24 novembre 2013

«Ultima conversazione con Armando B. Ferrari», di Doriano Fasoli

 

Armando B. Ferrari, è stato membro della International Psychoanalytical Association per la quale si è occupato di psicoanalisi infantile e adolescenziale, membro didatta della Sociedade Brasileira de Psicanálise de São Paulo e membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Tra le sue opere edite da Borla ricordiamo: L'eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica (1992); Adolescenza: la seconda sfida. Considerazioni psicoanalitiche sull'adolescenza (1994); L'alba del pensiero. Dal teatro edipico ai registri di linguaggio (1998). Nel 2006 è uscito il suo ultimo libro, Il pulviscolo di Giotto. Saggi psicoanalitici sullo scorrere del tempo, per i tipi Franco Angeli. L'intervista qui pubblicata è l'ultima che concesse il professor Ferrari, prima della sua scomparsa avvenuta nel mese di aprile 2006.


DORIANO FASOLI: Professor Ferrari, da cosa prende spunto il singolare titolo del suo ultimo lavoro: Il pulviscolo di Giotto. Saggi psicoanalitici sullo scorrere del tempo?

ARMANDO B. FERRARI: Negli anni, l’esperienza analitica con pazienti pervasi dall’angoscia, perché segnati da una prognosi infausta che li obbliga ad affrontare la propria morte come dato reale, ha messo drammaticamente in evidenza la precarietà del linguaggio e delle modalità di approccio tecnico-cliniche consuete e l’inadeguatezza di un setting tradizionalmente inteso.

La richiesta di queste persone che, sempre più numerose, si rivolgono alla psicoanalisi mi ha indotto ad affrontare il problema, e a proporlo a numerosi colleghi. L’esperienza clinica ha ribadito e ribadisce che la specificità del lavoro con questi analizzandi è determinata proprio dalla realistica conoscenza del limite temporale imposto dalla malattia alla loro vita; e che il problema saturante, disperante è quello di un tempo che ha un termine.

L’ipotesi tecnico-clinica nata da queste considerazioni si riferisce alla possibilità di riuscire a vivere la propria vita con intensità e a far promuovere questa possibilità nell’unico tempo, quello presente: quel riempire ogni istante anche di cose minute, indipendentemente dal tempo che ci resta da vivere. L’aspetto che qualifica questa mia proposta di lavoro clinico consiste nel modo e nella forma con cui viene trattato nella relazione analitica il tema delle coordinate spazio-temporali.

Nella relazione analitica con ammalati terminali ci troviamo immersi in una dimensione alterata per l’assenza di uno dei fondamentali parametri: il tempo. Non rimane allora che assolutizzare il tempo ‘frantumandolo’, così da dilatarlo in modo tale che ogni momento contenga in sé tutto il tempo vivibile. Il tempo si può dilatare sino a perdere le sue riconoscibili caratteristiche, per avvicinarsi a qualcosa che potremmo definire ‘spazio’; o può accelerare in modo tale che passato, presente e futuro divengano un tempo indistinto e, in un certo senso, confuso.

16 novembre 2013

«Fuori posto: 1. Avevano detto che», anteprima del primo capitolo del romanzo di Stella Sacchini

Stella Sacchini, in una foto di Silvia Gambini


In occasione della pubblicazione del romanzo Fuori posto di Stella Sacchini, se ne presenta qui il primo capitolo in forma integrale. Il romanzo uscirà a giorni per i tipi Coazinzola Press.


Stella Sacchini

Fuori posto
romanzo

Coazinzola Press 2013

 

1
Avevano detto che

 

Avevano detto che l’avrebbero messa nella stanza delle bambine. Gliel’avevano promesso. Ripetevano: Vedrai, ti troverai bene qui. Qui, hanno tutti più o meno la tua età.

Sarà divertente, e farai nuove amicizie.

Il Posto era grande. Ma grande enorme, non grande e basta.

All’entrata principale, c’era una signorina curata, molto per bene, che ti diceva dove dovevi andare. E all’entrata principale, c’era pure l’ascensore. A destra e a sinistra partivano due corridoi che li guardavi per un po’, poi sparivano. C’erano delle frecce, però, appiccicate a terra: frecce rosse, frecce gialle, frecce verdi. Come le linee della metro. Ti dicevano dove dovevi andare, meglio della signorina curata.

Un corridoio – la bambina l’avrebbe scoperto solo qualche giorno dopo – non si ricollegava a nessuna scala. Moriva lì: a piano terra. Un fiotto di celle in cemento, un ingorgo di lavori in corso. Qui le frecce finivano quasi subito, dopo le prime due o tre stanze attrezzate.

L’altro corridoio, invece, portava ai piani superiori. Primo, secondo, terzo; rosso, giallo, verde: porte, corridoi, stanze, targhette, neon.

In ascensore potevano andare dieci persone alla volta. Quel giorno erano in undici, ma la bambina non contava. Pesava sì e no trenta chili, la bambina. Dicevano i grandi che faceva lo stesso.