Visualizzazione post con etichetta letteratura francese. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta letteratura francese. Mostra tutti i post

20 dicembre 2018

«Il bagno di Diana. Conversazione con Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Roma, Nutrimenti; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Firenze, Clichy) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni. Del 2017 è la sua traduzione dell’ultimo romanzo di Klossowski Il Bafometto, edito da Adelphi.

Doriano Fasoli: Girimonti Greco, qual è la genesi de Il bagno di Diana, pubblicato di recente da Adelphi? Perché Klossowski decide di dedicare un intero libro a questo mito?

Giuseppe Girimonti Greco: «Non sono uno studioso di Klossowski, ma proverò a rispondere ugualmente…» Questo era l’incipit della mia risposta alla tua prima domanda, prima che la collera di Diana si abbattesse su questo testo… Ma andiamo con ordine: ti rispondo – anche nella speranza di divertire i lettori – raccontando una storiella un po’ inquietante, se non altro per via della sua stregonesca e ‘diabolica’ (è il caso di dire) valenza simbolica. Avevo deciso di commentare l’incipit del libro, che è forse fra i più belli di tutta l’opera di questo autore. Nelle pagine introduttive Klossowski spiega, con inconsueta semplicità:

Vorrei parlarvi di Diana e Atteone: due nomi che evocano, nella mente del lettore, poche o molte cose: una situazione, delle posture, delle forme, il soggetto di un quadro, ormai quasi solo leggendario, poiché l’immagine e il racconto, divulgati dalle enciclopedie, hanno ridotto alla semplice visione di un gruppo di donne sorprese al bagno da un intruso questi due nomi, il primo dei quali è solo uno tra i mille con cui la divinità fu conosciuta da un’umanità scomparsa.

E ancora:

[S]e il lettore non è del tutto privo di memoria, e di ricordi trasmessi da altri ricordi, questi due nomi possono improvvisamente rifulgere come un’esplosione di splendori e di emozioni.

L’intento di Klossowski è chiarissimo, la sua strategia argomentativa ben precisa: fare piazza pulita di tutte le interpretazioni convenzionali che hanno addomesticato (e spesso snaturato) questo mito così arcaico e perturbante; tornare alle origini, alle fonti più antiche, al suo nucleo primigenio, da cui ci separano millenni di cultura, per così dire, ‘anti-pagana’; fornire una lettura non condizionata dalle innumerevoli incrostazioni iconografiche, letterarie (soprattutto classicistiche) che hanno trasformato quel mitologema (la scena culminante della ‘leggenda’) in un episodio di blando, aggraziato voyeurismo (ferocemente punito da una dea proverbialmente fiera e vendicativa); per far questo, Klossowski dice di voler approfittare della buona disposizione ‘culturale’ del suo lettore volenteroso, di voler far leva su quei pochi frammenti di memoria culturale che resistono nella contemporaneità, nel nostro immaginario (se non nell’inconscio collettivo contemporaneo, verrebbe da dire): reminiscenze di reminiscenze, bagliori fugaci, intermittenze in grado di funzionare come ‘illuminazioni retrospettive’, come «estasi metacroniche» (l’espressione la ricavo dai saggi proustiani di Francesco Orlando, un teorico che amo molto… e c’è da chiedersi che cosa Orlando avrebbe potuto dire su questo testo, così vistosamente imperniato sul ritorno del rimosso e del represso…).

8 febbraio 2018

«Il bafometto. Intervista a Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Nutrimenti , Roma; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Clichy, Firenze 2017) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma 2018), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni.

Doriano Fasoli: Cosa racconta Il bafometto, l’ultimo romanzo di Pierre Klossowski, appena pubblicato da Adelphi nella tua traduzione?

Giuseppe Girimonti Greco: Non è facile “raccontare” Il bafometto. La parte più propriamente narrativa del testo è il lungo Prologo (uscito su rivista, autonomamente, già nel 1964), che può essere considerato un bell’esempio di pastiche di almeno tre tipologie testuali: il verbale di polizia, il saggio storico-erudito, la narrazione alla Walter Scott. Klossowski ricostruisce (reinventadola) la fosca vicenda del processo ai Templari (accusati, com’è noto, di eresia, idolatria e sodomia), che portò rapidamente alla sospensione dell’Ordine. I personaggi evocati sono in parte storici (Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret, Jacques de Molay, ecc.), in parte fittizi: in una lettera al critico Jean Decottignies che è stata pubblicata in appendice a una monografia dello stesso Decottignies (Klossowski, notre prochain, H. Veyrier, Paris 1985), e che in questa edizione abbiamo riprodotto a mo’ di postfazione («Note e chiarimenti sul Bafometto»), Klossowski dice di aver accarezzato, già a partire dal 1964, «il progetto di un romanzo storico che rievocasse le circostanze della soppressione dell’Ordine dei Templari»; tuttavia, molto presto lo scrupolo di attendibilità storica cede il passo a un progetto di altra natura; l’idea di partenza ridesta in lui «il ricordo di una remota lettura di Walter Scott», risalente alla prima adolescenza. Infatti, «i nomi di due dei protagonisti del Prologo – Bois Guilbert e Malvoisie – sono mutuati da quelli dei due Templari che compaiono in Ivanhoe» (Brian de Bois-Guilbert e Philip de Malvoisin). Ma Klossowski si diverte a inserire nel suo racconto anche altri personaggi dai nomi quanto mai “parlanti”: Valentine de Saint-Vit (acerrima nemica del Tempio) e Ogier de Béauseant (il bell’efebo che porta la discordia in seno all’Ordine). Sulla questione dell’onomastica klossowskiana il discorso sarebbe troppo tecnico; mi limiterò a notare, en passant, che vit, nel francese medievale (quello dei fabliaux, per intendersi), indica il membro virile (dal latino vectis, “leva”, “stanga”, “sbarra” e simili); e che séant è sinonimo colloquiale di derrière, fessier, postérieur; cosicché, volendo, ci si sarebbe potuti avventurare in esperimenti onomastici – per così dire – goliardici: “Valentina della Santa Verga” e “Oggieri di Belsedere”; soluzioni scartate a monte, ché alla lunga avrebbero sicuramente stancato l’orecchio. Come dicevo, solo nel Prologo abbiamo una narrazione vera e propria, molto tesa, peraltro; gotica, cupa e… corrusca (per usare un aggettivo caro a Paolo Poli, che tanto amava le cose neogotiche, il finto Medioevo); Klossowski la definisce «favola allegorica, fiaba orientale», apologo gnostico «che risente (Blanchot dixit) del modello del racconto orientale del Vathek di Beckford»; personalmente, io ho letto Il bafometto, sin dall’inizio, come un vero e proprio conte brun: ovvero, come una narrazione ricca di momenti sublimi e grotteschi insieme, e caratterizzata da un andamento policier molto riuscito (visto che sulla “tenebrosa vicenda” che distrugge l’Ordine dall’interno indaga un vero e proprio detective: il Commendatario, abilissimo nel trovare il bandolo della matassa e nel venire a capo del mistero, salvo poi decidere di nascondere per sempre le “tracce” dello scandalo).

17 aprile 2017

«Il Piccolo Principe. Conversazione con Antonio Gullì» di Doriano Fasoli, con un racconto di Federica Cordova



Antonio Gullì è psicologo clinico, specialista in psicodiagnostica Rorschach. Vive e lavora a Reggio Calabria, dove svolge la libera professione e si occupa prevalentemente di problematiche dell’età infanto-giovanile. Formatore didattico presso diverse associazioni di psicologia, ha organizzato e condotto di corsi di formazione clinica in Test Proiettivi e Tecniche del Gioco e del Disegno con i Bambini e gli Adolescenti e in Psicodiagnostica Rorschach. Tra le sue pubblicazioni: «Psycological Assessment», in Guidetti V., Russell G., Sillampa M., Winner P., Headache and Migraine in Childhood and Adolescence, Martin Duniz, London 2002. «Un’esperienza analitica con un gruppo di bambini in età di latenza», in atti del convegno Tra Scilla e Cariddi, Society for Psycotherapy Research, Reggio Calabria 2006. In questi giorni è uscito il suo libro Il Piccolo Principe. Un'interpretazione psicoanalitica ed esistenziale, edito da Alpes Italia.
Doriano Fasoli: Dottor Gullì, può dirci come nasce l’idea di questo libro?
Antonio Gullì: Potrei davvero dire che questa sì che è una lunga storia. In effetti questo libro ha molteplici genitori, e mi accorgo che la sua gestazione è durata parecchi anni. A iniziare dai tempi dell’università. Lessi allora per la prima volta il racconto di Saint-Exupéry, e subito mi accorsi del suo essere una «sacca di simmetria» – per dirla con Matte Blanco – dalla quale era possibile estrapolare una polisemia pressoché infinita di rappresentazioni simboliche sempre più chiare, definite e dotate di significato emotivo ed esistenziale. In questo percorso un ruolo molto importante lo hanno avuto le persone che ho incontrato e che ho amato, nonché la mia esperienza di psicologo clinico a contatto quotidiano con i bambini. Ecco, mi accorgo di avere impiegato questi anni della mia vita nel tentativo di pervenire ad una visione sempre più organica della fiaba del Piccolo Principe: e posso forse dire che il mio libro è la risultante complessiva di un tale riflettere, e delle mie evoluzioni interiori intorno ai temi della Presenza Umana e delle categorie archetipiche lungo le quali si dispiega: a partire dall’esperienza della separazione e del distacco dalle persone care – e quindi della morte.
In effetti mi sembra che il tema della morte sia un argomento molto presente in questo saggio, a partire dall’Introduzione.
Sì, è vero, e credo che non potrebbe essere diversamente. E per un semplice motivo: il Piccolo Principe, alla fine del suo viaggio, va incontro all’ovvio destino a cui tutti noi siamo votati. Pertanto, mi sembra chiaro che qualunque riflessione intorno al significato di questa fiaba non possa prescindere dall’impegnarci nel compito di riflettere sull’esperienza del morire. Ho così voluto evidenziare come alcune interpretazioni del Piccolo Principe, per esempio quelle avanzate da M.-L. von Franz e da E. Drewermann, non abbiano secondo me colto la portata emozionale dell’epilogo con cui si chiude la storia del principino. Questi autori hanno cioè inteso la sua dipartita come un fallimento delle sue potenzialità evolutive: soprattutto perché hanno fatto leva su delle chiavi comprensive che vertevano intorno alla forza regressiva e mortifera esercitata dal legame complessuale, materno e irrisolto, che contraddistinguerebbe il rapporto del Piccolo Principe con la sua rosa, ovvero vigente tra Saint-Exupéry e la propria madre. Dal mio punto di vista, invece, credo che la dipartita dalla terra di questo bimbo non segni lo scacco della sua epopea e del messaggio che ci porge: al contrario, penso che rappresenti uno stimolo incessante e insaturo per attivare la rappresentabilità immagino-poetica della nostra mente. E questo accade nella misura in cui ci impegna nel compito di comprendere l’esperienza psicologica della separazione, e la necessità di trovare ad essa un significato simbolico, personale, soggettivo ed emozionale in grado di trasformare il dolore per la perdita subita in una ricchezza interiore che ci salva nel mondo. 
Sì, ma Lei, Antonio, non crede che forse ciò che ha indotto la von Franz e Drewermann ad esprimere un giudizio così negativo sulla figura del Piccolo Principe sia stato proprio il fatto che a morire sia un bambino e non un adulto? Voglio dire: il bambino è sempre rappresentabilità del futuro, incessante propensione al divenire; e pertanto, quando il decesso concerne l’immagine di un fanciullo – come quando per esempio accade nei sogni notturni – è tendenzialmente ragionevole supporre che nella sua morte si avveri l’arresto di una parte di noi, l’abortire di un aspetto della nostra personalità che non riesce a veder la luce, che non riesce ad esprimersi, a giungere a maturazione. 
Sì, certo, questo è verissimo, ma è anche vero che la morte dei bambini è forse l’esperienza psicologica che più di ogni altra accende in noi le funzioni immaginative del mentale. Nel senso che, quando a morire è una persona adulta, giunta più o meno al termine della sua esistenza, noi possiamo pensare soltanto a posteriori al senso che la sua vita ha posseduto. Ma tanto più giovane è la persona che perisce, tanto più noi ci apriamo al tentativo d’immaginare come la sua vita sarebbe potuta essere. Le infinite potenzialità evolutive del bambino, in questo caso, divengono potenzialità evocative della nostra psiche. L’incompiutezza della sua vita lascia spazio al sorgere – nella nostra interiorità – di un insieme amplissimo di storie e narrazioni con cui cerchiamo di riempire il vuoto lasciato da una vita che si è interrotta precocemente, e sul cui futuribile possiamo pertanto esercitare un’attività rappresentazionale pressoché infinita. Non dobbiamo neanche dimenticarci che la morte dei bambini è forse l’esperienza che arreca a tutti noi maggior dolore e sofferenza: è quindi il momento in cui dobbiamo ricorrere maggiormente all’utilizzo delle nostre facoltà simbolizzanti, per venire a capo di un dolore altrimenti assurdo, lacerante e insensato. Capiamo allora che la morte dei bimbi è l’evento che per antonomasia ci fa interrogare sulla vita. Penso per esempio a quanto messo in scena in un bellissimo film di Francesca Archibugi, Il grande cocomero. Accade qui che ad un certo punto viene a mancare una bimba di pochi anni d’età e affetta da una gravissima malattia. Ebbene, durante il suo funerale, il prete che ne officiava il rito, si protende nella lettura di un passo de L’idiota di Dostoevskij che recita così: «E mentre camminava per le strade e vedeva in ogni volto i segni di una fatica inutile, o alzava gli occhi verso i tetti delle case, su al cielo, per capire se c’era un senso, egli pareva trovarlo, e si rasserenava. Ma solo a una domanda, che lo investiva a ondate regolari con affanno, il principe Myškin non sapeva rispondere: perché, Signore, i bambini muoiono?» Ecco, credo che questa domanda sia forse la domanda sull’intero senso della vita. Il chiedersi «perché, Signore, i bambini muoiono?» diviene allora sinonimo del chiedersi «perché, Signore, gli esseri umani vivono?» E non è forse questo l’interrogativo che tutti noi ci poniamo quotidianamente? 

15 febbraio 2016

«Lautréamont toujours. Temi etici e stilistici nelle "Poésies" di Isidore Ducasse» di Giancarlo Micheli

Scrivere è sempre guarire. Il vero scrittore sa ogni volta da quale male e, qualora ne assuma a proprio arbitrio la responsabilità, sa anche come tenerlo celato al lettore; si tratta di ciò che il magnanimo chiama ironia, e colui che lo diventa serietà.

Qualora sia altro che mera vanteria, grossolano ricamo di esistenze tramite il quale le generazioni apprendono, secondo diacronici automatismi, a ricoprire rinnovate vergogne, l’opinione per cui la specie umana costituirebbe un apice nell’evoluzione biologica riposa sull’evidenza per cui in alcuni individui, la rarità dei quali non debba poi essere usata per ascrivere loro colpe spettanti a follia o perversione, persista la memoria dello stato ferino in cui vissero e si moltiplicarono intere stirpi di genitori archetipici fino ai loro naturali e legittimi. Se ne risultasse così corroborato, in qualche coscienza, l’aforisma marxiano a stare al quale la società borghese sia il termine conclusivo della preistorica,1 ciò non accadrebbe, una volta ancora, se non per via di un artificio retorico, un espediente tale da permutare le glorie dell’esperienza e della persuasione a profitto di una condizionale tiepidità ottativa.

Da un luogo generico, posto alla periferia dell’impero capitalista, dal quale osservare i segni della sua decadenza, i disagi, le dolose nuisances e le brame apocalittiche della sua civiltà in rovina, da una qualsiasi sconosciuta località di mare si può oggi assistere a spettacoli naturalistici di gabbiani che difendano dalle cornacchie la prole in virtù dell’istinto di aver becchi a sufficienza per fare incetta di pesce arando le superfici di acque litoranee inquinate da metalli pesanti ed innumerevoli cataboliti non biodegradabili dei processi industriali; là si può acquisire chiara cognizione di quali progressi abbia conseguiti la specie emancipatrice di se stessa ad un tal grado da aver sostituito, non senza malizia, a fetide creature squamose un oggetto del desiderio tanto immateriale da esser passibile di replicazione fino alla virtualmente assoluta sterilità, attorno al quale fare ressa in miriadi di mediocri soggetti, tutti competenti ad intraprendere il nulla. Quando poi, a volo d’uccello, vorace o mansueto come lo si possa immaginare dal falco alla colomba, si possedessero ali per ravvisare, al di là della cortina del tempo e dei pregiudizi che ne sono scaturiti in spirito e materia, la scena del medesimo crimine quale fu allestita sul patibolo con cui si aprì giudiziariamente l’anno che avrebbe vista la dissipativa débâcle di Napoléon le pétit e dei suoi imperiali comitati d’affari, tant’è che per qualche luna del successivo il sole della Comune brillasse su Montmartre e Belleville, saremmo precipitati dentro una voragine non meno abissale di quanta se ne dia per attualità al gusto letterario vigente, allorché scorgessimo il nemico provato dell’ordine civile, l’assassino seriale Jean-Baptiste Troppmann,2 oscuro meccanico alsaziano che, settant’anni dopo aver avuta recisa la testa dalla ghigliottina nella prigione de la Roquette, meritò onore postumo resuscitando nel nome del personaggio protagonista di un romanzo noir3 che Georges Bataille scrisse poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale; e supplementare meraviglia trarremmo esaminando le convulsioni di quel corpo colpevole e malvagio tra le cinghie che lo avvincono, così diabolicamente pervicace – come poterono attestare i Sardou, i Sue e i Dumas, tutti i «romanciers de cours d’assises»4 che assiepavano la platea, quasi a confondersi alla folla inebriata dall’atto conclusivo di quella ben congeniale cronaca –, così insanamente votato a compiere il male che mancò poco riuscisse a staccare un dito al boia con un estremo morso, in forza del quale non volle darsi pace fino all’istante in cui la lama non lo ebbe tranciato e reso inerte.

14 ottobre 2014

«Nota su un altro Nobel francese per la letteratura» di Nicola d'Ugo






Sono lieto quando assegnano un nuovo Premio Nobel per la letteratura. Viene messo in risalto un autore importante. I Premi Nobel sono tutti autori straordinari, inclusi Deledda, Quasimodo e Fo, anche se possono sembrare meno significativi di Pascoli, d'Annunzio, Ungaretti, Moravia, Pasolini e Calvino. Quindi Patrick Modiano è senz'altro uno scrittore straordinario che leggerò volentieri.

Il limite del Nobel non è mai la qualità dell'autore prescelto, è che l'Accademia Svedese che lo assegna vede la letteratura come qualcosa fatto quasi solo da maschi europei. Su 111 Nobel letterari, solo 30 non sono europei, e solo 13 donne lo hanno ricevuto. E poi sono fissati coi francesi: secondo loro più del 10% degli autori meritevoli spuntan fuori dalla Francia come dall'albero della cuccagna. Guardano col fumo negli occhi i russi, snobbano gli italiani e gli americani, sono xenofobi del Medio ed Estremo Oriente, quasi quanto sono misogini. Il Nobel non viene dato al più grande scrittore del mondo, ma a un autore eccezionale, questo sì. Chi si aspetta altro si aspetta troppo da un premio.

Il Nobel ha un carattere didattico, esemplificativo, di segnalazione di certi livelli elevati della letteratura, di certa profondità di pensiero e partecipazione alle problematiche umane. È un premio frutto del secondo Ottocento, quindi di un modo di concepire la letteratura in senso classico, partecipato, pienamente impegnato nell'attività di miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo contemporaneo. Il Nobel ha una ricaduta anche sul mercato, ma non si basa su regole di mercato, le quali non gli interessano affatto: anzi, essere troppo pubblicizzati può essere un motivo di bocciatura, in quanto l'Accademia Svedese potrebbe ritenere inopportuno premiare un autore osannato acriticamente o anche solo accostato a un promotore sgradito.

Ciò detto, non credo che l'eccellenza minima di un destinatario del Nobel sia mai stata raggiunta da altri premi letterari, Pulitzer e Man Booker inclusi. L'opera dell'Accademia Svedese è notevole e meritoria, anche se, con le loro idiosincrasie e simpatie, alla fine non hanno sfondato il muro del suono, per cui Ibsen, Tolstoj, Twain, Rilke, Woolf, Joyce, Achmatova, Huidobro e Brecht se li sono visti volare sopra la testa. Ognuno ha i propri limiti. Ma i limiti del Nobel, ancora dimolto perfettibile, sono limiti che partono da vette elevatissime. Leggere un qualsiasi Premio Nobel di ottanta novanta anni fa dà l'idea della fresca e sapiente classicità delle loro scelte.



18 febbraio 2013

«Conversazione con Dionys Mascolo» di Doriano Fasoli


Dionys Mascolo e Marguerite Duras
«L’intento di queste riflessioni non era di produrre qualche giudizio in più sul ‘caso Heidegger’, e più precisamente sul coinvolgimento del filosofo oltre mezzo secolo fa. Non si poteva d’altronde evitare di tenerne conto. L’intenzione era in effetti quella di interrogarsi su quella che sembra una generale crisi degli spiriti di fronte ai tradizionali compiti della conoscenza, e del processo filosofico in particolare.» È così che Dionys Mascolo (nato a Saint Gracian, Parigi, nel 1916 e scomparso all’inizio del nuovo millennio) in Bassezza e profondità. Saggio su Heidegger – pubblicato in Italia dagli Editori Riuniti – intraprendeva una critica  che andava oltre l’esegesi filosofica per appuntarsi sul «pensiero tecnico» di Heidegger preso qui a modello. Pensiero atomizzato, specializzato che, nelle sue pretese di obiettività, fornisce in effetti gli strumenti per nascondere e sottomettere alla censura di un Super-Io filosofico la «stupidità» del pensiero. È solo a partire dalla diffidenza del pensiero verso se stesso che si rivela possibile un «pensiero integro» quale «pensiero che si forma nello scambio di parole a viva voce o per iscritto» e il cui luogo privilegiato sono i rapporti d’amore e d’amicizia.
E di ciò Mascolo (che viveva a Parigi e del quale molti ricorderanno il libro intitolato Le Communisme, edito da Gallimard nel 1953) è in grado – in questa intervista inedita – di dare tracce, riferendo, com’era solito fare, pensiero, frasi, battute di coloro che gli sono stati interlocutori: Queneau, Breton, Bataille, Blanchot…

Doriano Fasoli: Mascolo, perché chiama la filosofia un «pensiero specialistico» oppure una «tecnica di pensiero»? 

Dionys Mascolo: Perché non è il vero pensiero. È il pensiero che ubbidisce alla logica, alla ragione, alle categorie, e non tiene conto delle passioni, dell’animo, del cuore, del sesso eccetera. I grandi pensatori non sono dei filosofi.

6 settembre 2010

«Gli eroi e antieroi di Raymond Queneau. 'I fiori blu'» di Nicola D'Ugo


Raymond Queneau,
I fiori blu,
Einaudi, Torino 1984.
Traduzione di Italo Calvino.
277 pp. EUR 14.46
«Si avvicinò ai merli per considerare
un momentino la situazione storica.»
Raymond Queneau, I fiori blu (1965)

Vi sono vari romanzi del Novecento che raccontano storie di gente comune e di eroi. Per uno scrittore, alcuni di questi raccontano storie come altre, che si perdono nei rivoli delle possibilità delle nostre vite o delle nostre fantasticherie. A volte vorremmo ripetere le gesta di quel personaggio qualsiasi avviluppato di nebbie e oscurità, che una lucentezza improvvisa, una chiarezza natalizia, fatta di festoni e palle di Natale accese, rende invidiabile per un certo tepore che abbiamo conosciuto in un momento della nostra esistenza; a volte, più trasognanti, vorremmo essere quel tale eroe che compie gesta straordinarie e traccia un segno netto nella storia dell’uomo e delle sue possibilità. Questi due tipi di uomini e personaggi la critica letteraria, che si è autorizzata a descrivere la letteratura degli uomini, li ha voluti chiamare eroi e antieroi. Nel Novecento non vi sono solo gli antieroi (gli uomini comuni costretti dai loro limiti virtuali), ma anche gli eroi dell’antichità riproposti da certi gialli e da certa fantascienza, che i nomi di Maigret e Superman rappresentano in maniera esemplare. Questi eroi non sono invincibili, ma, come Achille, hanno una sorta di loro tallone, sia esso la kryptonite, o qualche pistolettata o beffa criminosa imprevista dal protagonista.

9 settembre 2009

«Gli aspiranti eroi dell'Irlanda. Eroismo e misoginia in Queneau» di Nicola D'Ugo





 Troppo buoni con le donne
 Raymond Queneau
 Einaudi
 Torino 1998
 Traduzione di Giuseppe Guglielmi
 EUR 7,50
 160 pp.
 ISBN: 88-06-14914-8





"–  Bzzz, fa la bomba."

La citazione che fa da epigrafe a questo articolo non è una battuta presa da un libro o da un buontempone in vena onomatopeica, ma è l’intero Capitolo LXII di un altro "eroico" romanzo di Raymond Queneau: Troppo buoni con le donne (On est toujours trop bon avec les femmes), pubblicato a Parigi nel 1971. Il disastro causato da una cannonata diretta ai protagonisti vien così anticipato con il semplice sibilo della bomba che viaggia dal cannone di una nave inglese verso un ufficio postale irlandese: da qui a lì, fra il desiderio di colpire bene il bersaglio e il timore d’essere colpiti. A mezz’aria, il semplice sibilo è addirittura impersonale: un oggetto-bomba che fa il volo cui lo hanno destinato, ormai irreversibile da chi lo ha lanciato e inevitabile per chi lo riceva.

Il capitolo risulta però molto comico: quello che lo precede ci aveva introdotto dei personaggi che alla propria pelle ci tengono assai. L’informalità e addirittura la mancanza di passione che ci mette lo scrittore nel dirci che, dopo tante bombe cadute a vuoto, ne è partita una che già sappiamo che ha il tiro aggiustato, rappresenta la completa indifferenza che il narratore ha per la sorte dei suoi protagonisti, di quei personaggi che egli stesso ha inventato (e quindi saranno in qualche modo importanti), e accende in noi la curiosità di sapere quello che gli capiterà.

Raymond Queneau, il fine pensatore, vive anzitutto nel suo linguaggio, fatto di una poesia e materialità espositiva che saltano dal comico al sentimentale, dallo sboccato all’aulico, dall’intraprendente al nostalgico, secondo dei movimenti dell’animo alterabili quanto lo sono quelli degli uomini tutti e, in particolare, dei suoi personaggi.