26 maggio 2019
«Europa cristiana: un falso storico» di Giovanni Sias
29 novembre 2016
«Per salutarti. (In morte di Vittorio Sermonti)» di Giovanni Sias
Vittorio Sermonti |
Ti ho sentito e visto sofferente, è vero, ma comunque mi sembravi sempre immortale, con quel tuo sguardo curioso e divertito del mondo, che però sapeva anche farsi serio e severo, di un mondo abitato per lo più da stupidi. Ma anche questo era parte del gioco e della meraviglia: quel gioco tragico del vivere a cui si può opporre solo l’intelligenza dell’umorismo del vizioso che si accompagna con il tempo della solitudine in cui ci s’immerge nella lettura e nella scrittura: vizio capitale di chi passa la vita a scrivere e tradurre, ad amare le donne occhi pescosi, e quell’autore nelle cui mani (pagine…) si consegna la propria vita, con lo sforzo titanico e gioioso e generoso di ridargli vita, e pensieri che non aveva ancora pensato, largo respiro e voce per raggiungere ancora, come in un tempo immemore, folle curiose e anche desiderose di ascoltare colui che non avevano forse mai ascoltato.
E io con te ho davvero letto Dante perché, diciamolo, non l’avevo mai letto per davvero. In passato avevo letto solo dei versi senza voce, e la tua voce li ha resi di nuovo vivi; e quando la mia lettura seguì la tua voce tutto mi è apparso limpido e pulsante ancora di vita e di senso: hai saputo dare voce alla mia lettura della Commedia. Ti sono davvero grato per questo, come lo sono per il buon vino bevuto insieme.
Hai ridato voce a quell’Alighieri, Dante di nome e fiorentino per sorte maligna, ché in quella città di Firenze gli toccò di nascere, che è poi la sorte di tutti e di ciascuno nascere in un luogo di esilio anche se il caso, o altri, non ci caccia costringendoci ad altri luoghi. E qui, la tua vita, caro amico a riposo, la sapeva lunga.
In quella Firenze in cui studiasti e che esiliò a un certo punto voce e pensiero che tu ridonasti negli anni a Dante con tutta la forza dirompente della sua e tua tragicità; quella città di esili preferì, alla tua voce italiana calda e profonda, la voce fiorentina e sguaiata di uno sgangherato comico che nel diluire nelle risa il tragico canto tolse all’Alighieri la forza e la statura della sua poesia rendendola sterile all’ascoltatore. Ma così è Firenze: vende, e si vende, al miglior offerente del niente.
Una sera a cena a Firenze, di ritorno da Santa Croce dove leggevi Dante, in un momento di sfogo, e anche di rabbia perbacco (e perché no: giusta!), dicesti che, finita quella lettura, a Firenze non ci saresti mai più tornato. E così anche in una cena a casa mia a Milano, con Sergio e Laura e le mogli inseparabili, parlasti con divertito dispiacere di quella città inospitale che aveva preferito il suo comico nazional-popolare al sommo Dante da ritrovare. E così fu. Al Dante tragico, da leggere, da ascoltare, da meditare, Firenze preferì un Dante ridanciano da intrattenimento serale. Esiliato un’altra volta, questa volta con l’esilio della tua voce. Non è così facile, amico caro, cambiare un destino anche se ci proviamo per una intera vita.
10 giugno 2016
«Breve nota sull'universo gender di Giancarlo Ricci» di Giovanni Sias
Sessualità e politica. Viaggio nell'arcipelago gender
Giancarlo Ricci
SugarCo
Milano 2016
EUR 16,80
240 pp.
ISBN: 88-71-98701-2
La lettura dell’ultimo lavoro di Giancarlo Ricci, Sessualità e politica (2016, SugarCo ed.), impegna in alcune riflessioni che riguardano da vicino la nostra vita nella contingenza storica, ed è anche, e forse soprattutto, occasione per trovare una via non ideologica per tentare di cogliere che cosa passa oggi a livello mediatico e dei luoghi comuni che attraversano le società del nostro tempo. Forse è questa l’indicazione contenuta nel sottotitolo del libro «Viaggio nell’arcipelago gender». E che il «gender», espressione di una libertà falsa e distorta, sia di ordine squisitamente ideologico mi sembra fuori di dubbio. Che una persona ritenga di poter scegliere il «genere» a cui appartenere benché nasca maschio o femmina, e si ritenga in potere di sovvertire tale statuto biologico ancor prima che antropologico, non può che essere frutto di un’idea di onnipotenza sostenuta dalla potenza della tecnica.
Che si tratti di ideologia lo sottolinea anche il fatto non irrilevante che in questo dibattito sociale non sembra che ci sia spazio per discutere, sia sul piano etico sia su quello scientifico: il pensiero gender, sostenuto dai programmi accademici di psicologi e sociologi (e cioè di quelle teorie che il nostro Ugo Spirito chiamava «false scienze») che ne hanno costruito l’ideologia, si presenta come indiscutibile e corre per la sua strada egemonica senza trovare ostacoli, sostenuto dalla politica e dalla falsa-scienza dei nostri tempi.
Che Giancarlo Ricci abbia voluto, con questo libro, portare il confronto sul piano del linguaggio, evitando ogni trabocchetto ideologico, è il suo merito, ed è il suo tentativo di riportare un dibattito sul piano della scienza.
Infatti, se vogliamo leggerlo dobbiamo partire dalla frase tratta da Freud e messa in esergo: «La psicanalisi non ha il compito di rendere impossibili le relazioni problematiche, ma di creare per l’Io del paziente la libertà di optare per una soluzione». Qui si trova, o almeno così a me pare, l’indirizzo per leggere in modo corretto il libro di Ricci.
La struttura del libro poi rimanda a questioni e temi che si sviluppano eminentemente sul piano linguistico. Organizzato come un dizionario prende in considerazione tutti i termini (dalla A di abuso alla V di vittimismo) che caratterizzano il linguaggio intorno a tali questioni, e se seguiamo il percorso che analizza il senso che le parole acquisiscono nell’«arcipelago gender», e più in generale nel linguaggio corrente, ci accorgiamo come tutto questo discorso su una presunta facoltà umana, che non vuole tener presente la sessualità come elemento determinato dal caso (naturale, biologico, e anche antropologico per quanto riguarda una cultura dell’umano), ma lo considera solo un elemento sociale, in cui la sessualità è pensata come scelta «libera» di un ipostatizzato e illusorio soggetto a cui la filosofia da lunghi anni (quattro secoli!) ci ha assuefatti, ci troviamo a constatare come il trionfo del narcisismo scivoli sempre più nella perversione, e che le società attuali, sul piano finanziario, tecnologico, economico e politico, attuano la perversione come espressa possibilità di dominio, di controllo e di assuefazione delle coscienze.
Qui non si tratta più di porre la questione intorno alla libertà di essere o di riconoscersi omosessuale, per esempio, ma ben peggio, di confinare l’omosessualità in una specie di enclave antroposociogiuridica per specie protette, e di dare a essa uno statuto sociale che nulla ha a che fare con quanto viene sbandierato come libertà sessuale o umana. In realtà, se grattiamo anche solo un poco l’apparenza, ci accorgiamo che non di libertà si tratta, perché un tale meccanismo di controllo, attuato sul piano tecnico e politico, comporta esattamente il suo contrario dal momento che procede dalla negazione di uno statuto simbolico dell’umano e amputa per ciascuno la possibilità di riconoscersi per ciò che è sul piano della sua nascita: nato maschio, nata femmina, destinato dal caso a essere uomo o donna. Tolto il caso che mi ha generato che cosa mi resta di una mia autentica libertà? Tolto il caso che ci ha fatto maschi o femmine non ci resta forse solo la sottomissione alla tecnica, la cui realizzazione di potenza può prevedere solo che l’uomo diventi niente più altro che «un mezzo» per accrescerla?
Ricci se ne avvede, coglie i rischi insiti nell’ideologia, e lo scrive in conclusione della sua «Introduzione»: «L’ideologia gender risulta così la punta più avanzata, ipermoderna e neoliberale di gestione e controllo della soggettività. In nome di una tecno-biologizzazione essa propone una negazione dello psichico per celebrare il trionfo narcisistico dell’Io a discapito del bene comune». E qui, «bene comune», dovrebbe essere inteso come la sessualità che concerne ciascuno e non come una ipotetica «libera scelta»; come quel processo di individuazione che ci fa uomini e donne, indipendentemente dalla «scelta» sessuale (omosessuale o eterosessuale) in cui siamo implicati nostro malgrado.
11 maggio 2016
«La Follia ritrovata. Conversazione con Giovanni Sias» di Doriano Fasoli
Giovanni Sias è psicoanalista. Vive e lavora a Milano, dove si occupa, in particolare, della formazione degli psicoanalisti. Studioso e teorico della psicoanalisi fa parte dell’Area Mediterranea di Psicanalisi, un collettivo di lavoro che raccoglie psicoanalisti italiani, francesi di area provenzale e occitana, e spagnoli. La sua ricerca teorica si rivolge in particolare alle strutture fondanti la pratica della psicoanalisi e alla rielaborazione costante dei principi primi della conoscenza psicoanalitica: Edipo, Mosè e il pensiero sapienziale (Presocratici e profeti), le forme di elaborazione e trasmissione della psicoanalisi (il teatro, la letteratura, l’arte) e dei suoi rapporti con il pensiero scientifico moderno. A Milano collabora con la Fondazione Humaniter istituita dalla Società Umanitaria, dove tiene un seminario sulla Cultura della psicoanalisi. Dalla Fondazione «Dino Terra» e dal Comune di Lucca è stato nominato direttore scientifico del convegno internazionale Letteratura e psicoanalisi del marzo 2012. I suoi lavori più importanti sono pubblicati in Italia e in Francia, oltre ad articoli pubblicati in inglese, spagnolo, portoghese, greco e turco. Tra i tanti si ricordano: «L’artista e la follia», in Cristaldi, Miriam (a cura di), Arte come evocazione, L’Uovo di Struzzo, Torino 1990; Inventario di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1997; «Clinica del ritratto», in Raimondi, Ezio (a cura di), Ritratto della poesia, Quaderni del Circolo degli Artisti di Faenza, Faenza 1998; «Nel nome del padre», Bibbia e Oriente, vol. 43, n. 210, 2001; Fuga a cinque voci. L’anima della psicanalisi e la formazione degli psicoanalisti, Antigone, Torino 2008; «logos. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Kamen’, n. 34, gennaio 2009, pp. 91-131; «Il motto di spirito nei suoi rapporti con la verità», in AA.VV., Atti del Convegno internazionale di studi sull’umorismo, Lucca 6-8 aprile 2009, a cura di Daniela Marcheschi; Appunti per una nuova epistemologia. La psicanalisi, la scienza, la verità, Zona Franca, Lucca 2011; «ובד. Il ritorno della sapienza antica nell’esperienza della psicanalisi», Enthymema, n. 9, dicembre 2013, pp. 334-369; «La psicoanalisi dopo José Ortega y Gasset», Studi Ispanici, Anno 40, 2015, pp. 147-176.
La presente conversazione prende origine dall'uscita dell'ultimo libro di Sias: La Follia ritrovata. Senso e realtà dell’esperienza psicoanalitica, Alpes Italia, Roma 2016.
Doriano Fasoli: Come nasce il suo ultimo lavoro, dottor Sias?
Giovanni Sias: La Follia ritrovata nasce da un articolo di alcuni anni fa, scritto per il blog di un’amica cantante jazz e psicanalista, Laura Pigozzi, in cui affrontavo alcuni temi riguardanti la follia, in particolare in relazione alla musica, e a cui aggiunsi, come sintomo della moderna mentalità intorno alla follia, e in forma di elogio, un paio di pagine sull’autismo. I temi toccati erano la letteratura, in particolare in relazione al lavoro di Giuseppe Pontiggia, la filosofia, il teatro. Era comunque un articolo breve che non approfondiva in maniera sufficiente nessun aspetto. Insomma, un articolo che mi lasciava insoddisfatto, soprattutto per il suo sorvolare sui vari e tanti temi che apriva. Cosa, questa, per me un po’ particolare e fino allora estranea al mio modo di scrivere che si è sempre sviluppato in modo piuttosto omogeneo lungo un solo tema, mentre in questo libro i temi sono molti. Ma soprattutto la riflessione sulla follia, il tema dell’articolo, mi sembrava eccessivamente incompleta e inconclusa.
A riaprire la mia attenzione verso il tema del mio articolo, un paio di anni dopo, o forse anche tre, fu un articolo di un filosofo russo, Vitalij Machlin, pubblicato sulla rivista di letteratura Enthymema, dell’università Statale di Milano, dal titolo «Oltre l’interpretazione», dove l’autore, prendendo spunto dal lavoro scientifico di Bachtin, si fa portatore di una nuova proposta di dialogo fra autore e lettore. Si riaprirono così temi rilevanti del mio percorso di ricerca, come la traduzione, la lettura, il sogno e così via. Insomma i temi toccati nel libro la cui occasione di pubblicazione mi fu offerta da Doriano Fasoli per i tipi di Alpes Italia.
La scrittura restava però sul piano della domanda. Alla fine mi sono reso conto che intorno al tema centrale, la follia, e gli altri temi che in relazione si aprivano, potevo avvicinarli solo per domande; di ciò che mi ero proposto di sviluppare non riuscivo a dire nulla di conclusivo, non andavo oltre il domandarmi, oltre all’articolazione della domanda e l’accostamento dei temi trattati. Alla fine, questo piccolo libro, così diverso da tutti gli altri scritti, mi è risultato forse più soddisfacente, più libero, senza eccessive griglie interpretative che, alla fine, lasciano sempre un testo apparentemente concluso ma anche rinchiuso in un involucro di finitezza. L’apertura della domanda, invece, è resa infinita dall’assenza di risposta, di una risposta univoca. La risposta, in effetti, impedisce quel processo di conoscenza che l’interrogazione avvia. In una esperienza psicanalitica non ci sono risposte, ma una continua articolazione della domanda, spinta sempre a livelli superiori, e cioè l’articolazione della domanda è l’apertura a un’altra domanda più complessa e più impegnativa.