I.
La madre
la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore
D. Alighieri
Quando accade, accogliere la morte e il dolore significherebbe non inspirare gli afrori della decomposizione? Le parole dette prima sono un autoinganno, come legate a brandelli di speranza.
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Torcere il naso dalla pelle e dai gesti salati non era carino, ma il lenimento delle carezze era uno sforzo sul cuoio ruvido del capo scosso da un lato. Il letto, non d’una sposa, sconsacrato dalla malattia, dal corpo umiliato; il marito gli porgeva gli occhi che ricordano e s’immaginano la solitudine: i figli avevano comunque ancora una vita intera.
Qualcosa che non potesse essere orribile in quel momento non vi era; lei continuava a guardare – ad accusarmi – mentre quella maschera che l’aiutava a respirare s’impregnava di rosso come lagrime, un rantolo interminato.
Tre anni prima mi confessò il malore, le dissi di non preoccuparsi: era lo scirocco che secca la vita dal di dentro; senza sapere cosa significasse. La mattina, eccitata, mi aveva chiesto più volte di andare con lei in campagna, ricordava soltanto com’era camminare in mezzo al grano, aveva lo sguardo scintillante, una bimba; la madre le era morta in novembre e sembrava volersi ingannare con una passeggiata, interrotta, sempre un novembre, con i campi venduti e la vita possibile solo nella città del nord.
Le dissi di no, volevo correre gli amici, non contemplare, del resto non avevo ancora nulla da ricordare. Quando ritornai all’imbrunire, era in casa, sfiancata su una sedia; insistetti, come lei al mattino, ma con gli occhi sfioriti, di dirmi cosa avesse, invece mi evitava; la cena mancava sul tavolo, solo a quel punto, quasi volesse chiedere scusa, mi disse che aveva avuto un mancamento; non capii che lo stomaco la stava rigettando.
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Forse rigettava non cibo. Se l’egoismo avesse permesso di intuire, avrei pregato, nonostante già sapessi da mia madre che la fede va a braccetto con la disperazione e che il dolore non permette di abbandonarsi al nulla.
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La speranza, e il profumo dei cipressi.
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Quel giorno, mia cugina piangeva come fosse la figlia ed io la sostenevo: «Giocheranno a carte in cielo con la nonna e il nonno,» sorridendo, tacendo il pianto che ara dal di dentro; mio fratello, che non si capacitò: «Che giornata di sole, non poteva essere diversamente.»
Trattenevo lezioni sull’architettura funeraria per gli zii della Francia: volevo soffrire quando gli altri avrebbero incominciato a soffrire meno.
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La malattia, se non sapesse di morte esisterebbe?
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La malattia è meglio del nulla?
Curata pietosamente, è morta dopo un più lungo travaglio; era questa la maledizione ad Eva per mia madre?
Quando tornava a casa, a stento, le dava fastidio l’odore del cibo, ma cucinava lo stesso, anche l’ultima volta che andò in ospedale lasciò in frigo preparato il sugo.
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Come un terremoto disabitato, malattia e morte colpirebbero senza i sentimenti?