Visualizzazione post con etichetta cinema. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cinema. Mostra tutti i post

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

24 febbraio 2023

«Tutto su Anna. Conversazione con Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli

 

 

A cinquant'anni dalla morte esce, in una edizione ampliata e aggiornata, una biografia intitolata Tutto su Anna. La spettacolare vita della Magnani, edita da Vallecchi e firmata da Patrizia Carrano. Un volume di 400 pagine con una copertina che sottrae la nostra attrice al cliché di grande tragica con cui spesso la si ricorda: a guardare la fotografia che campeggia sul titolo sembra di sentire la risata dirompente di quel personaggio inconfondibile, «donna di cappa e di spada», come la chiamava Totò. Un’interprete capace di traversare il teatro classico e il varietà, il Neorealismo e la commedia leggera, con un suo stile personalissimo, nella vita come nella recitazione. Scapigliata quando le altre portavano acconciature leccate, non bella in un periodo di femminilità leziose, disobbediente e ribelle per temperamento, Anna Magnani è stata paradossalmente più dimenticata negli ultimi anni della sua vita che non oggi. Ne abbiamo parlato con l'autrice della biografia, Patrizia Carrano.

 

Doriano Fasoli: È possibile definire la Magnani in una frase?

 

Patrizia Carrano: Direi anche in una sola parola: contradditoria. Anna è stata antidiva ma primadonna. Bella ma anche brutta. Indipendente ma sottomessa. Coraggiosa ma paurosa. Drammatica ma ironica. Attrice classica ma dialettale. Principesca ma plebea. Moderna ma antichissima. E potrei continuare ancora.

 

A cinquant'anni dalla sua scomparsa che bilancio si può fare della sua presenza nel cinema?

 

Diciamo che la sua celeberrima corsa dietro il camion dei nazisti di Roma città aperta (1945) è divenuta il simbolo stesso del Neorealismo. L'icona del nuovo cinema del dopoguerra. Un cinema che è stato amato da Martin Scorzese, che si è imposto nel mondo per la sua forza dirompente, per ‘urlo delle cose’ che finalmente raccontava. La Magnani, con la sua recitazione moderna, scabra, aveva già attirato l'attenzione di Luchino Visconti che l'aveva scritturata per Ossessione (1943). Ma quando la lavorazione cominciò Anna era incinta di cinque mesi, e dovette rinunciare al ruolo che fu affidato a Clara Calamai. La Magnani apparteneva naturalmente alla temperie dei tempi nuovi. E difatti negli anni Cinquanta ebbe a disposizione dei personaggi indimenticabili, come l’omonima protagonista de L'onorevole Angelina (1947), oppure la carcerata di Nella città l'inferno (1959). La Magnani è stata l'interprete perfetta di un certo ribellismo femminile che affondava le sue radici nel rifiuto delle catene della tradizione, ma che non sapeva porsi traguardi che esulavano dal vitalismo dei propri sentimenti. Ad Anna si addiceva la protesta, si addiceva il disagio, il coraggio. Poteva essere Fedra, Medea, la Lupa di Verga, poteva essere un'amante delusa, una dolente madre mediterranea: tutti personaggi stretti e costretti nel ruolo che il mondo assegnava loro, tutte donne capaci di gesti assoluti, sanguinari. Questo non significa che sia datata. 

9 gennaio 2022

«"Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologia." Conversazione con Alberto Angelini» di Doriano Fasoli

 

 

Alberto Angelini è membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana. Ha insegnato psicofisiologia nella Facoltà di Psicologia dell’Università «La Sapienza» di Roma. Ha svolto ricerche nell’Istituto di psicologia del CNR e nel Centro sperimentale di cinematografia di Roma, dove, precedentemente, aveva conseguito il diploma in regia. È stato consulente dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, docente di psicologia clinica presso l’United Nation Interregional Crime and Research Institute (UNICRI), partecipando a campagne internazionali per la prevenzione sanitaria. Direttore di Eidos: Rivista di Cinema, Psyche e Arti visive. Autore di oltre sessanta articoli scientifici e di diversi volumi, tradotti in più lingue. Tra gli altri: La psicoanalisi in Russia. Dai precursori agli anni Trenta (Liguori, Napoli 1988); Psicologia del cinema (Liguori, Napoli 1992); Otto Fenichel: psicoanalisi, politica e società (Cosmopoli, Bologna 1996); Pionieri dell’inconscio in Russia(Liguori, Napoli 2002); Un enciclopedista romantico. Psicoanalisi e metodo sociale nell’opera di Otto Fenichel (Liguori, Napoli 2009), Psicoanalisi e Arte teatrale (Alpes, Roma 2014); Otto Fenichel: psicoanalisi, metodo e storia (Alpes, Roma 2019).

 

La conversazione si incentra sui temi del recente volume di Alberto Angelini Sergej M. Ejzenštejn. La psicoanalisi e la psicologiaedito in questi giorni da Alpes Italia.

 

Doriano Fasoli: Dottor Angelini, chi era Sergej Èjzenštejn?

 

Alberto Angelini: Sergej M. Èjzenštejn è stato il più importante regista della prima metà del Novecento. Egli spicca, nella storia del cinema, per i suoi lavori rivoluzionari, per l'uso innovativo del montaggio e per la composizione formale dell'immagine. 

 

Inizialmente Èjzenštejn si accostò al teatro, come allievo di Mejerchol'd, che fu ideatore della biomeccanica dell’attore, ispirata agli studi del grande fisiologo e psicologo russo Ivan Pavlov. Il regista, già dal periodo teatrale, si interessò molto alla psicologia e alla psicoanalisi. Pavlov, Freud e Mejerchol’d sono i primi nomi che ricorda nella sua ampia autobiografia; attraverso loro «combatté la sua prima lotta contro i mulini a vento della mistica». Èjzenštejn lesse Freud, per la prima volta, nella primavera del 1918 mentre prestava servizio come volontario nell’Armata rossa. In seguito, dal 1920 al 1923, lavorò a Gomel come funzionario locale per le iniziative culturali, viaggiando per tutta la Russia.

11 luglio 2021

«Black Widow (2021)» di Nicola d’Ugo

 

 

Black Widow (2021) non ha nulla a che fare con le iperboliche avventure degli Avengers. È un thriller alla James Bond con un taglio da romanzo di formazione, tipico di altri film della regista australiana Cate Shortland (Somersault, 2004, e Lore, 2012). Un apologo sulla liberazione delle donne: le migliaia di Vedove Nere, sottomesse e sottoposte fin da bambine ai disumani trattamenti da cavie nella Stanza Rossa.

 

La seconda e terza Vedova Nera, Natasha Romanoff (Scarlett Johansson e, da piccola, Ever Anderson) e la sua sorella adottiva ed emula Yelena Belova (Florence Pugh; da piccola, Violet McGraw), cercano di distruggere definitivamente la Stanza Rossa, di liberare le Vedove Nere e uccidere il suo scellerato direttore russo, il massiccio generale Dreykov (Ray Winstone). Neppure troppo velato il parallelismo tra Dreykov e il corpulento manipolatore Harvey Weinstein, l'allusione alla sua Miramax hollywoodiana, al movimento #MeToo ecc.

 

Con un bel po' d'azione, pochi personaggi e senza effetti visivi notevoli, il taglio è spesso comico, parodico, il tema domestico. Una famiglia di spie russe in Ohio che si ritrova un ventennio dopo (dopo il finto matrimonio e due figlie adottive portate via a forza da Dreykov) a fare i conti con quegli strani genitori (interpretati dal simpatico David Harbour e l’affettuosa, astuta Rachel Weisz), scellerati dal punto di vista di sorella e sorellina, navigate supereroine assassine. Non li cercano per una nemesi (in questo sono poco Avengers, Vendicatrici), ma per fini strumentali al proprio progetto. Rivederli rende la nemesi certa.

 

La Marvel ha deciso di produrre un film diverso dal resto della serie, più rétro anziché più innovativo. A parte l'inizio ambientato nel 1995, la storia si svolge nel 2016 in varie parti del mondo, soprattutto a Budapest. E ha due finali: il secondo, ambientato nel 2023, potrebbe sfuggirvi, perché è dopo i lunghissimi titoli di coda. Il livello qualitativo della regia lascia un po' a desiderare, a cominciare dal fatto che sacrifichi le straordinarie doti espressive della Johansson nelle vesti del personaggio più affascinante degli Avengers a vantaggio della pur brava Pugh, forse per 'lanciare' la simpatica e più infantile terza Vedova Nera nei prossimi film della Marvel. Peccato, davvero.

 

Nicola d’Ugo

 

(Luglio 2021)

 

 

6 giugno 2021

«“Roubaix, una luce”. Un film di Arnaud Desplechin» di Nicola d’Ugo

 


Carino, non un capolavoro, ma interessante. Il film di Arnaud Desplechin si ispira a un evento di cronaca del 2001-2002, in cui venne uccisa una donna anziana e vennero accusate le due giovani vicine, misere, alcoliste e tossicomani.

 

Gli attori sono di notevolissimo livello, come ci si aspetta dai francesi. Roschdy Zem, nella parte del commissario, ha ricevuto il Premio César come migliore attore nel 2020, mentre Sara Forestier la candidatura come attrice non protagonista. Léa Seydoux, la più celebre a livello internazionale, non ha ricevuto un picchio, del resto quello che hanno ricevuto lei e Adèle Exarchopoulos per la loro interpretazione de La vita di Adele non l'ha mai ricevuto nessun altro attore nella storia del cinema, neppure Marlon Brando, Sophia Loren o Meryl Streep: la Palma d'oro a Cannes nel 2013. Qui recita alla grande, non come insipida Bond girl.

 

Roubaix, una luce non è male, è un film che è stato candidato alla Palma d'oro a Cannes e al César francese. La parte migliore è quella degli interrogatori e dei rapporti con la città ai confini del Belgio del commissario arabo, cresciuto lì. Roschdy Zem dà spessore umano al commissario, la sua è davvero una bella interpretazione non banale. Per il resto il film manca di una cinematografia d'autore, non c'è la magia che il cinema ha nelle sue potenzialità, si affida solo a un intreccio abbastanza semplice, alla notevolissima interpretazione degli attori, a buoni dialoghi e a un'interessante raffigurazione dei metodi dell'interrogatorio francese. Il resto è uno squarcio illustrativo su una depressa città di provincia del Nord della Francia. Un film che mette in luce la bassezza morale che si vive in certe città francesi colpite da povertà, depressione economica e separatismi etnici. In fondo, più che essere un noir, cerca di offrire allo spettatore uno sguardo antropologico su Roubaix come esempio tipico delle realtà provinciali europee, senza moralismo e prese di posizione nette.

3 dicembre 2020

«“The Bourne Legacy”, il futuro in atto» di Luciano Albanese

 


Schiacciato dagli altri episodi della serie Jason Bourne, privo di Matt Damon, evocato, ma non presente, come l’Achille omerico sotto la tenda; infestato da alcuni spezzoni dei film precedenti della stessa serie, The Bourne Legacy (2012) poteva avere l’apparenza di un centone poco digeribile e inutile. Io stesso mi ero sempre rifiutato di vederlo. Poi mi è capitato di trovarlo su Netflix e ho capito che avevo fatto male. Il film offre in apertura alcune scene bellissime ad alta quota, che impegnano colui che si era già rivelato un grande attore in The Hurt Locker (2008), Jeremy Renner, in una difficile gara di sopravvivenza fisica, a tu per tu con la natura selvaggia delle montagne dell’Alaska e circondato dai lupi. Ma sopravvive alla grande, e da questo si capisce che deve avere un fisico fuori del comune. Attraversate le montagne, si dirige verso una baita in mezzo alla neve e alla foresta, dove l’aspetta un uomo, altrettanto in buona salute. Aaron Cross, questo il nome del protagonista, dice all’abitatore della baita che ha perso la sua dotazione di medicine, e ne chiede di nuove.

 

Nel frattempo abbiamo capito, dalle scene precedenti e dagli spezzoni degli altri film, che i due sono agenti, e che siamo nel corso di un’altra delle operazioni coperte che già hanno reso la vita difficile a Jason Bourne. Ma qualcuno ha deciso di terminare questa operazione che rischia di essere scoperta e, come nei Tre giorni del Condor (1975), di chiudere la bocca a tutti gli agenti coinvolti. Quindi lo stesso drone che il giorno prima aveva rifornito la baita di materiali, torna improvvisamente e la distrugge in modo spettacolare insieme al compagno di Aaron che stava al suo interno.

7 gennaio 2019

«Bambole perverse. Conversazione con Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri» di Doriano Fasoli



Mariuccia Ciotta, giornalista e critico cinematografico, autrice di programmi radiotelevisivi, ha scritto saggi e libri su autori e generi del grande schermo. Tra le sue pubblicazioni: Un marziano in tv. (Francamente me ne infischio). Adriano Celentano (Rai Libri, 2001), Rockpolitik. Adriano Celentano (Bompiani, 2006), Walt Disney. Prima stella a sinistra (Bompiani, 2010). Ha diretto il quotidiano il manifesto dal 2003 al 2009.
Roberto Silvestri, giornalista e critico cinematografico, conduttore Rai del programma Hollywood Party, ha pubblicato Macchine da presa. Il cinema verso il nuovo millennio (minimum fax, 1996). Tra i fondatori del cineclub Il Politecnico, ha diretto i festival di Lecce, Rimini, Bellaria, Aversa, Ca’ Foscari, Sulmona e la collana «Illegal & Wanted» per Raro Video. Ha ideato e diretto Alias, settimanale culturale de il manifesto.
Ciotta e Silvestri hanno inoltre scritto insieme Da Hollywood a Cartoonia (manifestolibri, 1993), Il Ciotta-Silvestri (Einaudi, 2012) e, con Rossana Rossanda, Il film del secolo (Bompiani, 2013). Il loro ultimo lavoro, Bambole perverse. Le ribelli che sconvolsero Hollywood, è da poco uscito per i tipi La nave di Teseo.

Doriano Fasoli: Ciotta e Silvestri, nella prefazione al vostro libro Luca Guadagnino scrive: «Sono sicuro che per Ciotta e Silvestri il cinema è una pistola. Per loro, come per il personaggio di Joan Crawford in Johnny Guitar, il cinema è un atto di violenza etica.» Vi corrisponde quest’affermazione?

Roberto SilvestriIn senso metaforico sì. To shoot, giraresignifica anche sparare, in inglese… Étienne-Jules Marey, tra i pionieri del cinema, sfruttò il meccanismo utilizzato a quel tempo dalle armi da fuoco più moderne per realizzare una rudimentale cinepresa a forma di fucile. Infatti, non dimentichiamo mai, «quando un uomo con la pistola incontra l’uomo con il fucile…» Armare il pubblico con ogni mezzo di difesa e di attacco necessario, dalla pistola di un tempo fino allo scudo spaziale di questi tempi, è uno dei compiti della critica non schematica e non settaria e anche dei registi in questa epoca di fake news e di fake newsreel. Il cinema è «una accumulazione simultanea e progressiva di conflitti», come ricordava Glauber Rocha pensando a Èjzenštejn e a Faulkner.

Mariuccia Ciotta: Sì, il cinema richiede un atto di violenza contro il «sentimento di rassegnazione», come dice Alain Badiou. Il cinema è qualcosa che riconfigura la realtà attraverso uno shock emozionale, e immagino il critico nelle vesti, anzi nello shell, di Motoko, il cyborg di Mamoru Oshii che trasmette una inquietante estraneità agli umani, e si batte contro le ingiustizie con le sue potenti e futuribili armi spaziali.

30 gennaio 2018

«Hollywood & Colossal. Intervista a Francesco Contaldo e Franco Fanelli» di Doriano Fasoli



Francesco Contaldo, laureato in filosofia, ha lavorato nel cinema, alla radio e alla televisione. È sceneggiatore, saggista e autore di romanzi per ragazzi. Con Franco Fanelli si è occupato a più riprese di tematiche inerenti all’industria cinematografica e alle dinamiche generali dei mass media. Franco Fanelli, laureato in lettere, conduce da lungo tempo ricerche nel campo delle scienze del linguaggio ed ha avuto esperienze di regia documentaristica e di critica cinematografica. Insieme, nel 1979, hanno pubblicato L’affare cinema. Multinazionali, produttori e politici nella crisi del cinema italiano.

Doriano Fasoli: Contaldo, Fanelli, com’è nata l’idea di questo libro, Hollywood & Colossal. Nascita, splendori e morte della grandeHollywood (pubblicato in questi giorni da Alpes)?

Contaldo e Fanelli: Dalla precedente pubblicazione, ormai lontana nel tempo, di L’affare cinema per conto della Feltrinelli. Là esploravamo le ragioni di una crisi epocale del cinema italiano, quella degli anni Settanta che portò la produzione annuale dei nostri film da oltre duecento a qualche sparuta decina. I più la leggevano come crisi di talento e di idee, invece scoprimmo ragioni più profonde e strutturali. Oggi abbiamo deciso di mettere a frutto l’esperienza acquisita in ambito statistico ed economico per entrare direttamente nella stanza dei bottoni dell’unica, autentica industria cinematografica del mondo occidentale ed esplorarne accuratamente il funzionamento.

Perché date tanta importanza ai colossal?

Perché ci siamo accorti quasi subito che il vero motore propulsivo del settore – in ogni suo comparto, dalla realizzazione all’uscita in sala – sono sempre stati proprio i film considerati da tutti come “eventi”, cioè picchi unici e irripetibili dello spettacolo sul grande schermo. Abbiamo cioè scoperto – questa, almeno, è la nostra tesi di fondo – che essi hanno storicamente esercitato una funzione entropica indispensabile per lo sviluppo stesso del cinema americano, quantomeno di quello hollywoodiano. Basti pensare a Via col vento o a I dieci comandamenti per i classici oppure, in tempi più recenti, a Superman, ad Apocalypse Now o alla saga di Guerre stellari. Da una parte, infatti, scompaginavano gli standard, cioè la normale produzione filmica, tanto in termini di costi che di finanziamenti, di estensione delle campagne promozionali e di trasversalità del profitto attraverso il merchandising in tutte le aree contigue al cinema; dall’altra, garantivano il movimento di ingenti capitali e, quindi, catturavano l’attenzione crescente dei grandi gruppi di potere finanziario. Ciò che ha portato Hollywood alle vette dello show business, ma anche – ed è questa l’altra tesi di fondo – alla morte negli anni Novanta per svuotamento progressivo delle sue caratteristiche specifiche, sacrificate sull’altare dei movimenti di Borsa e delle macrostrategie del capitale finanziario.

21 gennaio 2018

«“La vita di Adele”. Adele e la sua ‘differenza’» di Silvia Maria Pettorossi



Noi stessi non abbiamo la vita sacra. Ne parliamo solo per aver preso coscienza che manca al mondo, che gli manca e che ci manca. Vorremmo legare un mondo che si disfa, ma non abbiamo la corda, e non siamo in grado di sapere perché questa corda non è nelle nostre mani; è perché la vita non serra più i suoi nodi in noi, è perché la vita stessa ci manca.

G. Bataille, Il limite dell’utile

Fuori è notte. Una torrida notte d’agosto in cui è difficile che Morfeo venga a farti visita. Trepidante per la snervante attesa, decido di condividere l’intimità della mia stanza con il pc, alla ricerca di qualcosa che possa dare senso ai minuti e, forse, alle ore. Mi imbatto casualmente – ma sono un po’ bugiarda – nella pellicola, pluripremiata a Cannes 20131, La Vie d’Adèle. Chapitres 1 & 2 (La vita di Adele. Capitoli 1 & 2 nella versione italiana) di Abdellatif Kechiche, tratta dal fumetto di Julie Maroh Le bleu est une couleur chaude2. L’attenzione s’era infatti – altrimenti destata – mediante un trailer intravisto in qualche inframezzo pubblicitario, nonché dal gran clamore che ne ha accompagnato l’esordio sugli schermi italiani e non solo. Consapevole che tali tempeste marcano in genere la massima lodevolezza o il suo opposto, decido di spendere almeno un po’ del mio tempo. Tanto per ora non ho visite.

Sullo sfondo della cittadina francese di Lille, si incontrano e si scontrano le esistenze, declinate nei corpi vivi e incandescenti, delle due giovani protagoniste: Adele (Adèle Exarchopoulos) ed Emma (Léa Seydoux). Corpi vibranti di passione che sembrano fondersi in un unico movimento armonico, non sfuggendo all’occhio ‘generoso’ della macchina da presa.

Lungi dall’essere un softcore, La vita di Adele è molto di più. Oserei dire quasi l’epitome di una certa filosofia francese contemporanea tradotta in immagini. Come all’interno di un toolbox, vi si trova di tutto – perfino Sartre con la sua lettera-manifesto L’esistenzialismo è un umanismo – spiegato dalle erudite parole di Emma a una giovane Adele, che poco si intende di filosofia, alla quale preferisce la musica di Bob Marley.

Nonostante la preponderanza dell’intreccio amoroso tra le due giovani, uno tra gli spunti più importanti che la pellicola offre, a mio avviso, è proprio la sollecitudine alla riflessione sul grande topos filosofico della libertà come chiave di lettura dell’opera.

Forse uno sguardo poco attento, o ‘poco esperto’, potrebbe dissentire, ma se si presta attenzione alla resa delle figure femminili, all’accento posto sull’elemento “oscuro”, passionale, e soprattutto a come questo venga declinato in due diverse, opposte modalità, le tessere del mosaico iniziano a prender forma rendendo il quadro più nitido.

Chi siamo noi in quanto soggetti, «identità»? Come si pone la relazione verso quest’ultima tra termini ad essa interdipendenti come «libertà» e «responsabilità»? Siamo progetto gettato nel mondo, abitati da una libertà sostanziale, ontologica, assoluta, che vede un io assertivo all’altezza della propria scelta, o siamo forse soggetti decentrati, segnati da una part maudite ineliminabile, che disfa i nostri progetti identitari obbligandoci, di volta in volta, ad una laboriosa ricostruzione di noi stessi?

18 febbraio 2013

«Conversazione con Dionys Mascolo» di Doriano Fasoli


Dionys Mascolo e Marguerite Duras
«L’intento di queste riflessioni non era di produrre qualche giudizio in più sul ‘caso Heidegger’, e più precisamente sul coinvolgimento del filosofo oltre mezzo secolo fa. Non si poteva d’altronde evitare di tenerne conto. L’intenzione era in effetti quella di interrogarsi su quella che sembra una generale crisi degli spiriti di fronte ai tradizionali compiti della conoscenza, e del processo filosofico in particolare.» È così che Dionys Mascolo (nato a Saint Gracian, Parigi, nel 1916 e scomparso all’inizio del nuovo millennio) in Bassezza e profondità. Saggio su Heidegger – pubblicato in Italia dagli Editori Riuniti – intraprendeva una critica  che andava oltre l’esegesi filosofica per appuntarsi sul «pensiero tecnico» di Heidegger preso qui a modello. Pensiero atomizzato, specializzato che, nelle sue pretese di obiettività, fornisce in effetti gli strumenti per nascondere e sottomettere alla censura di un Super-Io filosofico la «stupidità» del pensiero. È solo a partire dalla diffidenza del pensiero verso se stesso che si rivela possibile un «pensiero integro» quale «pensiero che si forma nello scambio di parole a viva voce o per iscritto» e il cui luogo privilegiato sono i rapporti d’amore e d’amicizia.
E di ciò Mascolo (che viveva a Parigi e del quale molti ricorderanno il libro intitolato Le Communisme, edito da Gallimard nel 1953) è in grado – in questa intervista inedita – di dare tracce, riferendo, com’era solito fare, pensiero, frasi, battute di coloro che gli sono stati interlocutori: Queneau, Breton, Bataille, Blanchot…

Doriano Fasoli: Mascolo, perché chiama la filosofia un «pensiero specialistico» oppure una «tecnica di pensiero»? 

Dionys Mascolo: Perché non è il vero pensiero. È il pensiero che ubbidisce alla logica, alla ragione, alle categorie, e non tiene conto delle passioni, dell’animo, del cuore, del sesso eccetera. I grandi pensatori non sono dei filosofi.

23 dicembre 2012

«Intervista con Cesare Mazzonis» di Doriano Fasoli


Cesare Mazzonis è nato a Torino nel 1936. Ha ricoperto diversi ruoli nell’ambito della cultura musicale italiana: è stato, infatti, direttore artistico dell’orchestra Rai di Roma; direttore artistico del Teatro alla Scala per dodici anni; direttore del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per undici anni; consulente al Teatro Bol'šoj di Mosca, ad Atene, e per Claudio Abbado. Dopo aver vissuto e lavorato a Buenos Aires, Londra, Roma, Milano e Firenze, è attualmente di stanza a Torino come direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Oltre alla musica, Cesare Mazzonis si è sempre dedicato alla scrittura. Per Einaudi ha pubblicato due romanzi: La vocazione del superstite (1973) e Il circolo della vela (1975). Poi, per Feltrinelli, La memoria fastosa (1987). Ha tradotto Arno Holz e Bertolt Brecht per spettacoli di Luca Ronconi e Federico Tiezzi. Sempre per Ronconi ha scritto il testo dello spettacolo Nel bosco degli spiriti (2008), – tratto dal romanzo di Amos Tutuola La mia vita nel bosco degli spiriti, edito da Adelphi, – e il libretto da Cuore di cane di Bulgakov per l'opera di Raskatov andata in scena ad Amsterdam e a Londra, e che dovrà approdare alla Scala nella prossima stagione. Il suo ultimo libro si intitola Ragnatele sul nulla (2012), pubblicato da Le Lettere: un insieme di riflessioni sul tempo, la morte, le illusioni umane, imbastito e compilato nel corso di molti anni di vita e di lavoro. L’intervista che segue è stata realizzata a Roma nel dicembre 2012. 

Doriano Fasoli: Partiamo dal titolo: cosa suggerisce «ragnatele sul nulla»?

Cesare Mazzonis: Il titolo del libro è indicato, se vogliamo, dal lemma che antepongo: un verso di Calderón nel quale si giudica «inútil ciencia» studiare «ciò che sarà», e che invece propone l'obbligo di indagare «lo que no ha de ser»: ciò che non avverrà. In due parole: d'obbligo è il «nulla», al quale ritengo con scarsa allegria di essere destinato in conclusione del vivere. E ciononostante tutto «lo que no ha de ser», l'immaginario che dai primordi l'uomo ha opposto al «nulla» iniziale e finale, l'inventario dei luoghi dell'aldilà e i viaggi di andata e ritorno dal Paese dei Morti (i viaggi orfeici) mi affascina straordinariamente.
Sono queste appunto le «ragnatele» che, per nascondere il «nulla», intorno ad esso io tramo e infittisco. «Farà scrivendo a Morte illustri inganni», del cavalier Marino, è il secondo dei tanti lemmi che aprono i capitoli del libro. E faccio intervenire difese fittizie: le «Mura intorno all'Anima» lo sono alle invasioni del pericolo, alla malattia, ai morti e alla morte. Da «La tana» di Kafka ai villaggi coreani, al castello spenseriano di Alma… esempi su esempi. Alla «ragnatela» ho voluto dare un secondo significato: la sua materia nasce dal ventre (o dal cervello) di chi la stende, e che però nella stesura si appiglia a tutto ciò che lo circonda. Ai miti, alle saghe, alle leggende, alle fiabe, ad opere letterarie e di pensiero ho appunto legato le mie «bave» di ragno.

15 agosto 2012

«Intervista a Carmelo Bene sul RICCARDO III» di Doriano Fasoli



Susanna Javicoli e Carmelo Bene
in Riccardo III, da Shakespeare
Questo Riccardo III di Carmelo Bene affronta la questione del teatro alla sua radice e restituisce alla scena e allo spettatore la radicalità della questione del ‘rappresentare’ e dell'’esibire’: la negazione dell'illusione pacificante del rappresentare, dell'impersonare (un ruolo, un carattere, un ‘significato’) e dell'incarnare; e il terrore di un linguaggio che divora se stesso e si consuma e si attorce attorno al suo apparire e svanire.

L'intervista che segue, in gran parte inedita, fu fatta a Carmelo Bene al Teatro Quirino di Roma nel febbraio 1978.

Doriano Fasoli: Come viene affrontata la questione del potere in questo tuo Riccardo III?

Carmelo Bene: Il potere è assente da questo Riccardo. Non lo ebbe in vita e non glielo do nemmeno in scena: è quella che Deleuze chiama «la macchina da guerra», cioè rivoluzionante di continuo; l'odio per la quiete dello stato o per lo stato di quiete.

18 luglio 2012

«Intervista a Carmelo Samonà» di Doriano Fasoli


Carmelo Samonà morì a Roma nella clinica «Marco Polo», dove era stato ricoverato da qualche tempo, il 17 marzo 1990. Era nato a Palermo nel 1926. Noto ispanista, fine critico letterario, insegnava Letteratura spagnola all'Università «La Sapienza» di Roma. Come narratore aveva esordito solo a 50 anni, ma i romanzi Fratelli (Einaudi, 1978) e più tardi Il custode (Einaudi, 1983) lo avevano imposto come uno dei nostri talenti più appartati e sofferti.

La mia conversazione con Samonà – in gran parte inedita avvenne in due tempi: il primo incontro risale al mese di maggio 1986, il successivo al febbraio 1989.

Doriano Fasoli: Da quanto tempo si è stabilito a Roma?

Carmelo Samonà: Dal 1936; avevo dieci anni.

Come le appare, oggi, questa città?

Splendida e perversa. O meglio: di una bellezza polverosa, ferita, sopraffatta da violazioni impudiche, spesso brutali. Io la ricordo nell'aurea epoca del suo provincialismo: era magari dimessa e sciatta, ma d'una struggente amabilità. Il fascismo le assestò i primi colpi con le baggianate imperiali e littorie; poi è venuta la speculazione edilizia; infine le automobili. Queste ultime non l'hanno solo imbruttita, la stanno uccidendo.

15 gennaio 2011

«Ultima intervista a Emilio Garroni» di Doriano Fasoli


Emilio Garroni,
Immagine Linguaggio Figura,
Laterza, Roma-Bari 2005.
132 pp. EUR 22.00
L’intervista che segue fu l’ultima che (mi) concesse il filosofo Emilio Garroni (in occasione dell’uscita del volume Immagine Linguaggio Figura), poco prima della sua scomparsa, avvenuta nel 2005.

Doriano Fasoli: È da poco uscito da Laterza un suo nuovo libro: Immagine Linguaggio Figura, ultimo prodotto della sua attività instancabile. Ne vogliamo parlare insieme? Di che si tratta? È un libro, mi pare, di contenuto nuovo, se escludiamo il suo primissimo lavoro, La crisi semantica delle arti.

Emilio Garroni: Sì, in qualche modo è vero, anche se indirettamente mi sono sempre occupato di questi argomenti, la nascita del significato, del segno e della complessa strategia culturale umana. Ma qui prendo la cosa di petto. Debbo premettere che tutto ciò che qui diremo nel libro è detto in modo piano e comprensibile. Questa mi pare la sua vera novità, in particolare rispetto a quel primo libro, che è pieno di note, citazioni, autori, spesso anche non necessari. Ricordo che Italo Calvino, che lo apprezzò molto e lo utilizzò anche per un racconto sul segno, me lo fece notare. E da allora seguo sempre le sue indicazioni. L’ultimo insomma è scritto come se parlassi tra me e me, non ci sono note e vengono citati nel testo pochissimi autori, quasi solo classici, e il discorso giunge al lettore con una capacità notevole, a quel che mi dicono, di farsi comprendere. Badi, non è un testo divulgativo. Ma risulta comprensibile per la ragione detta.

15 novembre 2009

«Riprendere la differenza: 'Doppio sogno' di Schnitzler e 'Eyes Wide Shut' di Kubrick» di Nicola D'Ugo





Nelle foto, da sinistra, lo scrittore viennese Arthur Schnitzler e il regista newyorkese Stanley Kubrick.



La rivisitazione dei miti è un esercizio tipico dei grandi artisti d’ogni tempo, sia perché per affettività e modo di guardare l’universo mondo essi ne son stati la spiante toppa e la chiave, sia perché il mito non calza piú con le necessità loro. La rivisitazione, oltre che un tributo, s’offre come un tradimento di grande fedeltà che rende col tramando linfa novella alla tradizione. Un tale omaggio è tipico del cinema, che abbisogna di soggetti che la letteratura non ha smesso di apportare. Eyes Wide Shut (1999) non è nato dalla penuria di soggetti, né da una conversione allo psicologismo schnitzleriano, che in Kubrick v’è sempre stato.

La psicologia dello scrittore viennese tratteggia con minuto rigore lo Shining (1980), benché l’omonimo romanzo di Stephen King ne sia il soggetto: qui si trattava di tessere l’azione a partire dall’immaginario dei suoi caratteri, per render giustizia all’importanza che il vissuto riveste nelle umane cose. Ne era metafora la ‘guerra’, tema caro al regista newyorkese, in seno a una famiglia con pochi contatti o punto col mondo esterno. V’era poi un gioco con gli spettatori, nel fargli credere che Jack Torrance fosse la fonte d’ogni male, irretendoli nei loro luoghi comuni. L’horror, poi, veniva nobilitato all’estrema potenza da un rigore formale che metteva a tema la società americana, il razzismo e il ruolo del lavoro nella modernità.