Noi stessi non abbiamo la vita sacra. Ne parliamo solo per aver preso coscienza che manca al mondo, che gli manca e che ci manca. Vorremmo legare un mondo che si disfa, ma non abbiamo la corda, e non siamo in grado di sapere perché questa corda non è nelle nostre mani; è perché la vita non serra più i suoi nodi in noi, è perché la vita stessa ci manca.
G. Bataille, Il limite dell’utile
Fuori
è notte. Una torrida notte d’agosto in cui è difficile che Morfeo venga a farti
visita. Trepidante per la snervante attesa, decido di condividere l’intimità
della mia stanza con il pc, alla ricerca di qualcosa che possa dare senso ai
minuti e, forse, alle ore. Mi imbatto casualmente – ma sono un po’ bugiarda – nella
pellicola, pluripremiata a Cannes 20131, La Vie d’Adèle. Chapitres 1 & 2 (La vita di Adele. Capitoli 1 & 2 nella versione italiana) di
Abdellatif Kechiche, tratta dal fumetto di Julie Maroh Le bleu est une couleur chaude2. L’attenzione s’era
infatti – altrimenti destata – mediante un trailer intravisto in qualche inframezzo
pubblicitario, nonché dal gran clamore che ne ha accompagnato l’esordio sugli
schermi italiani e non solo. Consapevole che tali tempeste marcano in genere la
massima lodevolezza o il suo opposto, decido di spendere almeno un po’ del mio
tempo. Tanto per ora non ho visite.
Sullo
sfondo della cittadina francese di Lille, si incontrano e si scontrano le
esistenze, declinate nei corpi vivi e incandescenti, delle due giovani
protagoniste: Adele (Adèle Exarchopoulos) ed Emma (Léa Seydoux). Corpi vibranti
di passione che sembrano fondersi in un unico movimento armonico, non sfuggendo
all’occhio ‘generoso’ della macchina da presa.
Lungi
dall’essere un softcore, La vita di Adele
è molto di più. Oserei dire quasi l’epitome di una certa filosofia francese
contemporanea tradotta in immagini. Come all’interno di un toolbox, vi si trova di tutto – perfino Sartre con la sua
lettera-manifesto L’esistenzialismo è un umanismo
– spiegato dalle erudite parole di Emma a una giovane Adele, che poco si
intende di filosofia, alla quale preferisce la musica di Bob Marley.
Nonostante
la preponderanza dell’intreccio amoroso tra le due giovani, uno tra gli spunti
più importanti che la pellicola offre, a mio avviso, è proprio la sollecitudine
alla riflessione sul grande topos
filosofico della libertà come chiave di lettura dell’opera.
Forse
uno sguardo poco attento, o ‘poco esperto’, potrebbe dissentire, ma se si
presta attenzione alla resa delle figure femminili, all’accento posto sull’elemento
“oscuro”, passionale, e soprattutto a come questo venga declinato in due diverse,
opposte modalità, le tessere del mosaico iniziano a prender forma rendendo il
quadro più nitido.
Chi
siamo noi in quanto soggetti, «identità»? Come si pone la relazione verso
quest’ultima tra termini ad essa interdipendenti come «libertà» e «responsabilità»?
Siamo progetto gettato nel mondo, abitati da una libertà sostanziale, ontologica,
assoluta, che vede un io assertivo all’altezza della propria scelta, o siamo forse soggetti decentrati, segnati da una part maudite ineliminabile, che disfa i
nostri progetti identitari obbligandoci, di volta in volta, ad una laboriosa ricostruzione
di noi stessi?