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30 gennaio 2024

«Giancarlo Micheli, “Pâris Prassède”», di Luciano Albanese

 


Giancarlo Micheli

Pâris Prassède

Monna Lisa, Roma 2023

644 pp.

€ 25,00

ISBN: 9791254583630

 

Il nuovo romanzo di Giancarlo Micheli Pâris Prassède si apre con un lungo passo di ispirazione manzoniana, dove le innumerevoli subordinate – che richiedono al lettore un’attenzione supplementare per tenere ferma nella memoria la proposizione principale – sono condite con una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda. In questo lungo passo di apertura incontriamo da subito il protagonista dell’opera, Pâris Prassède, che rannicchiato nella coffa della goletta francese Alecton, scruta distrattamente l’orizzonte mentre è immerso nei suoi pensieri. Iniziano qui le avventure/disavventure di Pâris Prassède, che, disceso prontamente in plancia al richiamo del capitano, inciampa in una mostruosa creatura marina appena pescata, calpestandola e rendendola inutile per una auspicata e fruttuosa vendita agli scienziati. La sbadataggine di Pâris Prassède viene ricompensata con numerose frustate, ma il rinvenimento di una creatura marina, che ricorda quella di Ventimila leghe sotto i mari, consente una digressione – la prima di tante – sulla vita della famiglia di Jules Verne e più in generale sulla Parigi del XIX secolo, favorendo così la creazione dello sfondo della prima rimarchevole impresa di Pâris Prassède, la partecipazione alla rivolta della Comune.

 

Pâris Prassède, originario di Haiti, era figlio dell’imperatore Faustin. Era stato lo stesso Faustin ad imporre il nome di Pâris Prassède, un duplice omaggio sia al mitico Paride che alla prassi, l’azione. «In principio era l’azione», diceva anche il Faust di Goethe, e come vedremo la figura di Pâris Prassède fa tutt’uno con le sue azioni. Dopo alterne vicissitudini Pâris Prassède è venduto come schiavo e lavora in una fattoria del Mississippi finché viene riscattato dalla madre e arruolato nella marina francese, nelle cui fila compare appunto in apertura del romanzo. Ben presto congedatosi torna ad Haiti, dove deve fare fronte a molte ostilità e alla fine viene imprigionato per impedirgli di far valere la sua discendenza. Successivamente, dopo la chiusura della prigione haitiana, è trasferito in quella di Sainte-Pélagie a Parigi. Qui incontra Auguste Blanqui, legge Proudhon, e hanno inizio i suoi contatti col movimento operaio europeo, in particolare, inizialmente, coi gruppi clandestini della fazione blanquista. In seguito conosce Paul Lafargue, il creolo originario di Cuba che sposerà Laura Marx. Questo lo conduce a Londra, dove conosce la famiglia di Marx e lo stesso Marx.

4 aprile 2022

«Soggetto e masse e il Teatro di Oklahoma. Conversazione con Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto, ricercatore senior al CNR, psicoanalista e filosofo, è presidente dell’Istituto Elvio Fachinelli – Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP). Ha fondato e diretto la prestigiosa rivista European Journal of Psychoanalysis, ed è co-redattore di altre importanti riviste in inglese, come American Imago e Philosophy World Democracy. Insegna psicoanalisi al Mižnarodnyj Instytut hlybynnoji psycholohiji (Istituto Internazionale di Psicologia del Profondodi Kiev. La conversazione si incentra sui due ultimi libri di Sergio Benvenuto, Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud e Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica di oggi, editi da Castelvecchi nel 2021.

 

Doriano Fasoli: Due tuoi libri escono a distanza di poco tempo con la stessa casa editrice, e affrontano temi del tutto simili: si ha l’impressione che tu abbia scritto un solo libro, ma pubblicato in due puntate.

 

Sergio Benvenuto: È proprio così. Il tema comune ai due libri è una teoria generale del politico, ovvero in che cosa consiste l’impegno politico. Non mi occupo quindi della società in generale, ma delle organizzazioni e concezioni politiche.

 

Il primo volume, Soggetto e masse, prende le mosse dal saggio di Freud Psicologia delle masse e analisi dell’io. Cerco di spiegarne il senso profondo, precisando che non si tratta – come credono molti – di una teoria della società in generale, ma di quelle che Freud chiama Massen, ovvero gruppi mossi da una passione in senso lato politica. Si va dalla folla improvvisata che si costituisce per un fine preciso – ad esempio, compiere un pogromcontro ebrei – fino a Massen molto strutturate come le chiese e gli eserciti. Che cosa c’è in comune tra tutti questi gruppi? Il fatto di organizzarsi attorno a una figura che Max Weber chiamò capo carismatico. Freud non si interessa a gruppi burocratici o funzionali, dove ci possono essere capi, ma non c’è la partecipazione calda, direi, dei partecipanti. Freud descrive insomma i gruppi politici in senso lato, che includono le militanze religiose e militari. E psicoanalitiche.

 

Ma già in questo primo volume allargo l’analisi del saggio di Freud affrontando temi molto vasti, per esempio il populismo, il fascismo, e altri tipi di configurazioni politiche. 

 

Nel secondo volume, Il teatro di Oklahoma, articolo una critica delle principali filosofie politiche oggi prevalenti, che corrispondono agli indirizzi politici che oggi dominano nel mondo industrializzato: il marxismo, il liberalismo, le politiche su base religiosa, il populismo, il nazionalismo o fascismo. 

11 dicembre 2017

«Colletti, Foucault e il marxismo» di Luciano Albanese


Diego Rivera, Zucchero di canna. 1931.

A prima vista affrontare il tema dei rapporti tra Colletti e Foucault potrebbe sembrare tempo perso. Foucault non è ancora stato pubblicato interamente, ma per quello che ho potuto leggere finora il nome di Colletti non sembra comparire nelle sue opere. In Colletti compare, ma solo due volte. La prima citazione è in Pagine di filosofia e politica (Colletti 1989, p. 125), ripresa letteralmente in Fine della filosofia e altri saggi (Colletti 1996, p. 36), e non ha il minimo rilievo. La seconda è in Tra marxismo e no (Colletti 1979, pp. 61-2), ed è più interessante, anche se molto breve. Colletti infatti individua nello strutturalismo francese, in particolare Michel Foucault, la fonte della concezione della scienza (della storia come scienza) di Althusser. In realtà la concezione della storia e della scienza di Michel Foucault, come ha dimostrato Paul Veyne, è molto più complessa di quella strutturalista e di quella di Althusser, e lo stesso Foucault ha sempre preso le distanze dallo strutturalismo. Quello che sembra emergere dalla seconda citazione, in ogni caso, è una sottovalutazione di Foucault da parte di Colletti, e uno scarso interesse per la sua opera.

Forse si potrebbe anche parlare di ostilità: Foucault era tra gli intellettuali firmatari del Manifesto contro la repressione del luglio ’77, ed appoggiò pubblicamente il Movimento studentesco dello stesso anno. Ma Colletti era stato una delle ‘vittime’ di questo stesso movimento, che all’apertura dell’Anno accademico gli aveva impedito ripetutamente di fare lezione, costringendolo a procurarsi un insegnamento nella più tranquilla Svizzera. E conoscendo il carattere passionale di Colletti, difficile non pensare che in questo palese disinteresse interagissero anche motivi personali.

L’ostilità del Movimento studentesco del ’77 nei confronti di Colletti – a voler essere generosi – si legava alle polemiche suscitate in Italia dalla pubblicazione dell’Intervista politico-filosofica e dell’accluso saggio Marxismo e dialettica, usciti nel dicembre del 1974 presso Laterza. Tanto a destra quanto a sinistra si era data immediatamente una lettura politica dell’opera. A destra Colletti era stato esaltato come una sorta di Paolo a Damasco, che finalmente aveva visto la luce e aveva rotto col marxismo, il vaso di Pandora di tutti i mali. Dal canto suo la sinistra, in particolare quella legata al PCI, era partita a testa bassa, accusando Colletti di ‘tradimento’ e innescando un effetto domino che sfocerà nell’aperta ostilità verso Colletti degli studenti del Movimento del ’77. Se si pensa che Colletti e La Sinistra, il mensile da lui diretto, erano stati uno dei punti di riferimento del Movimento studentesco del ’68, questo improvviso voltafaccia della sinistra, ancora oggi, non può non suscitare perplessità.

28 novembre 2017

«Recensione di "Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo" (a cura di Neil Novello)» di Luciano Albanese



La recente pubblicazione della raccolta di saggi su Antonio Gramsci curata da Neil Novello, Envoi Gramsci. Cultura,filosofia, umanismo (Campanotto ed., Pasian di Prato 2017, pp. 174), cade in un momento particolarmente appropriato, il centenario della Rivoluzione d’ottobre. Infatti sarebbe difficile spiegare il pensiero di Gramsci e la sua evoluzione senza fare riferimento a questo evento. Come ricorda Michele Maggi nel suo contributo, la rivoluzione bolscevica venne definita da Gramsci, nel celebre articolo dell’Avanti! del 24 novembre del ’17, una «rivoluzione contro il Capitale». Gramsci aveva ragioni da vendere, perché la rivoluzione comunista era scoppiata dove meno il marxismo se lo sarebbe aspettato, vale a dire non in un paese di avanzato sviluppo capitalistico, come l’Inghilterra, la Francia, la Germania o anche gli Stati Uniti, ma in un paese costituito in maggioranza da contadini, e con poche sacche di capitalismo ancora agli albori dello sviluppo. Ciò rappresentò un forte argomento per tutti coloro, compreso il ‘rinnegato’ Kautsky (secondo la colorita espressione di Lenin), che pensavano che la rivoluzione si sarebbe dovuta arrestare alla fase democratico-borghese, cioè a Kerenskij, e (eventualmente) aspettare tempi più opportuni per decollare.

Ma Gramsci non era disposto a gettare la spugna. Da questa rivoluzione contro il Capitale egli trasse la dottrina e la forza che gli fecero pensare che la rivoluzione comunista non era una ‘missione impossibile’, né in paesi arretrati – come era ancora sotto molti aspetti l’Italia – né in paesi altamente sviluppati, come la Germania, dove era stata soffocata nel sangue. La prima e più importante ‘vittima’ della rivoluzione contro il marxismo ortodosso operata da Gramsci fu – come dimostrò Bobbio in un celebre intervento – il concetto di ‘società civile’. Si tratta di un nodo centrale del pensiero di Marx e Engels. Engels, nello scritto del 1885 «Per la storia della Lega dei Comunisti» è molto esplicito su questo punto: «Non lo Stato condiziona e regola la società civile, ma la società civile condiziona e regola lo Stato [e] dunque la politica e la sua storia devono essere spiegate sulla base dei loro rapporti economici e del loro sviluppo, e non viceversa».

Come si capisce, nella visione di Engels e Marx la società civile è il luogo della lotta fra capitale e lavoro salariato, e quindi – tradotta in un linguaggio approssimativo, che Marx ha usato di rado, e che richiederebbe molte precisazioni – appartiene all’ordine della ‘struttura’ (del modo di produzione capitalistico). Ma Gramsci capovolge questo caposaldo dottrinale, perché in lui la società civile appartiene all’ordine della ‘sovrastruttura’, e quindi all’ordine delle idee, della cultura, della filosofia, anziché a quello dell’economia politica. Emerge bene qui la distanza di Gramsci sia dai bolscevichi – ai quali pure deve lo stimolo a uscire dalla camicia di forza del marxismo ortodosso – che dalla corrente di sinistra della II Internazionale (divenuta poi III Internazionale).

3 giugno 2013

«Lucio Colletti e 'Società'» di Luciano Albanese










Società è stata una rivista, prima trimestrale e poi bimestrale, espressione diretta della politica culturale del PCI. Essa vide la luce nel gennaio del 1945 e cessò le pubblicazioni nel 1962, passando successivamente per due diversi editori, prima Einaudi e poi Parenti. In questo arco di tempo essa raccolse i contributi di firme prestigiose. Citiamo fra queste Delio Cantimori, Cesare Luporini, Natalino Sapegno, Ernesto de Martino, ma l’elenco potrebbe continuare per alcune pagine, perché praticamente buona parte della cultura italiana del dopoguerra offrì i propri contributi alla rivista. In un certo senso, si potrebbe dire: «Era difficile restarne fuori»; e questo vale anche per Lucio Colletti.

La partecipazione di Lucio Colletti a Società rappresenta un momento importante tanto nel suo percorso intellettuale e politico quanto nella storia del marxismo italiano e nelle vicende politiche ad esso direttamente o indirettamente conseguenti. Nell’«Intervista politico-filosofica» del ’74 Colletti, sollecitato dall’intervistatore (che era Perry Anderson, direttore della prestigiosa rivista inglese New Left Review, dove l’intervista era stata originariamente pubblicata in lingua inglese, nell’estate del ’74, prima di comparire in italiano per i tipi di Laterza nel dicembre dello stesso anno), si sofferma a lungo sull’esperienza di Società. Colletti aveva iniziato a collaborare con la rivista culturale del Partito Comunista Italiano nel 1952, con lo pseudonimo di Giovanni Cherubini. Colletti era allora impiegato al Ministero degli Affari Esteri, dove era stato chiamato da Carlo Sforza, e gli sembrò più opportuno non usare il suo nome, che peraltro cominciò ad usare dopo solo un anno. L’espediente dovette sembrargli inutile, dal momento che egli si era iscritto al PCI già nel 1949, e la cosa non era certo passata inosservata.

I contributi di Colletti a Società furono numerosi e di grande rilievo, sia come recensore che come saggista. Ma il rapporto con la rivista divenne ancora più stretto dopo i fatti di Ungheria, perché dal 1957 Colletti, insieme a Della Volpe e ad altri esponenti del gruppo dellavolpiano, fra cui Mario Rossi, Nicolao Merker e Giulio Pietranera, il valoroso storico dell’economia classica prematuramente scomparso, entrò a far parte del comitato di direzione (anche se il suo nome compare in realtà fra i membri del comitato solo a partire dal 1959). La cosa può apparire paradossale, se si pensa che Colletti era stato l’estensore materiale del cosiddetto Manifesto dei 101, con cui un folto gruppo di intellettuali aveva preso posizione contro l’intervento dell’Armata Rossa in Ungheria, e quindi contro la linea ufficiale del PCI. L’episodio è ricordato, con un misto di ironia e di nostalgia, da Luciano Cafagna:

Il famoso Manifesto dei 101 intellettuali fu scritto sul tavolo da cucina della mia casa di allora, un appartamento a Palazzo Doria. Avevamo cominciato a scriverlo Sirugo e io, quando Lucio piombò come un falco e ne volle assumere d’imperio la redazione.1

Nonostante ciò Colletti non volle uscire dal PCI, come fecero molti dei firmatari del manifesto. Da un lato, la scelta di campo fatta nel ’49 gli sembrava ancora valida, e dall’altro egli tentava da tempo di imprimere al marxismo, e al comunismo stesso, una impronta scientifica e radicalmente democratica, un obiettivo che gli sembrava difficilmente raggiungibile lavorando all’esterno di un partito che, quali che fossero i suoi difetti, godeva della fiducia e del consenso della gran massa delle classi lavoratrici.

9 ottobre 2012

«Cosa è l'ideologia. Teoria e Storia» di Luciano Albanese




Trascrizione:

Si è parlato di «natura». Ora: c'è una cosa interessante in Marx che a me ha sempre colpito. Nei Manoscritti del '44 fa dei grandi elogi di Feuerbach. Ne L'ideologia tedesca, che è del '45, Feuerbach viene fatto a pezzi, sostanzialmente. Nel senso che si accusa Feuerbach di credere ad una natura che non esiste più da nessuna parte, salvo in qualche atollo corallino, se non ricordo male.

Ora, bisognerebbe, diciamo, tornare un attimo a perché Feuerbach aveva introdotto il concetto di «natura». Il progetto di Feuerbach è molto diverso dalla naturalizzazione delle categorie sociali di cui si è parlato qui. Il punto di vista di Feuerbach è, diciamo, anti-hegeliano. Cioè: Feuerbach tenta di recuperare una natura vera contro la natura finta di Hegel.