20 marzo 2014

«Foucault, Derrida: Cogito e Grande internamento», di Silvia Maria Pettorossi













La polemica tra Foucault e Derrida si accende attorno alle tre pagine che Foucault in Storia della follia dedica al cogito cartesiano (pp. 51-53) [1] trovando il suo punto di origine nella conferenza di Derrida Cogito e storia della follia, tenuta il 4 marzo 1963 al Collège philosophique, successivamente pubblicata nella «Revue de métaphysique et de morale» (1963: nn. 3-4), e infine inserita fra i saggi de La scrittura e la differenza (1967).

La conferenza di Derrida, che era stato allievo di Foucault, pur manifestando riconoscenza e apprezzamento per il lavoro del maestro, è un’analisi fortemente critica dell’opera, che mette in discussione una delle tesi fondamentali della Storia della follia, il cogito cartesiano come presupposto ideologico del Grande internamento e della radicale inversione di tendenza, rispetto alla Renaissance, nella valutazione e nel trattamento della follia.

L’analisi di Derrida smonta pezzo per pezzo l’interpretazione del passo della Prima Meditazione di Descartes, che secondo Foucault sarebbe all’origine dell’espulsione della follia dal pensiero e della sua esclusione dal soggetto che dubita [2]. Per motivi di chiarezza espositiva, riporto qui integralmente il passo cartesiano:

Benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io sono qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti, di essere vestiti d’oro o di porpora, mentre sono nudi affatto, o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro [3]. Ma costoro son pazzi [amentes], ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte meno verosimili ancora, che quegl’insensati quando vegliano [& eadem omnia in somnis pati, vel etiam interdum minus verisimilia, quam quæ isti vigilantes]. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? [4] (corsivi miei)

Descartes prosegue rilevando che, tuttavia, almeno le immagini dei sogni, pur se prive di coerenza, corrispondono a qualcosa di reale, così come i Satiri e i Sileni dei pittori non potrebbero essere rappresentati senza i colori. E che pure ammettendo che siano tutte immaginarie anche queste cose, restano sempre le “qualità primarie” dei corpi, come estensione, figura, quantità, grandezza e il loro numero, vale a dire le qualità oggetto della matematica, della quale non possiamo dubitare [5].