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3 marzo 2025

«Senso e intelletto nel pensiero moderno» di Luciano Albanese


Immanuel Kant


La filosofia moderna nasce quando entra in crisi il concetto di somiglianza fra percezioni e oggetti corrispondenti, il cardine di Aristotele e del materialismo ellenistico. Inversamente, la dissomiglianza fra percezioni e oggetti, ricavata dall’atomismo democriteo, era il tema centrale dello scetticismo antico, ma è solo nei tempi moderni che emergono tutte le sue potenzialità, che lo faranno diventare il motivo conduttore dei ‘nuovi filosofi’. 

 

Sesto Empirico aveva dimostrato, come già Democrito a suo tempo, che il fuoco non è ‘caldo’ e la spada non è ‘dolorosa’, ovvero che il fuoco che scalda non sente caldo e la spada che ferisce non sente dolore, quindi che le sensazioni, negli esseri senzienti, erano prodotte da cose non senzienti (Contro i matematici AM VII 357, 367-68). Conseguentemente era impossibile continuare a parlare di somiglianza fra le sensazioni e gli oggetti che le producono. Ne seguiva che le affezioni dei sensi non potevano mai attingere gli oggetti esterni, ovvero i sostrati (hypokeimena, i sostrati della tradizione aristotelica: Schizzi pirroniani PH II 74) delle affezioni stesse – pur dichiarati esistenti. Il senso, perciò, «non fornisce al pensiero gli oggetti esterni, ma si limita a enunciare la propria affezione» (AM VII 354).

 

A questo si aggiungeva che l’esperienza delle guerre europee fatta da alcuni filosofi, come Descartes, aveva dimostrato che le sensazioni possono insorgere anche in assenza degli oggetti corrispondenti. Chi aveva perso uno degli arti in battaglia continuava a sentire dolore nonostante che avesse perso il braccio o la gamba, le fonti originarie di quelle sensazioni. Inoltre, anche i sogni dimostravano che le inani visioni notturne erano in grado di produrre sensazioni sonore, tattili e olfattive dotate di un alto tasso di evidenza (la famosa enargheia comune alla scuola aristotelica, stoica ed epicurea, su cui si fondava l’ipotesi dell’esistenza di una conoscenza certa).

 

La filosofia moderna aveva ripreso in mano, e tradotto, i testi dello scetticismo antico spinta soprattutto da tre esperienze sconvolgenti, che avevano messo in crisi il vecchio sistema del mondo: la rivoluzione copernicana, lo scisma luterano e la scoperta dell’America. A partire da quelle tre date, il dubbio si era insinuato profondamente nella filosofia moderna, e chi desiderava combattere lo scetticismo emergente vedeva davanti a sé due sole opzioni possibili. Una soluzione radicale, quella di eliminare i sostrati, e dire che esistono solo le sensazioni, ovvero che percezioni e oggetti si identificano. Gli unici oggetti esistenti sono le sensazioni, esse est percipi, ovvero esistere significa essere percepiti (Berkeley nella fase dell’empirismo radicale, oggi Matrix dei fratelli Wachowski).

30 gennaio 2024

«Giancarlo Micheli, “Pâris Prassède”», di Luciano Albanese

 


Giancarlo Micheli

Pâris Prassède

Monna Lisa, Roma 2023

644 pp.

€ 25,00

ISBN: 9791254583630

 

Il nuovo romanzo di Giancarlo Micheli Pâris Prassède si apre con un lungo passo di ispirazione manzoniana, dove le innumerevoli subordinate – che richiedono al lettore un’attenzione supplementare per tenere ferma nella memoria la proposizione principale – sono condite con una sottile vena di ironia certamente non estranea al Manzoni, ma più vicina, come già in altri lavori, allo stile di Carlo Emilio Gadda. In questo lungo passo di apertura incontriamo da subito il protagonista dell’opera, Pâris Prassède, che rannicchiato nella coffa della goletta francese Alecton, scruta distrattamente l’orizzonte mentre è immerso nei suoi pensieri. Iniziano qui le avventure/disavventure di Pâris Prassède, che, disceso prontamente in plancia al richiamo del capitano, inciampa in una mostruosa creatura marina appena pescata, calpestandola e rendendola inutile per una auspicata e fruttuosa vendita agli scienziati. La sbadataggine di Pâris Prassède viene ricompensata con numerose frustate, ma il rinvenimento di una creatura marina, che ricorda quella di Ventimila leghe sotto i mari, consente una digressione – la prima di tante – sulla vita della famiglia di Jules Verne e più in generale sulla Parigi del XIX secolo, favorendo così la creazione dello sfondo della prima rimarchevole impresa di Pâris Prassède, la partecipazione alla rivolta della Comune.

 

Pâris Prassède, originario di Haiti, era figlio dell’imperatore Faustin. Era stato lo stesso Faustin ad imporre il nome di Pâris Prassède, un duplice omaggio sia al mitico Paride che alla prassi, l’azione. «In principio era l’azione», diceva anche il Faust di Goethe, e come vedremo la figura di Pâris Prassède fa tutt’uno con le sue azioni. Dopo alterne vicissitudini Pâris Prassède è venduto come schiavo e lavora in una fattoria del Mississippi finché viene riscattato dalla madre e arruolato nella marina francese, nelle cui fila compare appunto in apertura del romanzo. Ben presto congedatosi torna ad Haiti, dove deve fare fronte a molte ostilità e alla fine viene imprigionato per impedirgli di far valere la sua discendenza. Successivamente, dopo la chiusura della prigione haitiana, è trasferito in quella di Sainte-Pélagie a Parigi. Qui incontra Auguste Blanqui, legge Proudhon, e hanno inizio i suoi contatti col movimento operaio europeo, in particolare, inizialmente, coi gruppi clandestini della fazione blanquista. In seguito conosce Paul Lafargue, il creolo originario di Cuba che sposerà Laura Marx. Questo lo conduce a Londra, dove conosce la famiglia di Marx e lo stesso Marx.

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

19 maggio 2022

«Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli



Gabriele Pulli insegna psicologia filosofica, psicologia generale e psicologia dell’arte e della letteratura all’Università di Salerno ed è autore di numerosi libri, tra i quali Freud e Severino (Moretti & Vitali, 2009)Severino e Matte Blanco (Moretti & Vitali, 2018; con la prefazione di Emanuele Severino) e L’inconscio e il tempo. Freud, Epicuro, Sartre, Leopardi (Liguori Editore, 2019; con la prefazione di Cesare Milanese). Da qualche giorno è uscito l’ultimo suo libro Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio, presso le edizioni Mimesis (pp. 147, euro 12). 

 

Doriano Fasoli: Le chiediamo innanzitutto quale sia il tema e quale la ragion d’essere di questo libro.

 

Gabriele Pulli: Il libro parte dalla distinzione fra un pensare relativamente originale, che pensa qualcosa di non ancora pensato, ma che sarebbe stato pensabile nelle forme del pensiero di cui già si disponeva, e un pensare assolutamente originale, che giunge a pensare qualcosa che sino ad allora sarebbe risultato impensabile; laddove pensare qualcosa che sino ad allora risultava impensabile significa acquisire qualcosa di quello che sino ad allora era stato l’inconscio del pensiero. Ora, l’àmbito di questo secondo genere del pensare, del pensiero che sposta in avanti i limiti del pensiero, rendendo pensabile ciò che prima risultava impensabile, è quello del pensiero filosofico, o almeno di un suo specifico modo di essere particolarmente ristretto ed elevato. Come si vede, in questa idea di filosofia, svolge un ruolo essenziale il concetto di inconscio. Si direbbe addirittura che un’opera filosofica sia tale un quanto faccia i conti con il concetto di inconscio; più precisamente: in quanto svelando qualcosa del modo di essere dell’inconscio sospinge più in avanti i limiti del pensiero. E dunque, rispondendo in sintesi alla sua domanda: il tema è soprattutto l’inconscio del pensiero, la sua ragion d’essere è spingere in avanti i limiti del pensiero, proporre qualcosa di non ancora pensato in quanto impensabile, cogliere qualcosa di non ancora colto dell’inconscio del pensiero.

 

Ma allora di cosa si tratta in particolare? 

 

Di qualcosa di compendiabile nella formula per la quale eternità e temporaneità si danno contemporaneamente e inscindibilmente e tale loro inscindibilità risulta al tempo stesso come un affermarsi con maggior forza dell’eternità. È una strana formula; d’altra parte se così non fosse, se non fosse strana, se non apparisse a prima vista assurda, non potrebbe corrispondere al tentativo di spingere in avanti i limiti del pensiero. Il libro racconta innanzitutto come si arrivi a tale formula e poi cosa possa significare, quale sia il suo senso, che appare poi corrispondere al senso del dolore del desiderio e infine, persino, come ciò che rende la vita vivibile. 

4 aprile 2022

«Soggetto e masse e il Teatro di Oklahoma. Conversazione con Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto, ricercatore senior al CNR, psicoanalista e filosofo, è presidente dell’Istituto Elvio Fachinelli – Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP). Ha fondato e diretto la prestigiosa rivista European Journal of Psychoanalysis, ed è co-redattore di altre importanti riviste in inglese, come American Imago e Philosophy World Democracy. Insegna psicoanalisi al Mižnarodnyj Instytut hlybynnoji psycholohiji (Istituto Internazionale di Psicologia del Profondodi Kiev. La conversazione si incentra sui due ultimi libri di Sergio Benvenuto, Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud e Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica di oggi, editi da Castelvecchi nel 2021.

 

Doriano Fasoli: Due tuoi libri escono a distanza di poco tempo con la stessa casa editrice, e affrontano temi del tutto simili: si ha l’impressione che tu abbia scritto un solo libro, ma pubblicato in due puntate.

 

Sergio Benvenuto: È proprio così. Il tema comune ai due libri è una teoria generale del politico, ovvero in che cosa consiste l’impegno politico. Non mi occupo quindi della società in generale, ma delle organizzazioni e concezioni politiche.

 

Il primo volume, Soggetto e masse, prende le mosse dal saggio di Freud Psicologia delle masse e analisi dell’io. Cerco di spiegarne il senso profondo, precisando che non si tratta – come credono molti – di una teoria della società in generale, ma di quelle che Freud chiama Massen, ovvero gruppi mossi da una passione in senso lato politica. Si va dalla folla improvvisata che si costituisce per un fine preciso – ad esempio, compiere un pogromcontro ebrei – fino a Massen molto strutturate come le chiese e gli eserciti. Che cosa c’è in comune tra tutti questi gruppi? Il fatto di organizzarsi attorno a una figura che Max Weber chiamò capo carismatico. Freud non si interessa a gruppi burocratici o funzionali, dove ci possono essere capi, ma non c’è la partecipazione calda, direi, dei partecipanti. Freud descrive insomma i gruppi politici in senso lato, che includono le militanze religiose e militari. E psicoanalitiche.

 

Ma già in questo primo volume allargo l’analisi del saggio di Freud affrontando temi molto vasti, per esempio il populismo, il fascismo, e altri tipi di configurazioni politiche. 

 

Nel secondo volume, Il teatro di Oklahoma, articolo una critica delle principali filosofie politiche oggi prevalenti, che corrispondono agli indirizzi politici che oggi dominano nel mondo industrializzato: il marxismo, il liberalismo, le politiche su base religiosa, il populismo, il nazionalismo o fascismo. 

28 marzo 2019

«Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini. Conversazione con Bruno Moroncini» di Doriano Fasoli



Bruno Moroncini (Napoli, 1946) ha insegnato Filosofia morale, Antropologia filosofica e Psicologia clinica nelle Università di Messina e Salerno. Per Cronopio ha pubblicato: Mondo e sensoHeidegger e Celan (1998); La comunità e l’invenzione (2001); Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone (2005, II ed. 2010); con Rossana Petrillo, L’etica del desiderioUn commentario del seminario di Jacques Lacan (2007); Walter Benjamin e la moralità del moderno (2009); Gli amici non si danno del tu (2011); Lacan politico (2014), Perdono giustizia crudeltàFigure dell’indecostruibile in Jacques Derrida (2016). L’ultimo suo lavoro, pretesto del nostro incontro, s’intitola: La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (edito sempre da Cronopio).

Doriano Fasoli: Professor Moroncini, quando Pasolini avverte per la prima volta che i tentacoli del potere si stanno insinuando in lui?

Bruno Moroncini: Non saprei datare con assoluta precisione il momento in cui Pasolini si rende conto di essere anche lui parte, sebbene in un modo periferico, del potere, né so se ciò sia possibile di per sé. Quel che è certo è che da un certo punto in poi, verso la fine degli anni ’60, forse per la notorietà procuratagli dal cinema, Pasolini incomincia ad avvertire che la gente intorno a lui lo considera un uomo di potere. È lui stesso a darne testimonianza: in un articolo del giugno del 1969, intitolato «Travestiti da poveri», racconta una sua esperienza accadutagli in Turchia dove si è recato per girare alcune scene di Medea. Il sindaco della cittadina dove si trova, accortosi della sua presenza ad una rappresentazione teatrale, lo tratta con grande deferenza, lo fa sedere in un posto d’onore del teatro all’aperto, insomma fa gli onori di casa all’ospite famoso. Pasolini si interroga allora su due cose: sul fatto che anche lui è trattato come una persona importante, di potere, e che il povero sindaco della cittadina turca soggiace al fascino che promana dal potere. Il punto è che questo fascino lo prova anche Pasolini che lo confessa nello stesso articolo ricordando l’emozione intensa e sconvolgente che ha provato all’apparizione in un film di Miklós Jancsó di un gruppo di ufficiali ungheresi a cavallo che incarnavano ai suoi occhi la forma più estrema del potere, quella della possibilità di infliggere la morte. Ne era totalmente affascinato. Credo che da queste esperienze nasca la riflessione sul potere che occupa l’ultimo Pasolini e che in esse siano presenti in nuce anche le tesi della abiura della Trilogia della vita.

24 giugno 2018

«Intervista a Tullio Gregory» di Doriano Fasoli


Tullio Gregory e Doriano Fasoli. Roma, giugno 2018

Tullio Gregory è un filosofo e storico della filosofia italiano. Nato a Roma nel 1929, si è laureato in filosofia nel 1950 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Di questo ateneo è stato professore ordinario, dal 1962 titolare della cattedra di Storia della filosofia medievale e dal 1967 di quella di Storia della filosofia. È anche direttore del Dipartimento di Ricerche storico-filosofiche e pedagogiche della stessa Università.

Doriano Fasoli: Quando prese a occuparsi di filosofia? E oggi a cosa serve ancora la filosofia?

Tullio Gregory: Preferisco parlare di storia delle idee, data l’ambiguità e la polivalenza del concetto di filosofia nel tempo. Dunque ho cominciato a interessarmi a problemi di storia delle idee negli anni di liceo, anche per suggestioni ricevute dal mio professore di latino e greco, appassionato filologo classico, Antonio Traglia e soprattutto per l’influenza di Ernesto Buonaiuti che ebbi la fortuna di conoscere negli anni di liceo, quando, benché rintegrato nei ruoli universitari dai quali era stato espulso per non aver giurato fedeltà al fascismo, gli fu impedito di tornare a insegnare all’università per l’articolo 5 comma 3 del concordato del 1929, formulato in odio a lui. Mi domanda a cosa serva la filosofia: per fortuna non serve a nulla, se non a soddisfare un interesse personale.

Lei si laureò nel 1950 con Bruno Nardi, un grande medievista e studioso di Dante. Che ricordo ne conserva?

Mi laureai con Bruno Nardi, grande maestro non solo di medievistica e di cultura rinascimentale, ma soprattutto maestro nell’insegnare a leggere i testi, ad amarli e studiarli nella loro fattualità e in tutte le implicanze concettuali o simboliche.

Lei scrive con il computer o si ritiene ostile alla tecnologia?

Scrivo con la penna stilografica, quindi con l’inchiostro; ciò non significa che sia in alcun modo ostile alle tecnologie informatiche. Tenga presente che alcune banche dati di rilievo internazionale nel campo soprattutto della terminologia di cultura, le ho promosse io con l’istituto Lessico Intellettuale Europeo (CNR) da me fondato e diretto per oltre cinquant’anni.

7 aprile 2018

«Un italiano nel maggio 68 a Parigi, ovvero Godere senza limiti. Intervista a Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto è psicoanalista, filosofo e saggista. Ricercatore a Roma all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, al quale ha apportato un approccio filosofico e/o psicoanalitico, è presidente dell'ISAP (Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi) e direttore dell'European Journal of Psychoanalysis, da lui fondato nel 1995. Professore emerito, e uno dei maggiori maestri di studi psicoanalitici e filosofici italiani, ha collaborato e collabora a numerose riviste culturali internazionali, tra cui TelosLettre InternationaleTexteJournal for Lacanian StudiesL'évolution psychiatrique. Tra le traduzioni per l’Italia, si ricorda Il seminario. Libro XX. Ancora 1972-1973 di Jacques Lacan, edito da Einaudi nel 1983. Tra le sue copiose pubblicazioni scientifiche e culturali, si vogliono qui ricordare in sintesi solo le recenti oggetto di questa conversazione: Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi, edito da Mimesis e Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, edito da Orthotes. La seguente conversazione si incentra soprattutto, per la diretta esperienza di Benvenuto al Maggio 68 in Francia, sul volume edito in questi giorni da Mimesis.

Doriano Fasoli: Benvenuto, perché hai scritto un libro sul Maggio 68 in Francia?

Sergio Benvenuto: Pur essendo nato nel 1948, posso dire di aver vissuto il fascismo e la guerra, perché mio padre, straordinario affabulatore, ha passato molte ore nel raccontare a noi figli la sua esperienza sotto il fascismo e durante la guerra. Questo mi ha permesso di stabilire una continuità con la generazione precedente, nel capirne drammi e illusioni. Credo che la nostra generazione abbia lo stesso compito con le generazioni più giovani: testimoniare la propria esperienza. È quel che ho cercato di fare io con questo libro quasi-postumo. Lo sento come un dovere quasi biologico: trasmettere ai più giovani non tanto delle idee, delle teorie, delle convinzioni, quanto piuttosto, semplicemente, quel che si è vissuto. Saranno poi i nostri posteri a farne quel che vorranno.

Cosa significò per te, allora diciannovenne, studente italiano alla Sorbona di Parigi, trovarsi nella tempesta del Maggio ’68? E cosa ti spinse ad andare a Parigi?

Decisi di andare a studiare a Parigi nel 1967 perché ero straordinariamente attratto dalla cultura francese di allora, improntata a quello che si chiamava «strutturalismo» (Lévi-Strauss, Barthes, Lacan, Foucault, Althusser, Todorov) e che poi gli americani chiamarono, chissà perché, «post-strutturalismo». Prima dello strutturalismo, molti dei miei maestri dell’adolescenza erano francesi: i surrealisti, Sartre, Camus, Céline, Merleau-Ponty, Bataille… Inoltre, volendo iniziare un percorso di formazione come psicoanalista, intuivo che all’epoca in Francia bolliva molto nella pentola psicoanalitica. E non mi sbagliavo, dato che la psicoanalisi francese, all’epoca ancora alquanto ignota nel mondo, avrebbe poi preso una posizione di preminenza nel panorama mondiale. Non solo Lacan, ma la psicoanalisi francese in genere.

Il Maggio 68 fu per me entusiasmante perché ero in perfetta sintonia con molte delle esigenze che allora si espressero. E che non erano solo esigenze politiche, ma di rivoluzione del modo di vivere. Il Maggio sembrò realizzare, anche se in modo effimero, il sogno di varie generazioni di militanti dell’estrema sinistra. Non dimentichiamo che lo sciopero generale politico che paralizzò la Francia per settimane era stato teorizzato proprio da un francese, Georges Sorel, attraverso un libro del 1908 che fu bestseller della sinistra per decenni, Riflessioni sulla violenza. Col Maggio, un sogno a cui partecipavo da anni sembrava divenuto realtà. Il guaio è che poi un’intera generazione – di militanti, filosofi, saggisti, ecc. – ha continuato a pensare il 68, e il Maggio 68 in particolare, non come un’eccezione ma come ciò che poteva diventare regola. Ed è allora che sono cominciate le disillusioni amare, la tentazione masochista del terrorismo, il radicalismo sterile della sinistra, ecc.

20 marzo 2018

«L’inconscio e l’aporia del nulla. Intervista a Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli



L’inconscio e l’aporia del nulla (Moretti & Vitali, pp. 108, euro 12), l’ultimo libro di Gabriele Pulli, professore di Psicologia filosofica presso l’Università di Salerno, è una sorta di seconda parte del precedente Freud e Severino (Moretti & Vitali 2009; premio De Risio 2010).

Doriano Fasoli: Un altro suo libro, dunque, al confine fra tematiche psicoanalitiche e tematiche filosofiche…

Gabriele Pulli: Non è una cosa cercata ma una cosa trovata. Inizialmente, per me, per puro caso. Ero da poco tempo uno studente di filosofia e – all’epoca alla Standa – trovai in uno scaffale un libricino arancione dal titolo Al di là del principio del piacere, all’epoca al costo di mille lire. L’autore, ovviamente, era Sigmund Freud. Poiché non avevo ancora avuto un’esperienza forte con testi di filosofia, quello fu il mio primo rapporto diretto con la filosofia. Lo so che non si tratta di un testo filosofico in senso stretto, e neanche intendo dire che Freud sia stato un filosofo, ma vi trovai una gran quantità di problemi filosofici. E per di più di quelli che interessavano me. Intendo dire problemi in cui Freud si era imbattuto suo malgrado. Da allora mi è rimasta la convinzione che i problemi filosofici più profondi non siano quelli che ci si pone ma quelli nei quali ci si imbatte indipendentemente dalla propria volontà, quelli contro i quali si sbatte la testa. Come era capitato appunto a Freud.

Ma che rapporto c’è fra l’inconscio e l’aporia del nulla?

L’aporia del nulla è appunto un problema filosofico. Probabilmente il più profondo. Il non essere non è, ma con il solo pensarlo lo si tratta come qualcosa che è, appunto come l’oggetto del pensiero. Ed è in questo, nel trattare il nulla come qualcosa, che consiste l’aporia del nulla. Il nulla però può essere pensato, qualora lo si riesca a pensare come inesistente. In questo caso, non è trattato come qualcosa ma appunto come nulla, sicché l’aporia può essere risolta. È quanto fa Severino. Anche l’inconscio è di per sé la sfera dell’impensabile e tuttavia le teorie dell’inconscio in quanto tali mirano a pensarla in qualche modo. Ora, il tema della impensabilità o pensabilità del nulla e il tema dell’impensabilità o pensabilità dell’inconscio sono strettamente connessi. Forse sono addirittura lo stesso tema: un tema che può sembrare astratto ma che racchiude il senso del dolore, del desiderio, della nostalgia, della solidarietà, e di tutto ciò che più intimamente riguarda ciascuno di noi.

Lei ha citato la soluzione severiniana dell’aporia, più volte contestata e altrettante volte ribadita. Come si pone il suo libro rispetto a questa?

La mia intenzione non è fare un passo indietro rispetto alla soluzione severiniana dell’aporia, contestandone la validità, bensì un passo avanti, accettandone dunque la validità, ma affrontando al tempo stesso temi e problemi che si aprono a partire da tale soluzione. Dunque, in questo senso, se mi posso permettere di dirlo, integrandola.

8 febbraio 2018

«Il bafometto. Intervista a Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Nutrimenti , Roma; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Clichy, Firenze 2017) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma 2018), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni.

Doriano Fasoli: Cosa racconta Il bafometto, l’ultimo romanzo di Pierre Klossowski, appena pubblicato da Adelphi nella tua traduzione?

Giuseppe Girimonti Greco: Non è facile “raccontare” Il bafometto. La parte più propriamente narrativa del testo è il lungo Prologo (uscito su rivista, autonomamente, già nel 1964), che può essere considerato un bell’esempio di pastiche di almeno tre tipologie testuali: il verbale di polizia, il saggio storico-erudito, la narrazione alla Walter Scott. Klossowski ricostruisce (reinventadola) la fosca vicenda del processo ai Templari (accusati, com’è noto, di eresia, idolatria e sodomia), che portò rapidamente alla sospensione dell’Ordine. I personaggi evocati sono in parte storici (Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret, Jacques de Molay, ecc.), in parte fittizi: in una lettera al critico Jean Decottignies che è stata pubblicata in appendice a una monografia dello stesso Decottignies (Klossowski, notre prochain, H. Veyrier, Paris 1985), e che in questa edizione abbiamo riprodotto a mo’ di postfazione («Note e chiarimenti sul Bafometto»), Klossowski dice di aver accarezzato, già a partire dal 1964, «il progetto di un romanzo storico che rievocasse le circostanze della soppressione dell’Ordine dei Templari»; tuttavia, molto presto lo scrupolo di attendibilità storica cede il passo a un progetto di altra natura; l’idea di partenza ridesta in lui «il ricordo di una remota lettura di Walter Scott», risalente alla prima adolescenza. Infatti, «i nomi di due dei protagonisti del Prologo – Bois Guilbert e Malvoisie – sono mutuati da quelli dei due Templari che compaiono in Ivanhoe» (Brian de Bois-Guilbert e Philip de Malvoisin). Ma Klossowski si diverte a inserire nel suo racconto anche altri personaggi dai nomi quanto mai “parlanti”: Valentine de Saint-Vit (acerrima nemica del Tempio) e Ogier de Béauseant (il bell’efebo che porta la discordia in seno all’Ordine). Sulla questione dell’onomastica klossowskiana il discorso sarebbe troppo tecnico; mi limiterò a notare, en passant, che vit, nel francese medievale (quello dei fabliaux, per intendersi), indica il membro virile (dal latino vectis, “leva”, “stanga”, “sbarra” e simili); e che séant è sinonimo colloquiale di derrière, fessier, postérieur; cosicché, volendo, ci si sarebbe potuti avventurare in esperimenti onomastici – per così dire – goliardici: “Valentina della Santa Verga” e “Oggieri di Belsedere”; soluzioni scartate a monte, ché alla lunga avrebbero sicuramente stancato l’orecchio. Come dicevo, solo nel Prologo abbiamo una narrazione vera e propria, molto tesa, peraltro; gotica, cupa e… corrusca (per usare un aggettivo caro a Paolo Poli, che tanto amava le cose neogotiche, il finto Medioevo); Klossowski la definisce «favola allegorica, fiaba orientale», apologo gnostico «che risente (Blanchot dixit) del modello del racconto orientale del Vathek di Beckford»; personalmente, io ho letto Il bafometto, sin dall’inizio, come un vero e proprio conte brun: ovvero, come una narrazione ricca di momenti sublimi e grotteschi insieme, e caratterizzata da un andamento policier molto riuscito (visto che sulla “tenebrosa vicenda” che distrugge l’Ordine dall’interno indaga un vero e proprio detective: il Commendatario, abilissimo nel trovare il bandolo della matassa e nel venire a capo del mistero, salvo poi decidere di nascondere per sempre le “tracce” dello scandalo).

21 gennaio 2018

«“La vita di Adele”. Adele e la sua ‘differenza’» di Silvia Maria Pettorossi



Noi stessi non abbiamo la vita sacra. Ne parliamo solo per aver preso coscienza che manca al mondo, che gli manca e che ci manca. Vorremmo legare un mondo che si disfa, ma non abbiamo la corda, e non siamo in grado di sapere perché questa corda non è nelle nostre mani; è perché la vita non serra più i suoi nodi in noi, è perché la vita stessa ci manca.

G. Bataille, Il limite dell’utile

Fuori è notte. Una torrida notte d’agosto in cui è difficile che Morfeo venga a farti visita. Trepidante per la snervante attesa, decido di condividere l’intimità della mia stanza con il pc, alla ricerca di qualcosa che possa dare senso ai minuti e, forse, alle ore. Mi imbatto casualmente – ma sono un po’ bugiarda – nella pellicola, pluripremiata a Cannes 20131, La Vie d’Adèle. Chapitres 1 & 2 (La vita di Adele. Capitoli 1 & 2 nella versione italiana) di Abdellatif Kechiche, tratta dal fumetto di Julie Maroh Le bleu est une couleur chaude2. L’attenzione s’era infatti – altrimenti destata – mediante un trailer intravisto in qualche inframezzo pubblicitario, nonché dal gran clamore che ne ha accompagnato l’esordio sugli schermi italiani e non solo. Consapevole che tali tempeste marcano in genere la massima lodevolezza o il suo opposto, decido di spendere almeno un po’ del mio tempo. Tanto per ora non ho visite.

Sullo sfondo della cittadina francese di Lille, si incontrano e si scontrano le esistenze, declinate nei corpi vivi e incandescenti, delle due giovani protagoniste: Adele (Adèle Exarchopoulos) ed Emma (Léa Seydoux). Corpi vibranti di passione che sembrano fondersi in un unico movimento armonico, non sfuggendo all’occhio ‘generoso’ della macchina da presa.

Lungi dall’essere un softcore, La vita di Adele è molto di più. Oserei dire quasi l’epitome di una certa filosofia francese contemporanea tradotta in immagini. Come all’interno di un toolbox, vi si trova di tutto – perfino Sartre con la sua lettera-manifesto L’esistenzialismo è un umanismo – spiegato dalle erudite parole di Emma a una giovane Adele, che poco si intende di filosofia, alla quale preferisce la musica di Bob Marley.

Nonostante la preponderanza dell’intreccio amoroso tra le due giovani, uno tra gli spunti più importanti che la pellicola offre, a mio avviso, è proprio la sollecitudine alla riflessione sul grande topos filosofico della libertà come chiave di lettura dell’opera.

Forse uno sguardo poco attento, o ‘poco esperto’, potrebbe dissentire, ma se si presta attenzione alla resa delle figure femminili, all’accento posto sull’elemento “oscuro”, passionale, e soprattutto a come questo venga declinato in due diverse, opposte modalità, le tessere del mosaico iniziano a prender forma rendendo il quadro più nitido.

Chi siamo noi in quanto soggetti, «identità»? Come si pone la relazione verso quest’ultima tra termini ad essa interdipendenti come «libertà» e «responsabilità»? Siamo progetto gettato nel mondo, abitati da una libertà sostanziale, ontologica, assoluta, che vede un io assertivo all’altezza della propria scelta, o siamo forse soggetti decentrati, segnati da una part maudite ineliminabile, che disfa i nostri progetti identitari obbligandoci, di volta in volta, ad una laboriosa ricostruzione di noi stessi?

11 dicembre 2017

«Colletti, Foucault e il marxismo» di Luciano Albanese


Diego Rivera, Zucchero di canna. 1931.

A prima vista affrontare il tema dei rapporti tra Colletti e Foucault potrebbe sembrare tempo perso. Foucault non è ancora stato pubblicato interamente, ma per quello che ho potuto leggere finora il nome di Colletti non sembra comparire nelle sue opere. In Colletti compare, ma solo due volte. La prima citazione è in Pagine di filosofia e politica (Colletti 1989, p. 125), ripresa letteralmente in Fine della filosofia e altri saggi (Colletti 1996, p. 36), e non ha il minimo rilievo. La seconda è in Tra marxismo e no (Colletti 1979, pp. 61-2), ed è più interessante, anche se molto breve. Colletti infatti individua nello strutturalismo francese, in particolare Michel Foucault, la fonte della concezione della scienza (della storia come scienza) di Althusser. In realtà la concezione della storia e della scienza di Michel Foucault, come ha dimostrato Paul Veyne, è molto più complessa di quella strutturalista e di quella di Althusser, e lo stesso Foucault ha sempre preso le distanze dallo strutturalismo. Quello che sembra emergere dalla seconda citazione, in ogni caso, è una sottovalutazione di Foucault da parte di Colletti, e uno scarso interesse per la sua opera.

Forse si potrebbe anche parlare di ostilità: Foucault era tra gli intellettuali firmatari del Manifesto contro la repressione del luglio ’77, ed appoggiò pubblicamente il Movimento studentesco dello stesso anno. Ma Colletti era stato una delle ‘vittime’ di questo stesso movimento, che all’apertura dell’Anno accademico gli aveva impedito ripetutamente di fare lezione, costringendolo a procurarsi un insegnamento nella più tranquilla Svizzera. E conoscendo il carattere passionale di Colletti, difficile non pensare che in questo palese disinteresse interagissero anche motivi personali.

L’ostilità del Movimento studentesco del ’77 nei confronti di Colletti – a voler essere generosi – si legava alle polemiche suscitate in Italia dalla pubblicazione dell’Intervista politico-filosofica e dell’accluso saggio Marxismo e dialettica, usciti nel dicembre del 1974 presso Laterza. Tanto a destra quanto a sinistra si era data immediatamente una lettura politica dell’opera. A destra Colletti era stato esaltato come una sorta di Paolo a Damasco, che finalmente aveva visto la luce e aveva rotto col marxismo, il vaso di Pandora di tutti i mali. Dal canto suo la sinistra, in particolare quella legata al PCI, era partita a testa bassa, accusando Colletti di ‘tradimento’ e innescando un effetto domino che sfocerà nell’aperta ostilità verso Colletti degli studenti del Movimento del ’77. Se si pensa che Colletti e La Sinistra, il mensile da lui diretto, erano stati uno dei punti di riferimento del Movimento studentesco del ’68, questo improvviso voltafaccia della sinistra, ancora oggi, non può non suscitare perplessità.

28 novembre 2017

«Recensione di "Envoi Gramsci. Cultura, filosofia, umanismo" (a cura di Neil Novello)» di Luciano Albanese



La recente pubblicazione della raccolta di saggi su Antonio Gramsci curata da Neil Novello, Envoi Gramsci. Cultura,filosofia, umanismo (Campanotto ed., Pasian di Prato 2017, pp. 174), cade in un momento particolarmente appropriato, il centenario della Rivoluzione d’ottobre. Infatti sarebbe difficile spiegare il pensiero di Gramsci e la sua evoluzione senza fare riferimento a questo evento. Come ricorda Michele Maggi nel suo contributo, la rivoluzione bolscevica venne definita da Gramsci, nel celebre articolo dell’Avanti! del 24 novembre del ’17, una «rivoluzione contro il Capitale». Gramsci aveva ragioni da vendere, perché la rivoluzione comunista era scoppiata dove meno il marxismo se lo sarebbe aspettato, vale a dire non in un paese di avanzato sviluppo capitalistico, come l’Inghilterra, la Francia, la Germania o anche gli Stati Uniti, ma in un paese costituito in maggioranza da contadini, e con poche sacche di capitalismo ancora agli albori dello sviluppo. Ciò rappresentò un forte argomento per tutti coloro, compreso il ‘rinnegato’ Kautsky (secondo la colorita espressione di Lenin), che pensavano che la rivoluzione si sarebbe dovuta arrestare alla fase democratico-borghese, cioè a Kerenskij, e (eventualmente) aspettare tempi più opportuni per decollare.

Ma Gramsci non era disposto a gettare la spugna. Da questa rivoluzione contro il Capitale egli trasse la dottrina e la forza che gli fecero pensare che la rivoluzione comunista non era una ‘missione impossibile’, né in paesi arretrati – come era ancora sotto molti aspetti l’Italia – né in paesi altamente sviluppati, come la Germania, dove era stata soffocata nel sangue. La prima e più importante ‘vittima’ della rivoluzione contro il marxismo ortodosso operata da Gramsci fu – come dimostrò Bobbio in un celebre intervento – il concetto di ‘società civile’. Si tratta di un nodo centrale del pensiero di Marx e Engels. Engels, nello scritto del 1885 «Per la storia della Lega dei Comunisti» è molto esplicito su questo punto: «Non lo Stato condiziona e regola la società civile, ma la società civile condiziona e regola lo Stato [e] dunque la politica e la sua storia devono essere spiegate sulla base dei loro rapporti economici e del loro sviluppo, e non viceversa».

Come si capisce, nella visione di Engels e Marx la società civile è il luogo della lotta fra capitale e lavoro salariato, e quindi – tradotta in un linguaggio approssimativo, che Marx ha usato di rado, e che richiederebbe molte precisazioni – appartiene all’ordine della ‘struttura’ (del modo di produzione capitalistico). Ma Gramsci capovolge questo caposaldo dottrinale, perché in lui la società civile appartiene all’ordine della ‘sovrastruttura’, e quindi all’ordine delle idee, della cultura, della filosofia, anziché a quello dell’economia politica. Emerge bene qui la distanza di Gramsci sia dai bolscevichi – ai quali pure deve lo stimolo a uscire dalla camicia di forza del marxismo ortodosso – che dalla corrente di sinistra della II Internazionale (divenuta poi III Internazionale).

5 febbraio 2017

«Su Freud e Pirandello. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli


Gabriele Pulli è autore di diversi libri, che hanno toccato temi anche molto diversi fra loro ma con un unico filo conduttore che è la sua personale ricerca, con un’impronta specifica molto marcata. Da diversi anni insegna Psicologia filosofica e Psicologia dell’arte e della letteratura nei corsi di laurea triennale e magistrale di Filosofia all’Università di Salerno. E a queste discipline si possono ricondurre due suoi brevi ma intensi libri usciti recentemente: Il brivido dell’eterno. Su Pirandello e Freud (Clinamen, Firenze 2016) e Freud e l’enigma della negazione (Alpes, Roma 2017).

Doriano Fasoli: Partiamo dal primo: Perché questo titolo? E perché questo libro?

Gabriele Pulli: Mi è sembrato che nei Sei personaggi in cerca d’autore fosse racchiuso qualcosa di più profondo di quel dramma dell’identità che viene generalmente rilevato, quello per cui non siamo uno ma tanti, e diversi, «diversissimi», a seconda delle diverse persone con cui entriamo in rapporto, «“uno” con questo, “uno” con quello», dice Pirandello. Mi è sembrato persino che ciò in se stesso non fosse neanche un dramma e che lo diventasse solo alla luce di questa dimensione più profonda. Pirandello definisce l’opera d’arte come qualcosa che «vive per sempre» e definisce la fantasia che dà luogo all’opera d’arte come ciò di cui si serve la natura «per proseguire, più alta, la sua opera di creazione». Per la fantasia dunque, intesa appunto come un più elevato ordine di realtà, tutto è eterno. Ma se tutto è eterno è eterno anche il dolore. I sei personaggi infatti incarnano ciascuno una variazione sul tema del dolore. Dal testo emerge dunque come il percorso verso un’eternità che possa essere solo desiderata, in quanto salvezza dall’angoscia dell’annullamento, s’imbatta nell’ostacolo di un’eternità che può essere solo temuta, in quanto eternità del dolore. Dunque una cupa negatività su un cammino luminoso. Mi è sembrato che la vita più intima del dramma pirandelliano fosse qui. E la scelta del titolo – per rispondere alla prima parte della sua domanda – è derivata appunto da quest’idea. Rivolgendosi al capocomico, il padre osserva come la realtà dei sei personaggi sia immutabile e come a causa di ciò l’accostarsi a loro dovrebbe provocare un brivido. Se il capocomico avesse veramente capito, se avesse intuito la natura dei sei personaggi, dinanzi a loro avrebbe avuto un brivido: appunto il brivido dell’eterno.

Lei dice che nei Sei personaggi si può individuare qualcosa di più profondo del dramma dell’identità, ma il nesso fra l’opera di Pirandello e quella di Freud viene individuato in genere nella comune percezione della complessità del problema dell’identità. Come si presenta il nesso fra i due autori nel suo libro? 

Mi è sembrato che nell’opera di Freud ci fosse una tensione analoga a quella che ho appena cercato di descrivere a proposito dell’opera di Pirandello. Se in Pirandello per la fantasia tutto è eterno, in Freud per l’inconscio tutto è eterno. E se per Pirandello la fantasia dà luogo a un più elevato ordine di realtà, per Freud l’inconscio è la «vera realtà psichica». Ma questa eternità e atemporalità dell’inconscio è anche, soprattutto, la causa della patologia psichica. Ora, secondo la mia ricostruzione, ciò avviene in ultima analisi perché, anche in questo caso, se tutto è eterno è eterno anche il dolore. In tal modo mi è sembrato che si potesse comprendere qualcosa in più dell’enigmatico fenomeno della coazione a ripetere le esperienze spiacevoli, ma anche del fenomeno, che dev’essere considerato altrettanto enigmatico, della rimozione. 

Tutto questo percorso a quali conclusioni l’ha portato?

Nella conclusione del libro mi sono chiesto appunto cosa si possa fare: se sia preferibile rinunciare alla sfera dell’atemporalità per liberarsi dal dolore o rinunciare a liberarsi dal dolore per accedere alla sfera dell’atemporalità. E mi è sembrato di poter rispondere che queste due opposte prospettive si danno insieme contemporaneamente, al punto che ciascuna può avere un’efficacia e un valore – fino a corrispondere a una possibilità di cura della sofferenza psichica – in virtù della sua capacità di attivare contemporaneamente l’altra. Mi dispiace di non riuscire a essere più chiaro, ma mi è difficile rispondere sinteticamente.

L’altro, ancor più recente, libro Freud e l’enigma della negazione fa parte di uno stesso percorso. In che modo vi si inserisce? 

La coazione a ripetere e la stessa rimozione, che ho appena ricordato, implicano il tema del negativo, dunque della negazione. È un tema su cui mi sono soffermato in diverse circostanze. In questo libro lo faccio in un modo diverso, cioè dedicando l’intero testo al breve scritto freudiano del 1925 «La negazione». È uno scritto che è stato molto autorevolmente studiato, e definito di volta in volta oscuro, vertiginoso, stupefacente, enigmatico. Mi è sembrato che nonostante i contributi importanti acquisiti sin qui, ci fossero ancora dei nodi da sciogliere: che l’enigma fosse ancora lì. E ho cercato di proporne una soluzione. 

23 gennaio 2017

«Alcune considerazioni sul problema del realismo» di Luciano Albanese

Adesso dev'essere l'ora di pranzo di Francesca Woodman, 1979

Quando si parla di recupero del realismo bisogna stare attenti. Prendiamo ad es. una proposizione protocollare del tipo ‘alle ore x y Catone passeggia’. Questa sembrerebbe una descrizione adeguata alla realtà di quello che sta succedendo in un istante dato. Ma se riflettiamo meglio su ciò che sta realmente accadendo non tardiamo a capire che siamo di fronte ad un fenomeno più complesso, o addirittura a uno sciame di fenomeni concomitanti.

Catone, passeggiando, ha anche mosso l’aria circostante, aumentandone la temperatura, ha distrutto un formicaio sotto i suoi piedi, e soprattutto ha sparso germi letali intorno a sé – quelli che hanno sconfitto i marziani nella Guerra dei mondi di H. G. Wells. Ma può anche aver messo in moto una di quelle lunghe catene causali su cui si esercitava l’ironia di Voltaire. E questo, solo rimanendo al livello superficiale o fenomenico, senza scomodare la fisica atomica e le ‘due scrivanie’ di Eddington (quelle che hanno ispirato una scena di Scomodi omicidi, il dialogo tra Nick Nolte e John Malkovich).

Questa concomitanza di eventi, per cui non esiste mai un evento singolo e in totale isolamento dal contesto, è molto utile a chi indaga sugli omicidi. Le ‘tracce’ lasciate dall’assassino non sono altro, infatti, che eventi concomitanti e paralleli all’evento che ci interessa, il delitto. È quindi perfettamente giustificata la raccomandazione di non ‘intorbidare’ la scena del crimine (vedi le raccomandazioni di Denzel Washington ad Angelina Jolie nel Collezionista di ossa).

Conseguentemente, potremmo dire che qualsiasi descrizione di quello che sta facendo Catone in questo istante è totalmente inadeguata, e trova scarsa corrispondenza in quello che sta realmente accadendo. In effetti nessuna descrizione sarà mai adeguata alla miriade di eventi che accompagnano la passeggiata di Catone. In verità noi chiamiamo ‘descrizione realistica’ una proposizione che descrive – approssimativamente – solo un aspetto, trascelto fra mille altri, della realtà che si offre ai nostri sensi: esattamente quello che ci interessa, quello verso il quale siamo predisposti e orientati. Il punto di vista delle formiche vittime di Catone non viene preso in considerazione da noi, anche se sarebbe non meno legittimo.

Ma questo vuol dire anche che proposizioni del tipo ‘Catone distrugge un formicaio’ o ‘Catone distrugge i marziani’, oppure, allungando di qualche secolo la catena causale di Voltaire («Dialogo tra un bramano e un gesuita sul necessario concatenamento delle cose»), ‘Catone fa morire Enrico IV’, sarebbero descrizioni altrettanto realistiche di ciò che accade nell’istante dato.

La non univocità degli eventi non è l’unica difficoltà che incontra la riproposizione del realismo. Ad essa se ne accompagna un’altra – di cui già gli Stoici antichi, come vedremo, erano consapevoli. Essa è data dalla circostanza che, anche ammettendo l’esistenza di eventi isolati, i corpi non sono in grado, da soli, di esprimere chiaramente una ‘sintassi’ o un ordine propri. Tale difficoltà si manifesta in modo evidente nelle arti figurative.

Secondo il Laocoonte di Lessing le arti figurative descrivono azioni per mezzo di corpi, mentre le opere letterarie descrivono corpi per mezzo di azioni. In realtà né le une né le altre riescono a offrire di azioni e di corpi una descrizione incisiva e chiara. La descrizione delle azioni effettuate da un corpo ci parlerà al massimo del carattere del personaggio a cui il corpo appartiene, ma non potrà mai raggiungere l’evidenza della visione autoptica del corpo stesso. E tuttavia la letteratura ha un vantaggio sulle arti figurative. Essa ha già effettuato una selezione preventiva sullo sciame degli eventi, e ci costringe a guardare ciò che interessa allo scrittore. Ma nelle arti figurative la situazione è diversa.

Per citare solo il caso dell’arte mitriaca, che è quella di cui mi occupo da tempo, siamo letteralmente bombardati da immagini di corpi nei monumenti figurati, ma spaventosamente a secco di testi letterari che ci informino sul loro significato, a cominciare dall’evento centrale, la tauroctonia. La conseguenza è che ognuno vi legge quello che gli pare, e da Porfirio a oggi si può dire che ogni anno esce un nuovo libro sul ‘vero’ significato del culto di Mithra.