25 febbraio 2018

«Rendere equa la ricchezza è una tessera-chiave del puzzle» di Margaret Atwood



Salve, donne del futuro! Credo fermamente che su questo pianeta nel 2118 ci saranno ancora donne: un’ipotesi abbastanza azzardata, viste le minacce che incombono sulla nostra biosfera, ma incrociamo le dita.

Qui nel 2018 stiamo vivendo l’epoca migliore, viviamo l’epoca peggiore. Il lungo patriarcato, cominciato nell’età del bronzo con l’agricoltura basata sul grano, è stato rimpiazzato dalla tecnocrazia, per cui la linea ereditaria maschile non richiede più la castità femminile; ed esser forti nella parte superiore del corpo non significa più predominio. Le donne hanno i loro cervelli, usano le tastiere e per numero sopravanzano gli uomini nelle università. Nonostante questo, alcuni uomini continuano ad esibire i muscoli del pene, cercando di combinare le emozioni dei giochi di potere con la graduale espulsione delle donne dai luoghi di lavoro, provocando notevoli e diffuse reazioni femminili. Come andrà a finire? Dateci un aiutino!

Oggi le donne possono avere molteplici partner sessuali senza essere messe al rogo, ma la pornogratificazione delle aspettative maschili comporta il sezionamento delle donne in tranci da esibire al macello, come si dice alle donne più anziane per terrorizzarle. «Perché il sesso non può essere uno spasso per tutti?», si domandano mestamente. Le cose vanno un po’ meglio nella vostra epoca?

Nel frattempo, le guerre infuriano, si utilizzano stupri di massa per «umiliare il nemico», i totalitarismi opprimono, i diritti umani sono svuotati di significato, la carestia impera, l’assistenza sanitaria è inesistente e le donne subiscono ancora tratte e riduzioni in schiavitù.

Avrete risolto questi problemi, nel 2118, donne del futuro? Avrete perlomeno iniziato a rendere equa la ricchezza, per esempio?  Certamente questa è una tessera-chiave del puzzle. O starete ancora affrontando il caos in una disastrosa crisi economica e in un’ecosfera distrutta?

Inviateci una messaggera del futuro! E se le notizie son buone, raccontateci per piacere come avete fatto. Moriamo dalla voglia di saperlo.


(Febbraio 2018)


(Trad. a cura di Nicola d’Ugo e Riccardo Duranti)




16 febbraio 2018

«Quattro morti e un funerale: “L’uomo dal fiore in bocca… e altre storie”» di Cinzia Baldazzi





L’uomo dal fiore in bocca… e altri strani casi
di Luigi Pirandello

(Dalle novelle «La tragedia di un personaggio»,
«Piuma», «Pubertà», «Da sé»,
«L’uomo dal fiore in bocca»
e con le poesie «Notte insonne», «Andando»,
«Io sono così»)

Adattamento e regia: Patrick Rossi Gastaldi
Interpreti: Edoardo Siravo, Gabriella Casali,
Stefania Masala, Carlo Di Maio
Scene: Lisa Dori De Benedittis
Costumi: Teresa Acone
Luogo: Teatro Ghione, Roma.
Data: 22 novembre – 3 dicembre 2017
Produzione: GHIONE produzioni



«… Un morto, che pure è un morto, caro mio, vuole anche lui la sua casa. E se è un morto per bene, bella la vuole». A parte i puntini sospensivi, incipit della novella di Luigi Pirandello «La vita nuda» (1907), di per sé misteriosi (magari era accaduto qualcosa prima: ma dove, se è l’inizio della voce narrante?), l’affermare «un morto […] è un morto», oltre a sottolineare di voler concedere credibilità, con quell’elusivo «pure», a un’evidente tautologia, non mostra, forse, di contenere un enigma insolubile? Scendiamo in campo aperto, quindi, assistendo alla pièce pirandelliana L’uomo dal fiore in bocca… e altri strani casi, con Edoardo Siravo, allestita dal regista e adattatore Patrick Rossi Gastaldi. La mise en scène è dedicata a quattro insigni «novelle per un anno» sviluppate intorno al pauroso Thánatos (θάνατος), addio estremo dell’umanità, figlio della Notte (o di Astrea) per partenogenesi (o da Erebo), nonché fratello gemello di Ipno (Ὕπνος), dio del Sonno, e in alcuni documenti appellato «Legione Suprema».

Ormai vicina al Teatro Ghione di Roma, sono carica di aspettative e pronta a varcare, con ragione e fantasia, ripetuti orizzonti dell’ovvio e dello scontato, per cogliere chissà quale messaggio morale e pragmatico. Collocato in uno spazio centrale del pressbook, leggo:

Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina… Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi e morire.

A parlare è la figura principale de «La carriola» (1917), commendatore, professore e avvocato di successo, valido esempio – offerto in termini simbolici – di coscienza civile e sociale: è opinione diffusa quanto l’amore per gli animali sia sempre tipico degli uomini evoluti – pre-animalisti o non – al pari del rinomato giurista.

Tuttavia, l’egregio personaggio-creatura, a causa di controversie esistenziali, per evadere così per un attimo dalla prigione della forma vuota della routine quotidiana, a un tratto decide di vendicarsi degli schemi razionali ed etici imposti, per mezzo della vecchia cagna, lupetta di famiglia «bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja». Senza percosse o sevizie, per carità, bensì afferrandole con garbo «le due zampine di dietro» e costringendola a «fare la carriola». Confessa, difatti, con candore:

«[L]e faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro». Concludendo a sorpresa sulla povera bestiola: «Comprende […] la terribilità dell’atto che compio […]; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita».

Trascorso un anno dal racconto, nel Messaggero della Domenica del 30 luglio 1918 – nel periodo di uscita, con la Treves, della raccolta delle opere teatrali intitolata Maschere nude – Pirandello firmò un curioso saggio di natura non conciliatoria sui rapporti intrecciati o meno dai drammaturghi con la letteratura, supponendo che costoro, se interpellati, avrebbero gradito rimanere distanti da un simile contesto. Eccetto l’Enrico IV, le commedie dell’Autore nascono ognuna da una traccia narrativa: nell’articolo, appunto, si domanda: «Resta però da vedere – non essendo letteratura – come e sotto qual nuova specie debbano essere considerati quei loro drammi e quelle loro commedie, quando da copioni diventano libri, quando dalla buca del suggeritore passano nella vetrina d’un librajo, non più scritti a macchina ma stampati da un editore».

8 febbraio 2018

«Il bafometto. Intervista a Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Nutrimenti , Roma; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Clichy, Firenze 2017) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma 2018), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni.

Doriano Fasoli: Cosa racconta Il bafometto, l’ultimo romanzo di Pierre Klossowski, appena pubblicato da Adelphi nella tua traduzione?

Giuseppe Girimonti Greco: Non è facile “raccontare” Il bafometto. La parte più propriamente narrativa del testo è il lungo Prologo (uscito su rivista, autonomamente, già nel 1964), che può essere considerato un bell’esempio di pastiche di almeno tre tipologie testuali: il verbale di polizia, il saggio storico-erudito, la narrazione alla Walter Scott. Klossowski ricostruisce (reinventadola) la fosca vicenda del processo ai Templari (accusati, com’è noto, di eresia, idolatria e sodomia), che portò rapidamente alla sospensione dell’Ordine. I personaggi evocati sono in parte storici (Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret, Jacques de Molay, ecc.), in parte fittizi: in una lettera al critico Jean Decottignies che è stata pubblicata in appendice a una monografia dello stesso Decottignies (Klossowski, notre prochain, H. Veyrier, Paris 1985), e che in questa edizione abbiamo riprodotto a mo’ di postfazione («Note e chiarimenti sul Bafometto»), Klossowski dice di aver accarezzato, già a partire dal 1964, «il progetto di un romanzo storico che rievocasse le circostanze della soppressione dell’Ordine dei Templari»; tuttavia, molto presto lo scrupolo di attendibilità storica cede il passo a un progetto di altra natura; l’idea di partenza ridesta in lui «il ricordo di una remota lettura di Walter Scott», risalente alla prima adolescenza. Infatti, «i nomi di due dei protagonisti del Prologo – Bois Guilbert e Malvoisie – sono mutuati da quelli dei due Templari che compaiono in Ivanhoe» (Brian de Bois-Guilbert e Philip de Malvoisin). Ma Klossowski si diverte a inserire nel suo racconto anche altri personaggi dai nomi quanto mai “parlanti”: Valentine de Saint-Vit (acerrima nemica del Tempio) e Ogier de Béauseant (il bell’efebo che porta la discordia in seno all’Ordine). Sulla questione dell’onomastica klossowskiana il discorso sarebbe troppo tecnico; mi limiterò a notare, en passant, che vit, nel francese medievale (quello dei fabliaux, per intendersi), indica il membro virile (dal latino vectis, “leva”, “stanga”, “sbarra” e simili); e che séant è sinonimo colloquiale di derrière, fessier, postérieur; cosicché, volendo, ci si sarebbe potuti avventurare in esperimenti onomastici – per così dire – goliardici: “Valentina della Santa Verga” e “Oggieri di Belsedere”; soluzioni scartate a monte, ché alla lunga avrebbero sicuramente stancato l’orecchio. Come dicevo, solo nel Prologo abbiamo una narrazione vera e propria, molto tesa, peraltro; gotica, cupa e… corrusca (per usare un aggettivo caro a Paolo Poli, che tanto amava le cose neogotiche, il finto Medioevo); Klossowski la definisce «favola allegorica, fiaba orientale», apologo gnostico «che risente (Blanchot dixit) del modello del racconto orientale del Vathek di Beckford»; personalmente, io ho letto Il bafometto, sin dall’inizio, come un vero e proprio conte brun: ovvero, come una narrazione ricca di momenti sublimi e grotteschi insieme, e caratterizzata da un andamento policier molto riuscito (visto che sulla “tenebrosa vicenda” che distrugge l’Ordine dall’interno indaga un vero e proprio detective: il Commendatario, abilissimo nel trovare il bandolo della matassa e nel venire a capo del mistero, salvo poi decidere di nascondere per sempre le “tracce” dello scandalo).