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21 gennaio 2018

«“La vita di Adele”. Adele e la sua ‘differenza’» di Silvia Maria Pettorossi



Noi stessi non abbiamo la vita sacra. Ne parliamo solo per aver preso coscienza che manca al mondo, che gli manca e che ci manca. Vorremmo legare un mondo che si disfa, ma non abbiamo la corda, e non siamo in grado di sapere perché questa corda non è nelle nostre mani; è perché la vita non serra più i suoi nodi in noi, è perché la vita stessa ci manca.

G. Bataille, Il limite dell’utile

Fuori è notte. Una torrida notte d’agosto in cui è difficile che Morfeo venga a farti visita. Trepidante per la snervante attesa, decido di condividere l’intimità della mia stanza con il pc, alla ricerca di qualcosa che possa dare senso ai minuti e, forse, alle ore. Mi imbatto casualmente – ma sono un po’ bugiarda – nella pellicola, pluripremiata a Cannes 20131, La Vie d’Adèle. Chapitres 1 & 2 (La vita di Adele. Capitoli 1 & 2 nella versione italiana) di Abdellatif Kechiche, tratta dal fumetto di Julie Maroh Le bleu est une couleur chaude2. L’attenzione s’era infatti – altrimenti destata – mediante un trailer intravisto in qualche inframezzo pubblicitario, nonché dal gran clamore che ne ha accompagnato l’esordio sugli schermi italiani e non solo. Consapevole che tali tempeste marcano in genere la massima lodevolezza o il suo opposto, decido di spendere almeno un po’ del mio tempo. Tanto per ora non ho visite.

Sullo sfondo della cittadina francese di Lille, si incontrano e si scontrano le esistenze, declinate nei corpi vivi e incandescenti, delle due giovani protagoniste: Adele (Adèle Exarchopoulos) ed Emma (Léa Seydoux). Corpi vibranti di passione che sembrano fondersi in un unico movimento armonico, non sfuggendo all’occhio ‘generoso’ della macchina da presa.

Lungi dall’essere un softcore, La vita di Adele è molto di più. Oserei dire quasi l’epitome di una certa filosofia francese contemporanea tradotta in immagini. Come all’interno di un toolbox, vi si trova di tutto – perfino Sartre con la sua lettera-manifesto L’esistenzialismo è un umanismo – spiegato dalle erudite parole di Emma a una giovane Adele, che poco si intende di filosofia, alla quale preferisce la musica di Bob Marley.

Nonostante la preponderanza dell’intreccio amoroso tra le due giovani, uno tra gli spunti più importanti che la pellicola offre, a mio avviso, è proprio la sollecitudine alla riflessione sul grande topos filosofico della libertà come chiave di lettura dell’opera.

Forse uno sguardo poco attento, o ‘poco esperto’, potrebbe dissentire, ma se si presta attenzione alla resa delle figure femminili, all’accento posto sull’elemento “oscuro”, passionale, e soprattutto a come questo venga declinato in due diverse, opposte modalità, le tessere del mosaico iniziano a prender forma rendendo il quadro più nitido.

Chi siamo noi in quanto soggetti, «identità»? Come si pone la relazione verso quest’ultima tra termini ad essa interdipendenti come «libertà» e «responsabilità»? Siamo progetto gettato nel mondo, abitati da una libertà sostanziale, ontologica, assoluta, che vede un io assertivo all’altezza della propria scelta, o siamo forse soggetti decentrati, segnati da una part maudite ineliminabile, che disfa i nostri progetti identitari obbligandoci, di volta in volta, ad una laboriosa ricostruzione di noi stessi?

12 aprile 2014

«Michel Foucault: Soggettività e letteratura», di Silvia Maria Pettorossi











Fin dai suoi esordi come ‘pensatore’, l’interesse mostrato da Foucault per la letteratura è tutt’altro che occasionale e privo di rapporti con la sua produzione successiva. Scrive a tale riguardo Judith Revel: «Nell’opera di Foucault svolgono un ruolo fondamentale alcuni testi che, almeno a prima vista, non hanno carattere filosofico: essi sembrano piuttosto prove di critica letteraria, o, in certi casi, saggi storiografici. Ebbene secondo lo stesso Foucault è proprio in questi testi “periferici” che il suo pensiero ha manifestato i successivi cambi di rotta: così, la lettura di Raymond Roussel, nel corso del 1957, decide della rottura con la fenomenologia; così, la riflessione su Bataille (nel 1963, in quel che resta uno dei più bei testi di Foucault, Préface à la transgression) annuncia in modo sorprendente proprio i temi che si imporranno nell’ultimissima fase della elaborazione (la “déprise de soi”, la pratica della liberazione e l’idea di un “passaggio al limite”)» [1].

Il rapporto che Foucault intrattiene con la letteratura risulta dunque tutt’altro che marginale per un’adeguata comprensione del suo pensiero e soprattutto per ciò che concerne la tematica della soggettività. Per Maurice Blanchot «si sa di sicuro che Foucault, seguendo in ciò una certa concezione della produzione letteraria, si sbarazzi puramente e semplicemente della nozione di soggetto: niente più opera, niente più autore, niente più unità creatrice. Ma non è tutto poi così semplice. Il soggetto non sparisce: è la sua unità troppo determinata che diventa discutibile, poiché ciò che suscita interesse e ricerca è in realtà la sua sparizione (vale a dire questa nuova maniera di essere che è il non esserci più) o ancora la sua dispersione che, ben lungi dall’annientarlo, non fa che offrirci una sua pluralità di posizioni e una sua discontinuità di funzioni» [2].

A partire da Le parole e le cose, il linguaggio, e quindi la letteratura, assumono in Foucault un ruolo e un’importanza particolari. Il linguaggio non è più – come nel pensiero classico – quel segno al quale la Logica di Port-Royal, basata sull’identificazione di parola, linguaggio e grammatica, e di quest’ultima con la logica, proponeva come modello immediato ed evidente il ritratto di un uomo o una carta geografica (restando dominante, in questo accostamento, la classica nozione di somiglianza). Esso ha ora «acquistato una natura vibratile che lo stacca dal segno visibile per accostarlo alla nota musicale», aiutato in questo dalla logica di Boole (che rappresenta le forme e le concatenazioni del pensiero all’infuori di ogni linguaggio) [3].

Svincolatosi da quelle che Heidegger nella conferenza «L’essenza della verità» [4], chiama le «fatali categorie della grammatica», il linguaggio viene riportato al grado zero, al suo stato grezzo: la parola. Diversamente dal XVIII secolo, ora si tratta di sciogliere la sintassi, di spezzare i modi vincolanti di parlare, di volgere le parole in direzione di tutto ciò che si dice per loro tramite e nonostante esse. Nietzsche, la cui intera opera è «un’esegesi di alcune parole greche», e secondo il quale non ci sbarazzeremo mai di Dio finché crediamo ancora alla grammatica, è ancora una volta un modello in questo senso [5].

20 marzo 2014

«Foucault, Derrida: Cogito e Grande internamento», di Silvia Maria Pettorossi













La polemica tra Foucault e Derrida si accende attorno alle tre pagine che Foucault in Storia della follia dedica al cogito cartesiano (pp. 51-53) [1] trovando il suo punto di origine nella conferenza di Derrida Cogito e storia della follia, tenuta il 4 marzo 1963 al Collège philosophique, successivamente pubblicata nella «Revue de métaphysique et de morale» (1963: nn. 3-4), e infine inserita fra i saggi de La scrittura e la differenza (1967).

La conferenza di Derrida, che era stato allievo di Foucault, pur manifestando riconoscenza e apprezzamento per il lavoro del maestro, è un’analisi fortemente critica dell’opera, che mette in discussione una delle tesi fondamentali della Storia della follia, il cogito cartesiano come presupposto ideologico del Grande internamento e della radicale inversione di tendenza, rispetto alla Renaissance, nella valutazione e nel trattamento della follia.

L’analisi di Derrida smonta pezzo per pezzo l’interpretazione del passo della Prima Meditazione di Descartes, che secondo Foucault sarebbe all’origine dell’espulsione della follia dal pensiero e della sua esclusione dal soggetto che dubita [2]. Per motivi di chiarezza espositiva, riporto qui integralmente il passo cartesiano:

Benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io sono qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti, di essere vestiti d’oro o di porpora, mentre sono nudi affatto, o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro [3]. Ma costoro son pazzi [amentes], ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte meno verosimili ancora, che quegl’insensati quando vegliano [& eadem omnia in somnis pati, vel etiam interdum minus verisimilia, quam quæ isti vigilantes]. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? [4] (corsivi miei)

Descartes prosegue rilevando che, tuttavia, almeno le immagini dei sogni, pur se prive di coerenza, corrispondono a qualcosa di reale, così come i Satiri e i Sileni dei pittori non potrebbero essere rappresentati senza i colori. E che pure ammettendo che siano tutte immaginarie anche queste cose, restano sempre le “qualità primarie” dei corpi, come estensione, figura, quantità, grandezza e il loro numero, vale a dire le qualità oggetto della matematica, della quale non possiamo dubitare [5].