona decide di andare in treatment, come se fosse la rappresentazione documentaria della reale esperienza di questo tipo di cura. Confesso che la finzione teatrale, con tutte le grossolane inesattezze, mi aveva profondamente deluso: ho sentito il fastidio che si prova quando sperimentiamo che qualcuno o qualcosa invade il nostro mondo. In questo caso, essendo ‘del mestiere’, uno spazio professionale che ritengo anche uno spazio ‘privato’ che appartiene al paziente e al terapeuta. Mi sembrava un illecito azzardo voler svelare pubblicamente la qualità di quegli incontri, contenitori di realtà psicologiche ed esistenziali che scaturiscono direttamente dalla ‘relazione terapeutica’: una delle forme radicali ed essenziali di comunicazione interpersonale. La visione di questa pretesa filmica era simile alla visione di certe scene puramente carnali, o esplicitamente pornografiche, che vorrebbero convincere colui che guarda che quello che viene mostrato è la reale esperienza di due o più esseri umani che fanno l’amore. Quello che mi pare emerga, nonostante l’interesse e la curiosità che a suo tempo il serial era riuscito a suscitare nel pubblico televisivo, è la pretesa di rendere pubblico ciò che accade nella stanza dove due o più persone si impegnano, con ruoli e funzioni diversi, in una esperienza di relazione che socialmente e scientificamente viene riconosciuta come ‘trattamento psicoterapeutico’, in questa definizione includo anche la pratica della psicoanalisi, sebbene essa abbia le sue specificità. 

 

Passò del tempo prima che io riconsiderassi il serial In Treatment e avessi una specie di illuminazione cognitiva: riuscii a comprendere che quella vista in tv non avrebbe mai potuto essere quello che ‘veramente’ è la psicoterapia. Compresi finalmente che quegli episodi televisivi erano una rappresentazione teatrale tratta da un copione ispirato a reali esperienze cliniche ed esistenziali. Perché io avessi questo insight fu determinante la lettura di alcune pagine di un importante lavoro di André Green: La déliaison. In questo brillante saggio l’autore, in un capitolo che ha come titolo «Il teatro dell’illusione e la scena sociale», ricorda che a Freud si aprirono le porte di alcuni contenuti fondanti la psicoanalisi dopo aver casualmente assistito a Parigi alla rappresentazione della tragedia Edipo re di Sofocle. Nel 1885 Freud per un semestre frequenta come ‘borsista’ le lezioni di Charcot, presso l’ospedale La Salpêtrière. Green in un capitolo del suo saggio riporta i contenuti di una lettera di Freud datata 15.10.1897, indirizzata a Wilhelm Fliess, dove riferendosi alla tragedia di Sofocle parla del teatro e della tragedia come di uno spazio del mondo esterno in cui il ‘teatro privato’ del mondo interno si realizza. 

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

19 maggio 2022

«Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli



Gabriele Pulli insegna psicologia filosofica, psicologia generale e psicologia dell’arte e della letteratura all’Università di Salerno ed è autore di numerosi libri, tra i quali Freud e Severino (Moretti & Vitali, 2009)Severino e Matte Blanco (Moretti & Vitali, 2018; con la prefazione di Emanuele Severino) e L’inconscio e il tempo. Freud, Epicuro, Sartre, Leopardi (Liguori Editore, 2019; con la prefazione di Cesare Milanese). Da qualche giorno è uscito l’ultimo suo libro Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio, presso le edizioni Mimesis (pp. 147, euro 12). 

 

Doriano Fasoli: Le chiediamo innanzitutto quale sia il tema e quale la ragion d’essere di questo libro.

 

Gabriele Pulli: Il libro parte dalla distinzione fra un pensare relativamente originale, che pensa qualcosa di non ancora pensato, ma che sarebbe stato pensabile nelle forme del pensiero di cui già si disponeva, e un pensare assolutamente originale, che giunge a pensare qualcosa che sino ad allora sarebbe risultato impensabile; laddove pensare qualcosa che sino ad allora risultava impensabile significa acquisire qualcosa di quello che sino ad allora era stato l’inconscio del pensiero. Ora, l’àmbito di questo secondo genere del pensare, del pensiero che sposta in avanti i limiti del pensiero, rendendo pensabile ciò che prima risultava impensabile, è quello del pensiero filosofico, o almeno di un suo specifico modo di essere particolarmente ristretto ed elevato. Come si vede, in questa idea di filosofia, svolge un ruolo essenziale il concetto di inconscio. Si direbbe addirittura che un’opera filosofica sia tale un quanto faccia i conti con il concetto di inconscio; più precisamente: in quanto svelando qualcosa del modo di essere dell’inconscio sospinge più in avanti i limiti del pensiero. E dunque, rispondendo in sintesi alla sua domanda: il tema è soprattutto l’inconscio del pensiero, la sua ragion d’essere è spingere in avanti i limiti del pensiero, proporre qualcosa di non ancora pensato in quanto impensabile, cogliere qualcosa di non ancora colto dell’inconscio del pensiero.

 

Ma allora di cosa si tratta in particolare? 

 

Di qualcosa di compendiabile nella formula per la quale eternità e temporaneità si danno contemporaneamente e inscindibilmente e tale loro inscindibilità risulta al tempo stesso come un affermarsi con maggior forza dell’eternità. È una strana formula; d’altra parte se così non fosse, se non fosse strana, se non apparisse a prima vista assurda, non potrebbe corrispondere al tentativo di spingere in avanti i limiti del pensiero. Il libro racconta innanzitutto come si arrivi a tale formula e poi cosa possa significare, quale sia il suo senso, che appare poi corrispondere al senso del dolore del desiderio e infine, persino, come ciò che rende la vita vivibile. 

28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.

9 gennaio 2022

«"Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia." Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli

 

 

Alberto Angelini è membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Ha insegnato psicofisiologia nella Facoltà di Psicologia dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ha svolto ricerche nell’Istituto di psicologia del CNR e nel Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove, precedentemente, aveva conseguito il diploma in regia. È stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, docente di psicologia clinica presso l’United Nation Interregional Crime and Research Institute (UNICRI), partecipando a campagne internazionali per la prevenzione sanitaria. Direttore di Eidos: Rivista di Cinema, Psyche e Arti visive. Autore di oltre sessanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra gli altri: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta (Liguori, Napoli 1988); Psicologia del cinema (Liguori, Napoli 1992); Otto Fenichel: psicoanalisi, politica e società (Cosmopoli, Bologna 1996); Pionieri dell’inconscio in Russia(Liguori, Napoli 2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e metodo sociale nell’opera di Otto Fenichel (Liguori, Napoli 2009), Psicoanalisi e Arte teatrale (Alpes, Roma 2014); Otto Fenichel: psicoanalisi, metodo e storia (Alpes, Roma 2019).

 

La conversazione si incentra sui temi del recente volume di Alberto Angelini Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologiaedito in questi giorni da Alpes Italia.

 

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, chi era Sergej Èjzenštejn?

 

Alberto Angelini: Sergej M. Èjzenštejn è stato il più importante regista della prima metà del Novecento. Egli spicca, nella storia del cinema, per i suoi lavori rivoluzionari, per l'uso innovativo del montaggio e per la composizione formale dell'immagine. 

 

Inizialmente Èjzenštejn si accostò al teatro, come allievo di Mejerchol'd, che fu ideatore della biomeccanica dell’attore, ispirata agli studi del grande fisiologo e psicologo russo Ivan Pavlov. Il regista, già dal periodo teatrale, si interessò molto alla psicologia e alla psicoanalisi. Pavlov, Freud e Mejerchol’d sono i primi nomi che ricorda nella sua ampia autobiografia; attraverso loro «combatté la sua prima lotta contro i mulini a vento della mistica». Èjzenštejn lesse Freud, per la prima volta, nella primavera del 1918 mentre prestava servizio come volontario nell’Armata rossa. In seguito, dal 1920 al 1923, lavorò a Gomel come funzionario locale per le iniziative culturali, viaggiando per tutta la Russia.

10 dicembre 2019

«Uomini e sogni. Conversazione con Vincenzo Marsili» di Doriano Fasoli



Vincenzo Marsili ha iniziato la propria formazione psicologica lavorando con i bambini nel Servizio di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale di Pisa e poi di Lucca e successivamente ha lavorato per più di trent’anni con gli adulti nel reparto psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale di Lucca. È socio fondatore dell’Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (ARPA) e membro didatta dell’International Association for Analytical Psychology (IAAP). Ha scritto i libri Tempo e Anima (Moretti e Vitali, Bergamo 2008); Sottile come il domani. Storie di un mondo ossessivo (Armando, Roma 2014); Madri Assassine. Tre letture di Euripide (Alpes Italia, Roma 2017). Il suo ultimo volume, Uomini e sogni, è stato recentemente pubblicato da Alpes Italia e su di esso si incentra questa conversazione.

Doriano FasoliDottor Marsili, come è nata l’idea di Uomini e sogni?

Vincenzo Marsili: È nata da due occasioni di riflessione. Una è legata ad un viaggio nel deserto del Nord Australia. Le tribù nomadi primitive che attraversavano il deserto si fermavano a fare culti (e forse a raccontarsi i sogni, come sostiene qualche esperto) presso le montagne sacre del Kata Tjuta che datano cinquecento milioni di anni. In questo scenario di arenaria rossa che sembra nato da un sogno risiedono ancora degli aborigeni che appartengono alla tribù degli Anangu. Nelle grotte di queste montagne sono ancora visibili le loro pitture. Gli Anangu definiscono Tjukurpa, o Dreaming, il tempo della creazione. All’inizio dei tempi la terra era piatta, oscura e priva di forme. Dalle sue viscere sono emersi poi gli esseri ancestrali, i quali, sognando, si sono fatti strada attraverso la landa desolata, e, prima di tramutarsi in quelle montagne, hanno lasciato dietro di sé delle orme, le prove del loro passaggio e i segni delle strade che hanno aperto. Tutto quello che c’è da sapere per sopravvivere in un deserto terribile, freddissimo e infuocato, pieno di cespugli dalle lame taglienti, insetti velenosi, ragni e serpenti mortali, è in questi sogni sognati che sono visibili nelle tracce che essi hanno lasciato dietro di sé. Il deserto e le leggi che lo governano sono un libro di sole immagini dove è scritta la conoscenza che proviene dal sogno degli esseri ancestrali. Sognando, l’uomo si connette col Sogno della creazione, e ciò permette di ritrovare le informazioni celate ovunque nella natura che servono per poter vivere in armonia con essa. In questo libro il sogno è analizzato proprio nella duplice funzione che gli attribuiscono gli Anangu: quella di dare immagini alle sensazioni, alle percezioni, e ai pensieri diurni, e quella di fare luce in un ammasso informe fornendo la conoscenza che apre strade. 

L’altro spunto di riflessione mi è venuto da un film recente: Maximilian. Il gioco del potere e dell’amore di Andreas Prochaska. Nel film c’è una scena che mi ha molto colpito. Siamo nel 1479: Massimiliano è stato mandato dal padre Federico III d’Asburgo a Gand nelle Fiandre, per prendere in sposa Maria che, dopo la morte del padre in battaglia, è rimasta unica erede del vasto e ricco ducato della Borgogna: in questo modo il ducato verrà strappato al Re di Francia Luigi XI che ne reclama il legittimo possesso, e annesso all’ impero asburgico. Da un matrimonio di interesse, tra i due diciottenni è nato un amore profondo. Maria viene imprigionata dai nobili borgognoni che vogliono costringerla a sposare il delfino del Re di Francia, un bimbo di sette anni. Per evitare di essere intrappolato in congiure e in una lunga guerra di logoramento, Massimiliano, pur disponendo di uno scarso contingente di mercenari e di contadini, ha deciso di uscire in campo aperto e di battersi contro l’esercito francese, uno dei più forti eserciti del mondo. Ora è lì, sulle alture di Guinegatte, in testa alle sue truppe, la picca in pugno, appiedato, con ai lati i suoi fidi compagni, che aspetta di veder comparire dall’orizzonte la fila dei cavalli nemici alla carica. Dall’esito di quella battaglia dipenderà il suo destino, quello del suo amore e del suo regno. Il prode luogotenente che è al suo fianco è preoccupato perché vede Massimiliano ancora provato dalle ferite riportate nell’attentato subito di recente; gli si avvicina per dirgli che è ancora in tempo per rinunciare. Massimiliano lo rassicura dicendogli con tono deciso: «Sono già stato qui». E, dopo una pausa, aggiunge: «In sogno». Alla fine di quella giornata di battaglia, Massimiliano attraverserà da vincitore un’immensa distesa di cadaveri, per correre nelle braccia dell’amata sposa che lo ha aspettato in preghiera. Ha avuto la meglio sull’esercito francese anche grazie all’impiego di una nuova, geniale tattica militare. 

11 settembre 2019

«Otto Fenichel. Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli



Alberto Angelini, psicoanalista, ha insegnato Psicofisiologia all’Università La Sapienza di Roma e svolto ricerche presso l’Istituto di Psicologia del Cnr. Diplomatosi in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, è stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e docente di Psicologia clinica presso l’Istituto internazionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia (UNICRI). Direttore responsabile della rivista Eidos. Cinema Psyche e Arti visive dal 2004 e direttore vicario della rivista Letteratura e cinema, è autore di oltre cinquanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra le opere principali di Angelini si ricordano: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta, prefazione di C. Musatti (1988); Psicologia del cinema, prefazione di L. Mecacci (1992); Pionieri dell’inconscio in Russia (2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e società nell'opera di Otto Fenichel (2009), pubblicati per i tipi Liguori. Psicoanalisi e Arte teatrale (2014) e il recente Otto Fenichel. Psicoanalisi, metodo e storia (2019), entrambi editi da Alpes Italia.

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, in quale periodo Otto Fenichel ha esercitato la sua professione di psicoanalista?

Alberto Angelini: Fenichel lavorò, negli anni Venti e Trenta, prima a Vienna, dov’era nato nel 1897, poi a Berlino. Il giovane Otto apparteneva ad una famiglia borghese. Fin dall’infanzia tenne un diario dei concerti e del teatro, tipico oggetto viennese, dove commentava ogni rappresentazione. Dotato di grande ingegno psicoanalitico e di una formazione culturale classica, oltre a svolgere una intensa attività clinica, fu autore di numerosi lavori scientifici. Gli amici sapevano com’egli possedesse una memoria fotografica non solo per le citazioni di Freud, con relativo numero di pagina, ma, ad esempio, per l’intero orario ferroviario europeo. Le sue proposte psicoanalitiche, tuttavia, sono basate sulla novità e profondità dei concetti avanzati e non sull’accumulo dei dati. Nel 1938 si trasferì negli Stati Uniti, dove esercitò la psicoanalisi in California fino all’anno della sua scomparsa, il 1946. La morte prematura impedì al suo pensiero di svilupparsi pienamente.

Qual è l’attualità del suo pensiero?

Fenichel considerava come valori non solo scientifici, ma addirittura etici, la razionalità e l’aspirazione al rigore metodologico. Egli, già negli anni Trenta, percepiva l’incombere, sul movimento psicoanalitico, d’idee antirazionaliste e antilluministe. In epoca contemporanea assistiamo ad un attacco alla razionalità, non solo in ambito psicoanalitico, ma in generale, su più fronti, socialmente e culturalmente. Fatta salva la casistica clinica che comunque possiede sempre una sua grande utilità riguardo al metodo, nella psicoanalisi, con il dilagare del pensiero bioniano, si è scivolati verso la metafisica, escludendo la dimensione di filosofica realtà che il pensiero psicoanalitico dovrebbe avere per aspirare ad uno statuto scientifico. Per altri versi sono addirittura ridicoli i criptolinguaggi di discendenza lacaniana, la cui sofisticata complicazione linguistica non trova motivi di sostegno. Anche il banale empirismo psicoanalitico, pur utile, non offre solidità di metodo. Chi, opponendosi a tutto ciò, volesse cercare le fondamenta metodologiche della psicoanalisi appellandosi ai neuroni e al cervello andrebbe incontro ad analoghe difficoltà di principio, su un altro versante. Infatti la strada del meccanicismo materialista si è sempre scontrata con le enormi diversità degli esseri umani. I cervelli, anatomicamente, sono uguali in tutto il pianeta, ma le persone no. Gli esseri umani sono profondamente diversi, per tutto ciò che riguarda le funzioni psichiche superiori, come il linguaggio, l’attenzione, la memoria e altro.

15 giugno 2019

«Trasgressioni Bataille, Lacan. Intervista a Silvia Lippi» di Doriano Fasoli



Silvia Lippi, bolognese di nascita, vive a Parigi. È psicoanalista, affiliata all’associazione Espace analytique di Parigi e all’ALIPSI di Milano. È psicologa all’ospedale psichiatrico Barthélemy Durand d’Étampes, ricercatrice presso l’Università di Parigi 7 e docente titolare dell’IRPA, Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata diretto da Massimo Recalcati, nelle sedi di Milano e Grottammare. Oltre a numerose pubblicazioni in Francia, nel 2017 è uscito in Italia La decisione del desiderio (Mimesis), già vincitore del Prix Oedipe le Salon 2014, mentre del 2018 sono Freud. La passione dell’ingovernabile (Feltrinelli) e Ritmo e melanconia (Poiesis).

Doriano Fasoli: Dottoressa Lippi, cosa suggerisce il titolo del suo nuovo lavoro Trasgressioni. Bataille, Lacan (che ricorda quello di Masud Khan, Trasgressioni, Bollati Boringhieri), pubblicato in questi giorni da Orthotes Editrice?

Silvia Lippi: Bisognerebbe chiederlo agli ipotetici lettori! Per quanto mi riguarda, ho voluto scrivere un libro sul desiderio, abbordato dal punto di vista del fantasma. Per fantasma intendo, alla maniera freudiana, lo scenario che ognuno di noi si costruisce per accedere all’oggetto del desiderio. E uno dei fantasmi fondamentali è proprio la trasgressione. Non solo dal punto di vista strettamente sessuale: il bimbo che ruba di nascosto la marmellata è spinto da un moto trasgressivo, come il feticista che invece di innamorarsi di una donna si innamora di una pelliccia, o di una scarpa. Il concetto di trasgressione rinvia alla vergogna ma anche alla colpa, quindi all’infrazione, alla disobbedienza, dunque alla legge. Uno psicoanalista non può rimanere indifferente a tutto questo materiale, e agli interrogativi connessi che riguardano la vita psichica. Che rapporto esiste tra la trasgressione come atto e la trasgressione come fantasma? Il desiderio può esistere senza la trasgressione? Come si articolano i concetti di «legge» e di «trasgressione»? E a che tipo di godimento ci riferiamo quando mettiamo in atto un fantasma di trasgressione? Sono questi i quesiti a cui il libro cerca di rispondere.

Nonostante la mole bibliografica esistente, cosa l’ha spinta a occuparsi di Bataille e Lacan?

Ogni causalità è surdeterminata: voglio dire, le ragioni che mi hanno spinta a scrivere il libro sono molteplici. Prima di tutto, mi chiamo Silvia, come Sylvia Maclès, che è stata prima la moglie di Bataille e poi la moglie di Lacan. Scherzi a parte, ho conosciuto Bataille sui banchi del liceo, a Bologna, grazie al mio professore di letteratura, Gian Paolo Roffi, di cui mi ricordo un corso stupefacente sul romanzo Storia dell’occhio. A quell’epoca, non sapevo ancora che sarei andata a vivere a Parigi un giorno, tantomeno che avrei scritto un libro su Georges Bataille. Ricordo solamente che rimasi colpita dallo strano erotismo di questo suo racconto, gioioso e sconsolato nello stesso tempo. E sicuramente anche dai personaggi della storia, certo così poco epici. Vorrei qui precisare che la trasgressione nell’opera di Bataille non è mai ostentata. È una trasgressione sobria, rigorosa, oserei dire, come fosse l’effetto dell’amor fati. Non vi è nessuna provocazione, nessuna sfida all’Altro e alla sua legge. La trasgressione è una ricerca di verità che passa attraverso il desiderio del soggetto.

28 marzo 2019

«Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini. Conversazione con Bruno Moroncini» di Doriano Fasoli



Bruno Moroncini (Napoli, 1946) ha insegnato Filosofia morale, Antropologia filosofica e Psicologia clinica nelle Università di Messina e Salerno. Per Cronopio ha pubblicato: Mondo e sensoHeidegger e Celan (1998); La comunità e l’invenzione (2001); Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone (2005, II ed. 2010); con Rossana Petrillo, L’etica del desiderioUn commentario del seminario di Jacques Lacan (2007); Walter Benjamin e la moralità del moderno (2009); Gli amici non si danno del tu (2011); Lacan politico (2014), Perdono giustizia crudeltàFigure dell’indecostruibile in Jacques Derrida (2016). L’ultimo suo lavoro, pretesto del nostro incontro, s’intitola: La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (edito sempre da Cronopio).

Doriano Fasoli: Professor Moroncini, quando Pasolini avverte per la prima volta che i tentacoli del potere si stanno insinuando in lui?

Bruno Moroncini: Non saprei datare con assoluta precisione il momento in cui Pasolini si rende conto di essere anche lui parte, sebbene in un modo periferico, del potere, né so se ciò sia possibile di per sé. Quel che è certo è che da un certo punto in poi, verso la fine degli anni ’60, forse per la notorietà procuratagli dal cinema, Pasolini incomincia ad avvertire che la gente intorno a lui lo considera un uomo di potere. È lui stesso a darne testimonianza: in un articolo del giugno del 1969, intitolato «Travestiti da poveri», racconta una sua esperienza accadutagli in Turchia dove si è recato per girare alcune scene di Medea. Il sindaco della cittadina dove si trova, accortosi della sua presenza ad una rappresentazione teatrale, lo tratta con grande deferenza, lo fa sedere in un posto d’onore del teatro all’aperto, insomma fa gli onori di casa all’ospite famoso. Pasolini si interroga allora su due cose: sul fatto che anche lui è trattato come una persona importante, di potere, e che il povero sindaco della cittadina turca soggiace al fascino che promana dal potere. Il punto è che questo fascino lo prova anche Pasolini che lo confessa nello stesso articolo ricordando l’emozione intensa e sconvolgente che ha provato all’apparizione in un film di Miklós Jancsó di un gruppo di ufficiali ungheresi a cavallo che incarnavano ai suoi occhi la forma più estrema del potere, quella della possibilità di infliggere la morte. Ne era totalmente affascinato. Credo che da queste esperienze nasca la riflessione sul potere che occupa l’ultimo Pasolini e che in esse siano presenti in nuce anche le tesi della abiura della Trilogia della vita.

31 gennaio 2019

«La situazione analizzante di Jean-Luc Donnet. Conversazione con Roberta Guarnieri» di Doriano Fasoli



Medico, psichiatra e psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psycoanalytic Association, Roberta Guarnieri ha di recente curato il volume di Jean-Luc Donnet La situazione analizzante (pubblicato da Alpes). Ne parliamo con lei.

Doriano Fasoli: Dottoressa Guarnieri, chi è Jean-Luc Donnet e perché fino ad oggi non è stato tradotto nulla in italiano?

Roberta Guarnieri: Jean-Luc Donnet è uno psicoanalista della SPP (Société Psychanalytique de Paris), membro titolare e formatore. È, per dirla molto sinteticamente, uno degli analisti più autorevoli non solo di quella società ma del panorama psicoanalitico francese. Donnet, che è psichiatra di formazione, ha attraversato tutte le stagioni importanti e anche burrascose della psicoanalisi in Francia. È stato analizzato da Serge Viderman, autore di quel libro, mai tradotto in italiano, La construction de l’espace analytique (Denoël, Paris 1970)che ha segnato molti aspetti del dibattito negli anni Settanta… Ed ha anche fatto una cosiddetta tranche con Joyce McDougall (come molti analisti della sua generazione!). È un po' più giovane di André Green e con lui ha sviluppato un intenso scambio che è culminato nella scrittura, a due mani, di un libro, importante anch'esso, L’Enfant de ça. Psychanalyse d'un entretien: la psychose blanche (Les Édition de Minuit, Paris 1973): questo libro è uscito in italiano per l'editore Borla con il titolo La psicosi bianca (in collaborazione con J.-L. Donnet) nella collana «Opere di André Green». I motivi di quella scelta editoriale sono stati diversi e non li conosco nei dettagli, ma mi preme dire, prima di tutto, che questa traduzione in italiano di uno dei numerosi libri di Jean-Luc Donnet mi è sembrata doverosa anche in ragione di quella vicenda.

Donnet ha lavorato come analista privatamente ma, all'inizio della sua carriera, ha anche svolto il lavoro di psichiatra, in Algeria prima, in Francia poi; di questa sua esperienza algerina mi ha parlato in una delle tante conversazioni private che ho avuto con lui in questi ultimi anni. È importante invece ricordare, l'ho fatto anche nella mia introduzione al libro, che egli è stato direttore del Centre Favreau, il Centro di Consultazione e Trattamento (CCTP) della SPP, fondato all'inizio degli anni Cinquanta, riconosciuto dallo Stato francese e attivo tuttora. In questo Centro Clinico operano una parte degli analisti della SPP; esso offre la possibilità alla popolazione di Parigi di poter accedere alla cura analitica e ai trattamenti ad essa ispirati (faccia a faccia analitico, psicoterapia di gruppo e psicodramma analitico) a titolo totalmente gratuito per il paziente. Gli analisti sono pagati, poco debbo dire, dallo Stato per i trattamenti, mentre le riunioni di discussione clinica, di cui poi magari parlerò, vengono fatte a titolo gratuito. Ci tengo a mettere in evidenza questa parte del lavoro clinico di Donnet perché esso ha ispirato una parte consistente della sua riflessione clinico-teorica. Proprio pochi giorni fa mi raccontava dell'ultimo colloquio al Centre dal titolo «Malgré tout, l’écoute analytique», il suo tema di fondo che ritorna, ancora una volta, come sorgente ed oggetto di riflessione a ridosso della clinica con pazienti molto sofferenti e molto difficili da trattare per gli analisti. 

1 giugno 2018

«Discorso interno e auto-comunicazione. Conversazione con Franco Fanelli» di Doriano Fasoli



Franco Fanelli, laureato in Lettere, conduce da lungo tempo ricerche nel campo delle scienze del linguaggio ed ha avuto esperienze di regia documentaristica e di critica cinematografica. Con Francesco Contaldo ha pubblicato L’affare cinema (Feltrinelli, 1979) e di recente, con lo stesso autore, Hollywood e Colossal. Nascita, splendori e morte della grande Hollywood (Alpes, 2017). Il suo nuovo libro, Discorso interno e auto-comunicazione, edito da Alpes, si incentra su delicate questioni di psicolinguistica, che qui ci illustra.

Doriano Fasoli: Fanelli, quali temi affrontano i cinque saggi che compongono il suo nuovo libro Discorso interno e auto-comunicazione?

Franco Fanelli: Il sottotitolo del volume, «Cinque saggi sulle forme del discorso verbale», ci può dare una prima indicazione. Ho dedicato, infatti, uno specifico saggio a ciascuna delle cinque principali forme del discorso verbale: orale, scritto, gestuale (come lingua dei segni dei sordi), testuale e interno, descrivendo le loro caratteristiche e sottolineando la complessità della sfera comunicativa umana che mi interessava mettere in luce. Si tratta, in sostanza, di cinque ricerche nel campo delle scienze del linguaggio con cui si osserva da più punti di vista il discorso verbale e le sue forme. Affrontando, ad esempio, il tema del linguaggio orale, ho potuto svelare i punti di contatto tra le tesi storico-culturali di Eric Havelock e quelle linguistiche di Roman Jakobson oppure, trattando il tema della lettura silenziosa dei testi, ho potuto tenere presente sia gli studi dello storico inglese Paul Saenger sia quelli del neuroscienziato sovietico Aleksandr Sokolov. La particolare attenzione, rivolta ai processi di auto-comunicazione, poi, mi ha permesso di chiarire aspetti controversi delle diverse forme del discorso verbale ed anche di effettuare una rilettura imprevista di un passo del Cours de linguistique générale che ad un tratto mi è sembrato incomprensibile senza un riferimento al «linguaggio interno».

Da quale idea prende le mosse il suo lavoro?

Un’idea-guida che circola in tutti i saggi è quella secondo cui le diverse forme del discorso verbale sono in relazione storica e funzionale con le tecnologie attraverso le quali sono espresse (fonia, grafia, gestualità, testualità, endofonia) e si fondano su una base semantico-cognitiva comune derivata dalla natura sociale del processo comunicativo umano. Da questa premessa deriva una conseguenza metodologica basilare per poter impostare correttamente l’analisi delle forme del discorso ovvero l’idea che la comunicazione umana non si attua attraverso linguaggi (verbali o non verbali), al contrario essa è la premessa al costituirsi di forme linguistiche. Questa impostazione fatica a palesarsi nel campo delle teorie linguistiche mentre è più evidente negli studi sulle lingue dei segni dei sordi (vedi Volterra) oppure in quelli sull’origine della comunicazione (vedi Tomasello), dove è molto chiaro quanto la competenza sociale sia una premessa e una condizione indispensabile al costituirsi di qualunque scambio semantico comunque veicolato. Ovvero, come afferma anche Bruner, la competenza comunicativa si può sviluppare solo come parte di una più vasta competenza sociale. 

Cos’è propriamente il «discorso interno»?

Il «discorso interno» è un argomento estremamente poco frequentato sia negli studi linguistici che psicologici. Questo lavoro è in gran parte anche il tentativo di restituire a questo tema la dignità che dovrebbe avere soprattutto nel campo delle scienze del linguaggio. Nell’analisi di tutte le forme di discorso trattate ci si sforza di mettere in luce quanto siano decisivi i processi di comunicazione interna per la corretta realizzazione della comunicazione esterna. Ad esempio, nei saggi sul discorso scritto e su quello testuale si mostra che i processi di riformulazione endofonica propri della lettura/scrittura, che sono stati sempre pressoché ignorati, sono invece decisivi per chiarire il ruolo della sintassi e dell’ordine del discorso nella comunicazione scritta. L’ultimo saggio, poi, intitolato appunto «Il discorso interno», delinea un inquadramento generale di questo tema ripercorrendo gli studi di Lev S. Vygotskij e quelli di Pavel P. Blonskij, che hanno dibattuto sull’argomento negli anni Trenta, e riproponendo anche, in una nuova chiave, la storica contrapposizione Vygotskij/Piaget sul linguaggio egocentrico. Il saggio chiarisce un punto fondante dell’analisi dei processi comunicativi umani: non può sussistere alcuna forma di comunicazione esterna che non si basi sulla comunicazione interna. Dunque, il vero oggetto di una teoria della comunicazione è la comunicazione interna, un fenomeno multistratificato che va di conseguenza analizzato a più livelli. Il discorso interno è certamente il tratto più identificabile della comunicazione interna. Per cercare di chiarirne i contorni e metterne a fuoco gli aspetti salienti ho fatto ricorso a parametri provenienti da numerosi campi: storico, filosofico, semiotico, linguistico, psicologico, glottoantropologico, neurofisiologico. Ma certamente si tratta di un primo approccio per un lavoro di ricerca in gran parte ancora di là da venire.

20 maggio 2018

«Il giardino dell''umano. Conversazione con Anna Rita Scolamiero» di Doriano Fasoli



Anna Rita Scolamiero è counselor formatore-supervisore ad indirizzo psicosintetico. Si è formata presso la Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica (SIPT) di Firenze e da circa 15 anni è iscritta al Coordinamento Nazionale Counsellor Professionisti (CNCP). Consulente d’impresa per la selezione, formazione e valorizzazione delle persone, interviene nelle aziende per facilitare i processi di cambiamento e lo sviluppo organizzativo, realizzando anche progetti di Responsabilità Sociale d’Impresa. Conduce seminari e docenze dedicati all’evoluzione interiore e all’espressione dei talenti professionali. Con Massimo Tomassini e Pietro Trentin è autrice del libro Il giardino dell’umano. Counseling di gruppo nelle organizzazioni, edito da Alpes nel 2017, sul quale si incentra questa nostra conversazione.

Doriano Fasoli: Com'è nata l'idea di questo libro, Il giardino dell’umano, pubblicato in questi giorni da Alpes?

Anna Rita Scolamiero: Il volume nasce dalla nostra comune volontà di introdurre nel mercato editoriale italiano un’opera sul counseling organizzativo che fosse il frutto di esperienze reali, da noi realizzate negli ultimi anni all’interno di contesti socio-organizzativi. Il libro, a nostro parere, rappresenta per questo motivo una novità nell’ambito della saggistica inerente il counseling aziendale, metodologia per lo sviluppo delle persone nei sistemi socio-organizzativi. Abbiamo scelto un approccio orientato alla concretezza, offrendo testimonianze e strumenti di utilità pratica; a conferma di ciò, viene lasciato ampio spazio alla descrizione di un’esperienza quadriennale di counseling di gruppo, che riteniamo unica in Italia, da noi realizzata in una grande realtà dell’amministrazione pubblica, la Sogei S.p.A. Ulteriore fattore di novità è rappresentato dalla presenza di 50 «schede attività» per l’applicazione in ambito professionale di quanto descritto. 

Per sintetizzare, il volume è finalizzato ad illustrare, approfondire, contestualizzare il counseling di gruppo aziendale, evidenziando il valore di questa metodologia innovativa per lo sviluppo e l'empowerment delle persone nelle organizzazioni, attraverso una trattazione teorico-metodologica valorizzata dal racconto di esperienze concrete.

A quale pubblico è rivolto?

Il volume si rivolge principalmente ai counselor, ma risulta di potenziale interesse per tutti gli operatori HR del mondo consulenziale e aziendale, quali responsabili del personale, responsabili dello sviluppo del personale, consulenti, HR manager, coach, formatori dell’area comportamentale, facilitatori. Si tratta di una popolazione, quella dei counselor, in forte crescita negli ultimi anni, che sta maturando un interesse specifico verso il counseling aziendale nelle sue reali applicazioni e strumenti.

20 marzo 2018

«L’inconscio e l’aporia del nulla. Intervista a Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli



L’inconscio e l’aporia del nulla (Moretti & Vitali, pp. 108, euro 12), l’ultimo libro di Gabriele Pulli, professore di Psicologia filosofica presso l’Università di Salerno, è una sorta di seconda parte del precedente Freud e Severino (Moretti & Vitali 2009; premio De Risio 2010).

Doriano Fasoli: Un altro suo libro, dunque, al confine fra tematiche psicoanalitiche e tematiche filosofiche…

Gabriele Pulli: Non è una cosa cercata ma una cosa trovata. Inizialmente, per me, per puro caso. Ero da poco tempo uno studente di filosofia e – all’epoca alla Standa – trovai in uno scaffale un libricino arancione dal titolo Al di là del principio del piacere, all’epoca al costo di mille lire. L’autore, ovviamente, era Sigmund Freud. Poiché non avevo ancora avuto un’esperienza forte con testi di filosofia, quello fu il mio primo rapporto diretto con la filosofia. Lo so che non si tratta di un testo filosofico in senso stretto, e neanche intendo dire che Freud sia stato un filosofo, ma vi trovai una gran quantità di problemi filosofici. E per di più di quelli che interessavano me. Intendo dire problemi in cui Freud si era imbattuto suo malgrado. Da allora mi è rimasta la convinzione che i problemi filosofici più profondi non siano quelli che ci si pone ma quelli nei quali ci si imbatte indipendentemente dalla propria volontà, quelli contro i quali si sbatte la testa. Come era capitato appunto a Freud.

Ma che rapporto c’è fra l’inconscio e l’aporia del nulla?

L’aporia del nulla è appunto un problema filosofico. Probabilmente il più profondo. Il non essere non è, ma con il solo pensarlo lo si tratta come qualcosa che è, appunto come l’oggetto del pensiero. Ed è in questo, nel trattare il nulla come qualcosa, che consiste l’aporia del nulla. Il nulla però può essere pensato, qualora lo si riesca a pensare come inesistente. In questo caso, non è trattato come qualcosa ma appunto come nulla, sicché l’aporia può essere risolta. È quanto fa Severino. Anche l’inconscio è di per sé la sfera dell’impensabile e tuttavia le teorie dell’inconscio in quanto tali mirano a pensarla in qualche modo. Ora, il tema della impensabilità o pensabilità del nulla e il tema dell’impensabilità o pensabilità dell’inconscio sono strettamente connessi. Forse sono addirittura lo stesso tema: un tema che può sembrare astratto ma che racchiude il senso del dolore, del desiderio, della nostalgia, della solidarietà, e di tutto ciò che più intimamente riguarda ciascuno di noi.

Lei ha citato la soluzione severiniana dell’aporia, più volte contestata e altrettante volte ribadita. Come si pone il suo libro rispetto a questa?

La mia intenzione non è fare un passo indietro rispetto alla soluzione severiniana dell’aporia, contestandone la validità, bensì un passo avanti, accettandone dunque la validità, ma affrontando al tempo stesso temi e problemi che si aprono a partire da tale soluzione. Dunque, in questo senso, se mi posso permettere di dirlo, integrandola.

15 marzo 2018

«Un'altra vita. Conversazione con Diego De Leo» di Doriano Fasoli



Diego De Leo è uno psichiatra di fama internazionale. La sua specialità riguarda lo studio dei comportamenti suicidari, cui ha dedicato l’intera carriera, creando anche la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio (10 settembre di ogni anno), un evento oggi seguito da più di cento nazioni. Professore emerito di psichiatria alla Griffith University di Brisbane, Australia, dove ha lavorato negli ultimi 20 anni dirigendovi l’Australian Institute for Suicide Research and Prevention, De Leo ripropone, a distanza di alcuni anni dalla fortunata prima edizione, una seconda uscita del suo libro Un'altra vita. Viaggio straordinario nella mente di un suicida (Alpes Editore, Roma). Pubblicato in origine con il titolo di Turning Points, il libro raccoglie le storie di persone scampate per puro caso a un tentativo letale di suicidio; anche persone che, invece, un proprio caro l’hanno perso definitivamente vi narrano la propria esperienza di ‘sopravvissuti’.

Doriano FasoliProfessor De Leo, Lei è abituato a scrivere testi scientifici, come mai questo libro per il grande pubblico?

Diego De LeoPerché la prevenzione del suicidio riguarda tutti, non solo gli esperti del settore. Volevo quindi cercare di aumentare la conoscenza e la consapevolezza dei lettori sui molti motivi diversi che spingono un individuo a darsi la morte. Per raggiungere questo scopo non intendevo far ricorso al linguaggio tecnico ma usare le parole dei protagonisti delle storie stesse. Il volume raccoglie così una selezione di esperienze umane fortunosamente non conclusesi con la morte del loro interprete principale, che nel libro diventa narratore dell’avventura vissuta. Meglio di qualsiasi testo specialistico, queste storie riescono a rappresentare con formidabile immediatezza quell’escalation di avvenimenti ed emozioni che ha portato i soggetti a desiderare di morire.

Dunque è per questo che Lei ha parlato di «viaggio straordinario» nel titolo del libro?

Di suicidio, in genere, si parla poco e male. Quando lo si fa, magari in un articolo di stampa, o si sensazionalizzano le storie o si semplificano all’eccesso, data la difficoltà di fornire un quadro comprensibile del contesto esistenziale della persona suicidatasi. Oppure ci si confronta con il linguaggio scarno del demografo o quello distaccato del medico legale. In questo libro, una serie di persone narra con il linguaggio della vita di tutti i giorni la propria terribile esperienza e la decisione di darsi la morte. Questa poi non è sopraggiunta per ragioni del tutto imprevedibili o fortuite, come può essere miracoloso sopravvivere ad un colpo di arma da fuoco alla testa o alla precipitazione dal terzo piano. È chiaro che queste persone avrebbero potuto morire: il sopravvivere a quella scelta estrema dà invece loro la forza per ricominciare una vita diversa, «un’altra vita», appunto, come indica il titolo del libro. E questo è il messaggio principale del mio volume, e cioè che il desiderio di morire e il tentativo di suicidio rappresentano l’acme di una crisi, passata la quale però si può tornare a vivere, spesso più forti di prima.