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20 dicembre 2018

«Il bagno di Diana. Conversazione con Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Roma, Nutrimenti; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Firenze, Clichy) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni. Del 2017 è la sua traduzione dell’ultimo romanzo di Klossowski Il Bafometto, edito da Adelphi.

Doriano Fasoli: Girimonti Greco, qual è la genesi de Il bagno di Diana, pubblicato di recente da Adelphi? Perché Klossowski decide di dedicare un intero libro a questo mito?

Giuseppe Girimonti Greco: «Non sono uno studioso di Klossowski, ma proverò a rispondere ugualmente…» Questo era l’incipit della mia risposta alla tua prima domanda, prima che la collera di Diana si abbattesse su questo testo… Ma andiamo con ordine: ti rispondo – anche nella speranza di divertire i lettori – raccontando una storiella un po’ inquietante, se non altro per via della sua stregonesca e ‘diabolica’ (è il caso di dire) valenza simbolica. Avevo deciso di commentare l’incipit del libro, che è forse fra i più belli di tutta l’opera di questo autore. Nelle pagine introduttive Klossowski spiega, con inconsueta semplicità:

Vorrei parlarvi di Diana e Atteone: due nomi che evocano, nella mente del lettore, poche o molte cose: una situazione, delle posture, delle forme, il soggetto di un quadro, ormai quasi solo leggendario, poiché l’immagine e il racconto, divulgati dalle enciclopedie, hanno ridotto alla semplice visione di un gruppo di donne sorprese al bagno da un intruso questi due nomi, il primo dei quali è solo uno tra i mille con cui la divinità fu conosciuta da un’umanità scomparsa.

E ancora:

[S]e il lettore non è del tutto privo di memoria, e di ricordi trasmessi da altri ricordi, questi due nomi possono improvvisamente rifulgere come un’esplosione di splendori e di emozioni.

L’intento di Klossowski è chiarissimo, la sua strategia argomentativa ben precisa: fare piazza pulita di tutte le interpretazioni convenzionali che hanno addomesticato (e spesso snaturato) questo mito così arcaico e perturbante; tornare alle origini, alle fonti più antiche, al suo nucleo primigenio, da cui ci separano millenni di cultura, per così dire, ‘anti-pagana’; fornire una lettura non condizionata dalle innumerevoli incrostazioni iconografiche, letterarie (soprattutto classicistiche) che hanno trasformato quel mitologema (la scena culminante della ‘leggenda’) in un episodio di blando, aggraziato voyeurismo (ferocemente punito da una dea proverbialmente fiera e vendicativa); per far questo, Klossowski dice di voler approfittare della buona disposizione ‘culturale’ del suo lettore volenteroso, di voler far leva su quei pochi frammenti di memoria culturale che resistono nella contemporaneità, nel nostro immaginario (se non nell’inconscio collettivo contemporaneo, verrebbe da dire): reminiscenze di reminiscenze, bagliori fugaci, intermittenze in grado di funzionare come ‘illuminazioni retrospettive’, come «estasi metacroniche» (l’espressione la ricavo dai saggi proustiani di Francesco Orlando, un teorico che amo molto… e c’è da chiedersi che cosa Orlando avrebbe potuto dire su questo testo, così vistosamente imperniato sul ritorno del rimosso e del represso…).

8 febbraio 2018

«Il bafometto. Intervista a Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Nutrimenti , Roma; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Clichy, Firenze 2017) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma 2018), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni.

Doriano Fasoli: Cosa racconta Il bafometto, l’ultimo romanzo di Pierre Klossowski, appena pubblicato da Adelphi nella tua traduzione?

Giuseppe Girimonti Greco: Non è facile “raccontare” Il bafometto. La parte più propriamente narrativa del testo è il lungo Prologo (uscito su rivista, autonomamente, già nel 1964), che può essere considerato un bell’esempio di pastiche di almeno tre tipologie testuali: il verbale di polizia, il saggio storico-erudito, la narrazione alla Walter Scott. Klossowski ricostruisce (reinventadola) la fosca vicenda del processo ai Templari (accusati, com’è noto, di eresia, idolatria e sodomia), che portò rapidamente alla sospensione dell’Ordine. I personaggi evocati sono in parte storici (Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret, Jacques de Molay, ecc.), in parte fittizi: in una lettera al critico Jean Decottignies che è stata pubblicata in appendice a una monografia dello stesso Decottignies (Klossowski, notre prochain, H. Veyrier, Paris 1985), e che in questa edizione abbiamo riprodotto a mo’ di postfazione («Note e chiarimenti sul Bafometto»), Klossowski dice di aver accarezzato, già a partire dal 1964, «il progetto di un romanzo storico che rievocasse le circostanze della soppressione dell’Ordine dei Templari»; tuttavia, molto presto lo scrupolo di attendibilità storica cede il passo a un progetto di altra natura; l’idea di partenza ridesta in lui «il ricordo di una remota lettura di Walter Scott», risalente alla prima adolescenza. Infatti, «i nomi di due dei protagonisti del Prologo – Bois Guilbert e Malvoisie – sono mutuati da quelli dei due Templari che compaiono in Ivanhoe» (Brian de Bois-Guilbert e Philip de Malvoisin). Ma Klossowski si diverte a inserire nel suo racconto anche altri personaggi dai nomi quanto mai “parlanti”: Valentine de Saint-Vit (acerrima nemica del Tempio) e Ogier de Béauseant (il bell’efebo che porta la discordia in seno all’Ordine). Sulla questione dell’onomastica klossowskiana il discorso sarebbe troppo tecnico; mi limiterò a notare, en passant, che vit, nel francese medievale (quello dei fabliaux, per intendersi), indica il membro virile (dal latino vectis, “leva”, “stanga”, “sbarra” e simili); e che séant è sinonimo colloquiale di derrière, fessier, postérieur; cosicché, volendo, ci si sarebbe potuti avventurare in esperimenti onomastici – per così dire – goliardici: “Valentina della Santa Verga” e “Oggieri di Belsedere”; soluzioni scartate a monte, ché alla lunga avrebbero sicuramente stancato l’orecchio. Come dicevo, solo nel Prologo abbiamo una narrazione vera e propria, molto tesa, peraltro; gotica, cupa e… corrusca (per usare un aggettivo caro a Paolo Poli, che tanto amava le cose neogotiche, il finto Medioevo); Klossowski la definisce «favola allegorica, fiaba orientale», apologo gnostico «che risente (Blanchot dixit) del modello del racconto orientale del Vathek di Beckford»; personalmente, io ho letto Il bafometto, sin dall’inizio, come un vero e proprio conte brun: ovvero, come una narrazione ricca di momenti sublimi e grotteschi insieme, e caratterizzata da un andamento policier molto riuscito (visto che sulla “tenebrosa vicenda” che distrugge l’Ordine dall’interno indaga un vero e proprio detective: il Commendatario, abilissimo nel trovare il bandolo della matassa e nel venire a capo del mistero, salvo poi decidere di nascondere per sempre le “tracce” dello scandalo).