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11 dicembre 2017

«Colletti, Foucault e il marxismo» di Luciano Albanese


Diego Rivera, Zucchero di canna. 1931.

A prima vista affrontare il tema dei rapporti tra Colletti e Foucault potrebbe sembrare tempo perso. Foucault non è ancora stato pubblicato interamente, ma per quello che ho potuto leggere finora il nome di Colletti non sembra comparire nelle sue opere. In Colletti compare, ma solo due volte. La prima citazione è in Pagine di filosofia e politica (Colletti 1989, p. 125), ripresa letteralmente in Fine della filosofia e altri saggi (Colletti 1996, p. 36), e non ha il minimo rilievo. La seconda è in Tra marxismo e no (Colletti 1979, pp. 61-2), ed è più interessante, anche se molto breve. Colletti infatti individua nello strutturalismo francese, in particolare Michel Foucault, la fonte della concezione della scienza (della storia come scienza) di Althusser. In realtà la concezione della storia e della scienza di Michel Foucault, come ha dimostrato Paul Veyne, è molto più complessa di quella strutturalista e di quella di Althusser, e lo stesso Foucault ha sempre preso le distanze dallo strutturalismo. Quello che sembra emergere dalla seconda citazione, in ogni caso, è una sottovalutazione di Foucault da parte di Colletti, e uno scarso interesse per la sua opera.

Forse si potrebbe anche parlare di ostilità: Foucault era tra gli intellettuali firmatari del Manifesto contro la repressione del luglio ’77, ed appoggiò pubblicamente il Movimento studentesco dello stesso anno. Ma Colletti era stato una delle ‘vittime’ di questo stesso movimento, che all’apertura dell’Anno accademico gli aveva impedito ripetutamente di fare lezione, costringendolo a procurarsi un insegnamento nella più tranquilla Svizzera. E conoscendo il carattere passionale di Colletti, difficile non pensare che in questo palese disinteresse interagissero anche motivi personali.

L’ostilità del Movimento studentesco del ’77 nei confronti di Colletti – a voler essere generosi – si legava alle polemiche suscitate in Italia dalla pubblicazione dell’Intervista politico-filosofica e dell’accluso saggio Marxismo e dialettica, usciti nel dicembre del 1974 presso Laterza. Tanto a destra quanto a sinistra si era data immediatamente una lettura politica dell’opera. A destra Colletti era stato esaltato come una sorta di Paolo a Damasco, che finalmente aveva visto la luce e aveva rotto col marxismo, il vaso di Pandora di tutti i mali. Dal canto suo la sinistra, in particolare quella legata al PCI, era partita a testa bassa, accusando Colletti di ‘tradimento’ e innescando un effetto domino che sfocerà nell’aperta ostilità verso Colletti degli studenti del Movimento del ’77. Se si pensa che Colletti e La Sinistra, il mensile da lui diretto, erano stati uno dei punti di riferimento del Movimento studentesco del ’68, questo improvviso voltafaccia della sinistra, ancora oggi, non può non suscitare perplessità.

3 giugno 2013

«Lucio Colletti e 'Società'» di Luciano Albanese










Società è stata una rivista, prima trimestrale e poi bimestrale, espressione diretta della politica culturale del PCI. Essa vide la luce nel gennaio del 1945 e cessò le pubblicazioni nel 1962, passando successivamente per due diversi editori, prima Einaudi e poi Parenti. In questo arco di tempo essa raccolse i contributi di firme prestigiose. Citiamo fra queste Delio Cantimori, Cesare Luporini, Natalino Sapegno, Ernesto de Martino, ma l’elenco potrebbe continuare per alcune pagine, perché praticamente buona parte della cultura italiana del dopoguerra offrì i propri contributi alla rivista. In un certo senso, si potrebbe dire: «Era difficile restarne fuori»; e questo vale anche per Lucio Colletti.

La partecipazione di Lucio Colletti a Società rappresenta un momento importante tanto nel suo percorso intellettuale e politico quanto nella storia del marxismo italiano e nelle vicende politiche ad esso direttamente o indirettamente conseguenti. Nell’«Intervista politico-filosofica» del ’74 Colletti, sollecitato dall’intervistatore (che era Perry Anderson, direttore della prestigiosa rivista inglese New Left Review, dove l’intervista era stata originariamente pubblicata in lingua inglese, nell’estate del ’74, prima di comparire in italiano per i tipi di Laterza nel dicembre dello stesso anno), si sofferma a lungo sull’esperienza di Società. Colletti aveva iniziato a collaborare con la rivista culturale del Partito Comunista Italiano nel 1952, con lo pseudonimo di Giovanni Cherubini. Colletti era allora impiegato al Ministero degli Affari Esteri, dove era stato chiamato da Carlo Sforza, e gli sembrò più opportuno non usare il suo nome, che peraltro cominciò ad usare dopo solo un anno. L’espediente dovette sembrargli inutile, dal momento che egli si era iscritto al PCI già nel 1949, e la cosa non era certo passata inosservata.

I contributi di Colletti a Società furono numerosi e di grande rilievo, sia come recensore che come saggista. Ma il rapporto con la rivista divenne ancora più stretto dopo i fatti di Ungheria, perché dal 1957 Colletti, insieme a Della Volpe e ad altri esponenti del gruppo dellavolpiano, fra cui Mario Rossi, Nicolao Merker e Giulio Pietranera, il valoroso storico dell’economia classica prematuramente scomparso, entrò a far parte del comitato di direzione (anche se il suo nome compare in realtà fra i membri del comitato solo a partire dal 1959). La cosa può apparire paradossale, se si pensa che Colletti era stato l’estensore materiale del cosiddetto Manifesto dei 101, con cui un folto gruppo di intellettuali aveva preso posizione contro l’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria, e quindi contro la linea ufficiale del PCI. L’episodio è ricordato, con un misto di ironia e di nostalgia, da Luciano Cafagna:

Il famoso Manifesto dei 101 intellettuali fu scritto sul tavolo da cucina della mia casa di allora, un appartamento a Palazzo Doria. Avevamo cominciato a scriverlo Sirugo e io, quando Lucio piombò come un falco e ne volle assumere d’imperio la redazione.1

Nonostante ciò Colletti non volle uscire dal PCI, come fecero molti dei firmatari del manifesto. Da un lato, la scelta di campo fatta nel ’49 gli sembrava ancora valida, e dall’altro egli tentava da tempo di imprimere al marxismo, e al comunismo stesso, una impronta scientifica e radicalmente democratica, un obiettivo che gli sembrava difficilmente raggiungibile lavorando all’esterno di un partito che, quali che fossero i suoi difetti, godeva della fiducia e del consenso della gran massa delle classi lavoratrici.