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3 luglio 2018

«Fine delle fenici. Conversazione con Cesare Mazzonis» di Doriano Fasoli



Cesare Mazzonis nasce a Torino nel 1936. Ha ricoperto diversi ruoli nell’ambito della cultura musicale italiana: è stato, infatti, direttore artistico della Scala per dodici anni, direttore del Teatro del Maggio Musicale fiorentino per undici anni, consulente al Bol'šoj di Mosca, ad Atene, e per Claudio Abbado. Dopo aver vissuto e lavorato a Buenos Aires, Londra, Roma, Milano e Firenze, è stato fino al 2016 di stanza a Torino come direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Oltre che alla musica, Cesare Mazzonis si è sempre dedicato anche alla scrittura: pubblica i romanzi La vocazione del superstite (1973) e Il circolo della vela (1975) per Einaudi e La memoria fastosa (1987) per Feltrinelli. Traduce Arno Holz e Bertolt Brecht per spettacoli di Luca Ronconi e Federico Tiezzi. Sempre per Ronconi scrive il testo dello spettacolo Nel bosco degli spiriti (2008), adattamento del romanzo di Amos Tutuola La mia vita nel bosco degli spiriti; mentre per Aleksandr Raskatov il libretto d’opera Cuore di cane, adattato dall’omonimo racconto di Bulgakov e andato in scena presso il De Nationale Opera di Amsterdam (2010), l’English National Opera di Londra (2010), La Scala di Milano (2013) e l’Opéra de Lyon (2014). Il suo penultimo ultimo libro si intitola Ragnatele sul nulla, pubblicato da Le Lettere: un insieme di riflessioni sul tempo, la morte, le illusioni umane, imbastito e compilato nel corso di molti anni di vita e di lavoro.

Doriano Fasoli: Mazzonis, partiamo dal tuo ultimo libro Fine delle fenici, appena pubblicato da Alpes. Come è nata l’idea? E come si pone rispetto ai tuoi precedenti libri di narrativa?

Cesare Mazzonis: L'idea è nata da letture e ricordi svariati: la Bibbia (la storia Sacra dell'infanzia), Frazer e il suo Ramo d'oro, la mitologia e l’epica greca, un pizzico di Mahābhārata. Con riflessioni o serie o svolto il tutto in grottesco. Poi una lunga riflessione un po’ incantata sul mondo vegetale. Rapporti con i libri precedenti? Forse nessuno.

Sei al passo con la letteratura odierna? Potresti indicare qualche titolo che ti ha particolarmente entusiasmato negli ultimi tempi?

Non direi che sono al passo. Faccio parte della commissione per il Premio Strega, e di media, salvo qualche rarissima eccezione, trovo la cosa un po’ deprimente. Storie minimali: amori, fidanzati, madri e figli, nuore e nonne, frustrazioni sul lavoro… Come suol dirsi: un par di palle! E quasi tutto (colpa degli editori, dei curatori, degli scrittori stessi) con un linguaggio senza personalità, frasi corte per non affaticare le meningi dei miseri lettori, qualche parolaccia per essere «in»… una pena. Certo, ci sono state eccezioni: pochissime. Un libro che mi abbia entusiasmato, ma ormai sono passati gli anni e guarda caso mai ripubblicato: Nel cuore dell'inverno di Dominic Cooper (Einaudi). Manco ripubblicato in Inghilterra. Proprio non capisco la politica delle case editrici, salvo casi rari: pubblicano, sperano in risultati a breve termine, di media non li hanno e mandano al macero, e ricominciano da capo. Non parliamo nemmeno di arte, per carità, semplicemente di introiti che non vedo. 

14 novembre 2014

«Dialogo con Mario Bortolotto» di Doriano Fasoli

 

 

 

 

L'amato Duke Ellington e la passione giovanile per il jazz; il suono di Arturo Benedetti Michelangeli, «d'una bellezza unica e sconvolgente»; il Don Giovanni mozartiano e la «deliziosa» lettura che ne ha dato Giovanni Macchia («credo che lui e Mario Praz, il famoso anglista dell'Università di Roma, scomparso abbastanza di recente, siano innegabilmente gli ultimi esempi di cultura universale»); ‘Cesarino’ Brandi, amante della buona cucina quanto della buona prosa; Simone Weil e Bruno Walter; Musil e Conrad, tra gli scrittori prediletti; l'ineguagliabile senso della forma di Cristina Campo e le pagine memorabili da lei dedicate a Chopin ne Il flauto e il tappeto: è il mondo di Mario Bortolotto, che ha consegnato alla letteratura musicale – quale critico e storico, raffinatissimo – studi eccellenti, tra cui ricordiamo: Introduzione al Lied romantico (pubblicato presso Ricordi nel '62 e ristampato, in versione riveduta e ampliata, da Adelphi, nel 1984); Fase seconda (Einaudi, 1969), testo ‘militante’, di riflessione sull'avanguardia musicale degli anni Sessanta; Consacrazione della casa (Adelphi, 1982), indagine sul teatro lirico articolata in una costellazione di undici saggi.

«In Italia ritengo ci siano almeno sei o sette compositori nuovi, gente molto giovane che ha certamente qualcosa da dire. A parte che abbiamo sempre quegli autor fra i sessanta e i settant'anni, a tutt'oggi considerati fra i più interessanti che ci siano al mondo. Basti il nome di Franco Donatoni,» dice Bortolotto, che vive a Roma ed ha appena pubblicato (ancora per Adelphi) un libro sulle origini francesi del Novecento musicale, Dopo una battaglia (vincitore della prima edizione del Premio Amici di Santa Cecilia: Un libro per la musica).

Doriano Fasoli: E allora come spiega che in Italia un programma di musica contemporanea fa la sala vuota? È un fatto da attribuire semplicemente ad una cattiva organizzazione? E perché un articolo riguardante i musicisti italiani viventi non si scrive praticamente più (neppure le riviste specializzate ne parlano ormai tanto spesso), mentre ad esempio in Francia, dove c'è un pubblico estremamente attento e comprensivo che segue addirittura entusiasticamente le vicende della musica in fieri, basta un concerto di Boulez per far scatenare la stampa, che arriva a dedicargli intere colonne…

Mario Bortolotto: Perché il nostro è un paese tremendamente paesano, di un provincialismo inveterato, insofferente a qualsiasi novità. Lo si vede tranquillamente. Una signora di Parigi che si rispetti mai si sognerebbe di perdere (se non altro per snobismo, per un pizzico di vanità sociale) una prima di un compositore importante. In Italia ne ignorerebbero perfino l'esistenza, perché è il teatro di terz'ordine che piace, l'opera. Le signore di Milano non si lascerebbero sfuggire tutt'al più un Rigoletto, ma di un pezzo di Aldo Clementi, di Berio o Donatoni non gliene importa proprio nulla.

Altrove dunque si riscontra quasi sempre una maggiore efficienza organizzativa: le sembra lodevole, ad esempio, l'esperienza dell'Ircam diretto da Boulez (al Centre Pompidou di Parigi), con quella sua salle modulable, dove durante un'esecuzione si può ottenere la modificazione del suono attraverso una modifica della scala, alle cui pareti tutti quei pannelli che si muovono permettono, appunto, di cambiare l'acustica?

L'Ircam è stata una proposta straordinaria: lì infatti si fanno delle ricerche sul suolo, delle ricerche elettroacustiche e questo dà sicuramente i suoi vantaggi. Ma si pensi anche a un paese come la Spagna, fino a venti anni fa praticamente inesistente (o quasi) sulla mappa della musica nuova: oggi, invece, può vantare un'organizzazione di primissimo ordine. Ha un festival, che si svolge ogni anno ad Alicante (nel sud della Spagna), dove partecipano studiosi, osservatori, critici di tutto il mondo e dove si eseguono regolarmente le composizioni delle nuovissime leve. Tenga presente che anche a Madrid, in un centro d'arte che si chiama Reina Sofía (sotto il patrocinio della regina Sofia) ogni settimana si fa un concerto di musica contemporanea. Io ricevo puntualmente i programmi e posso constatare che si tengono sempre molto informati, mentre in Italia l'informazione comincia ad essere scarsissima e di alcune cose è addirittura nulla. Nel passato, almeno per un certo periodo, anche il nostro paese si è mostrato più vigile: le Biennali di Venezia ad esempio funzionavano meravigliosamente; i festival di musica nuova di Palermo sono stati per alcuni anni un punto di riferimento obbligato. Poi tutto si è andato via via sfilacciando; e oggi è già tanto se Venezia riesce a fare una settimana di qualcosa riempiendola con composizioni del passato, con retrospettive… L'anno scorso si è svolto un festival interamente dedicato a Nono, compositore indubbiamente rispettabile, ma morto. Preferiremmo sentire i vivi.

23 dicembre 2012

«Intervista con Cesare Mazzonis» di Doriano Fasoli


Cesare Mazzonis è nato a Torino nel 1936. Ha ricoperto diversi ruoli nell’ambito della cultura musicale italiana: è stato, infatti, direttore artistico dell’orchestra Rai di Roma; direttore artistico del Teatro alla Scala per dodici anni; direttore del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino per undici anni; consulente al Teatro Bol'šoj di Mosca, ad Atene, e per Claudio Abbado. Dopo aver vissuto e lavorato a Buenos Aires, Londra, Roma, Milano e Firenze, è attualmente di stanza a Torino come direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Oltre alla musica, Cesare Mazzonis si è sempre dedicato alla scrittura. Per Einaudi ha pubblicato due romanzi: La vocazione del superstite (1973) e Il circolo della vela (1975). Poi, per Feltrinelli, La memoria fastosa (1987). Ha tradotto Arno Holz e Bertolt Brecht per spettacoli di Luca Ronconi e Federico Tiezzi. Sempre per Ronconi ha scritto il testo dello spettacolo Nel bosco degli spiriti (2008), – tratto dal romanzo di Amos Tutuola La mia vita nel bosco degli spiriti, edito da Adelphi, – e il libretto da Cuore di cane di Bulgakov per l'opera di Raskatov andata in scena ad Amsterdam e a Londra, e che dovrà approdare alla Scala nella prossima stagione. Il suo ultimo libro si intitola Ragnatele sul nulla (2012), pubblicato da Le Lettere: un insieme di riflessioni sul tempo, la morte, le illusioni umane, imbastito e compilato nel corso di molti anni di vita e di lavoro. L’intervista che segue è stata realizzata a Roma nel dicembre 2012. 

Doriano Fasoli: Partiamo dal titolo: cosa suggerisce «ragnatele sul nulla»?

Cesare Mazzonis: Il titolo del libro è indicato, se vogliamo, dal lemma che antepongo: un verso di Calderón nel quale si giudica «inútil ciencia» studiare «ciò che sarà», e che invece propone l'obbligo di indagare «lo que no ha de ser»: ciò che non avverrà. In due parole: d'obbligo è il «nulla», al quale ritengo con scarsa allegria di essere destinato in conclusione del vivere. E ciononostante tutto «lo que no ha de ser», l'immaginario che dai primordi l'uomo ha opposto al «nulla» iniziale e finale, l'inventario dei luoghi dell'aldilà e i viaggi di andata e ritorno dal Paese dei Morti (i viaggi orfeici) mi affascina straordinariamente.
Sono queste appunto le «ragnatele» che, per nascondere il «nulla», intorno ad esso io tramo e infittisco. «Farà scrivendo a Morte illustri inganni», del cavalier Marino, è il secondo dei tanti lemmi che aprono i capitoli del libro. E faccio intervenire difese fittizie: le «Mura intorno all'Anima» lo sono alle invasioni del pericolo, alla malattia, ai morti e alla morte. Da «La tana» di Kafka ai villaggi coreani, al castello spenseriano di Alma… esempi su esempi. Alla «ragnatela» ho voluto dare un secondo significato: la sua materia nasce dal ventre (o dal cervello) di chi la stende, e che però nella stesura si appiglia a tutto ciò che lo circonda. Ai miti, alle saghe, alle leggende, alle fiabe, ad opere letterarie e di pensiero ho appunto legato le mie «bave» di ragno.

17 novembre 2009

«Oltre la musica: Il poeta Fabrizio De André» di Nicola D'Ugo




«Benedetto Croce diceva che fino all'età dei diciotto anni tutti scrivono poesie, dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore. Per quanto riguarda l'ipotesi di differenza fra canzone e poesia, io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti minori, casomai di (sic) artisti maggiori e artisti minori. Quindi se si deve parlare di differenza fra poesia e canzone credo che la si dovrebbe ricercare soprattutto in dati tecnici,» diceva De André in una recente intervista televisiva.

Ogni qualvolta un testo non sia presentato nella sua forma autonomamente scritta, ma, come per la sceneggiatura cinematografica e per il dramma teatrale, esso sia già inglobato all'interno di forme espressive e mediatiche diverse, ci si può porre il quesito della letterarietà. La domanda cui si è chiamati a rispondere è se, dato un codice semiotico, ciò che sia riconducibile a quel codice possa gareggiare con gli altri competitori. Nel caso specifico, si vuole rispondere alla domanda secondo la quale un testo, estrapolato dalla musica, sia di una valenza letteraria tale da emergere in un insieme prestigioso di testi. Anzitutto bisognerà chiarire che il dato statistico non è un ottimo metodo di valutazione. Esso dà per buono che il meglio sia ottimo, salvo poi screditarsi in una comparazione più estesa (per es.: dal 1500 al 1900, anziché dal 1600 al 1702). Questo metodo del meglio o meno peggio appare poco adeguato a esprimere un giudizio che entri nella meccanica del componimento, nella sua capacità di accendere scenari, suggestionare, far sentire sulla pelle tutto un ambiente immaginario.