8 febbraio 2018

«Il bafometto. Intervista a Giuseppe Girimonti Greco» di Doriano Fasoli



Giuseppe Girimonti Greco è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi lavori di traduzione: Vertigine di Julien Green (Nutrimenti , Roma; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Clichy, Firenze 2017) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova Frontiera Junior, Roma 2018), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni.

Doriano Fasoli: Cosa racconta Il bafometto, l’ultimo romanzo di Pierre Klossowski, appena pubblicato da Adelphi nella tua traduzione?

Giuseppe Girimonti Greco: Non è facile “raccontare” Il bafometto. La parte più propriamente narrativa del testo è il lungo Prologo (uscito su rivista, autonomamente, già nel 1964), che può essere considerato un bell’esempio di pastiche di almeno tre tipologie testuali: il verbale di polizia, il saggio storico-erudito, la narrazione alla Walter Scott. Klossowski ricostruisce (reinventadola) la fosca vicenda del processo ai Templari (accusati, com’è noto, di eresia, idolatria e sodomia), che portò rapidamente alla sospensione dell’Ordine. I personaggi evocati sono in parte storici (Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret, Jacques de Molay, ecc.), in parte fittizi: in una lettera al critico Jean Decottignies che è stata pubblicata in appendice a una monografia dello stesso Decottignies (Klossowski, notre prochain, H. Veyrier, Paris 1985), e che in questa edizione abbiamo riprodotto a mo’ di postfazione («Note e chiarimenti sul Bafometto»), Klossowski dice di aver accarezzato, già a partire dal 1964, «il progetto di un romanzo storico che rievocasse le circostanze della soppressione dell’Ordine dei Templari»; tuttavia, molto presto lo scrupolo di attendibilità storica cede il passo a un progetto di altra natura; l’idea di partenza ridesta in lui «il ricordo di una remota lettura di Walter Scott», risalente alla prima adolescenza. Infatti, «i nomi di due dei protagonisti del Prologo – Bois Guilbert e Malvoisie – sono mutuati da quelli dei due Templari che compaiono in Ivanhoe» (Brian de Bois-Guilbert e Philip de Malvoisin). Ma Klossowski si diverte a inserire nel suo racconto anche altri personaggi dai nomi quanto mai “parlanti”: Valentine de Saint-Vit (acerrima nemica del Tempio) e Ogier de Béauseant (il bell’efebo che porta la discordia in seno all’Ordine). Sulla questione dell’onomastica klossowskiana il discorso sarebbe troppo tecnico; mi limiterò a notare, en passant, che vit, nel francese medievale (quello dei fabliaux, per intendersi), indica il membro virile (dal latino vectis, “leva”, “stanga”, “sbarra” e simili); e che séant è sinonimo colloquiale di derrière, fessier, postérieur; cosicché, volendo, ci si sarebbe potuti avventurare in esperimenti onomastici – per così dire – goliardici: “Valentina della Santa Verga” e “Oggieri di Belsedere”; soluzioni scartate a monte, ché alla lunga avrebbero sicuramente stancato l’orecchio. Come dicevo, solo nel Prologo abbiamo una narrazione vera e propria, molto tesa, peraltro; gotica, cupa e… corrusca (per usare un aggettivo caro a Paolo Poli, che tanto amava le cose neogotiche, il finto Medioevo); Klossowski la definisce «favola allegorica, fiaba orientale», apologo gnostico «che risente (Blanchot dixit) del modello del racconto orientale del Vathek di Beckford»; personalmente, io ho letto Il bafometto, sin dall’inizio, come un vero e proprio conte brun: ovvero, come una narrazione ricca di momenti sublimi e grotteschi insieme, e caratterizzata da un andamento policier molto riuscito (visto che sulla “tenebrosa vicenda” che distrugge l’Ordine dall’interno indaga un vero e proprio detective: il Commendatario, abilissimo nel trovare il bandolo della matassa e nel venire a capo del mistero, salvo poi decidere di nascondere per sempre le “tracce” dello scandalo).

Quali sono gli ingredienti della storia?

Gli “ingredienti” del libro sono disparati, ed è Klossowski stesso a metterli a fuoco, con grande precisione auto-esegetica, nei vari paragrafi che scandiscono il testo che abbiamo ripreso in appendice. Anzi, prenderò spunto proprio da questa postfazione, per non perdere il filo: in primo luogo la dimensione eminentemente “teatrale” del testo, su cui gli studiosi di Klossowski insistono da sempre (anche per il resto della sua opera); l’ambientazione storica, di cui abbiamo già detto (e che implica un approccio ironico, imposto dalla necessità di reinventare in chiave fantastica e allucinatoria un Medioevo misterico al tempo stesso sublime e kitsch); e ancora: i contenuti teologici e l’influsso dei grandi eresiarchi gnostici (in particolare Basilide e Carpocrate); la ricerca iconografica che sta alla base di molte delle invenzioni presenti nel testo (a partire dalla rappresentazione dell’idolo stesso, molto lontana dall’immagine a tutti nota: il demone androgino, cornuto e barbuto, tanto caro agli amanti del fantasy, delle letture pseudo-esoteriche e dei giochi di ruolo); la dimensione disinvoltamente intertestuale, che prende le mosse dagli atti del processo e dalle Scritture per coinvolgere testi lontanissimi nello spazio e nel tempo (dalle opere degli gnostici alle lettere di Santa Teresa, dalle opere di Nietzsche alle altre opere klossowskiane, ironicamente richiamate en abyme); la traduzione in racconto di «quel simulacro di dottrina che è l’Eterno Ritorno nietzschiano»; il topos gnostico della metempsicosi; il tema (a sua volta di matrice gnostica) del raggiungimento della santità attraverso l’abisso dell’abiezione (tema ossessivo anche in Bataille, autore per molti versi vicino a Klossowski); e infine l’ingrediente forse meno vistoso: i rimandi (perlopiù parodici) ai rituali massonici. Klossowski parla di «stile massonico della commemorazione»: i rituali iniziatici su cui si indaga nel Prologo, infatti, e anche l’esecuzione rituale del bell’Ogier e di sua zia Valentine (rispettivamente pomo della discordia e dark lady della storia), sono quanto mai oscuri, ma al tempo stesso appaiono carichi di significati simbolici ineludibili. L’autore, nella postfazione, spiega l’importanza di questo aspetto: «Nel mio libro tutto questo, presentato in chiave di spettacolare parodia, […], conserva intatta la gravità simbolica delle parole e dei gesti deliberatamente assurdi previsti dal rituale, che assolvono quindi alla funzione di mettere alla prova la capacità di distinguere il vero dal falso ecc.» Ecco: in questo passo di limpido auto-commento Klossowski svela il nucleo intimamente paradossale della poetica che sta alla base del Bafometto e di tante altre sue opere. Ed è proprio questa mescolanza di oscurità e evidenza, di «gravità simbolica» e parodia, di verità e finzione (rituale e teatrale) a costituire il principale problema ai fini della resa, della restituzione di un intero immaginario (surreale, paradossale, assurdo) da parte del povero traduttore (ma su questo punto tornerò).

Ma vorrei soffermarmi su un altro aspetto rilevante del testo: la sua drammaturgia, ovvero (l’espressione, volutamente ambigua e polisemica, è di Klossowski stesso) il «teatro di società» cui assistiamo leggendo intere pagine del Bafometto. Cedo di nuovo la parola all’autore: «Il tutto fu scritto molto rapidamente, come sotto dettatura, o meglio: come se stessi descrivendo uno spettacolo cui assistevo, senza omettere neanche una delle parole che i vari gesti degli attori mi suggerivano, tanto da avere l’impressione di essere lì, in loco, ad ascoltarli»; molto teatrale è tutta la parte centrale del libro, che alterna parti più narrative e descrittive (oniriche, visionarie, surreali, per ambientazione e temi e atmosfere) a corpose sezioni composte da lunghi monologhi e serrati dialoghi fra i “Soffi” in scena (ovvero i simulacri disincarnati dei personaggi evocati nel Prologo, che interagiscono con altri simulacri). E ancora: a proposito dell’epilogo (che esce in anteprima su rivista come esercizio di prosa drammatica), Klossowski ci svela: «… nell’imbastire l’azione narrativa di questo libro, ho avuto l’impressione di assistere a uno spettacolo teatrale». Nel dialogo fra l’efebo (un personaggio dall’identità incerta, un incrocio un anonimo “paggio”, Ogier, Santa Teresa d’Ávila e chissà quanti altri simulacri) e Fra’ Damiens (controfigura dell’autore), Klossowski riprende i temi esposti nel Prologo e sviluppati nella parte centrale del testo, e li rielabora secondo una drammaturgia particolarmente complessa. Come in un testo pensato per la scena, abbiamo dettagliate indicazioni di regia («Ecco che, di nuovo, si alza il sipario: questa volta su una camera della foresteria della Commenda, […]. In questa camera ampia, […] si vede un ospite coricato. Ai piedi del letto, un ragazzo molto giovane, con addosso una serica livrea da paggio medioevale, giocherella con un rosario»); abbiamo giochi di specchi e mises en abyme tipicamente modernisti, il tutto all’interno di una sistematica, spiazzante alterazione del rapporto fra realtà e finzione. Il narratore, nella «scena» che chiude l’epilogo, a un certo punto si domanda se il ragazzo non stia recitando a memoria «quella specie di omelia»; tutto, la sua manovra seduttiva, le sue elucubrazioni teologiche, i paradossi del suo argomentare, i gesti… tutto sembra confermarlo. Folgorante, in tal senso, una delle più sprezzanti (e rivelatrici) battute del ragazzo: «[…] credete forse che avrei anche solo lontanamente potuto pensare di parlarvi in tal modo se non fossi che un modesto figurante di commedia?»

Perché Adelphi ha deciso oggi di riproporlo?

Immagino che l’Editore abbia voluto riproporre ai lettori un autore per certi versi “storicamente” legato al suo catalogo. Nel 1973 Adelphi ha pubblicato, di Klossowski, Le dame romane (nella traduzione di Giancarlo Marmori). Si tratta di un titolo risalente al 1968, molto rappresentativo (rispetto alla produzione klossowskiana) e, soprattutto, molto in linea con temi e problemi che sono sempre stati centrali nel catalogo Adelphi. Anche in questo caso, Klossowski parte da un “caso”, da una “tenebrosa vicenda”, uno scandalo a sfondo sessuale in cui si mescolano, proprio come nel Bafometto, erotismo, ritualità, parodia, teatralità e blasfemia; «con la sua rabdomantica sottigliezza, con una sensibilità pronta a captare aspetti ambigui e segreti dell’antichità» (così il risvolto), Klossowski conduce (seguendo Bachofen) un’indagine sui principi costitutivi del matriarcato e sul mistero dei misteri (tema ossessivo della sua opera narrativa, oltre che saggistica): le «leggi dell’ospitalità».

E ancora: nel 1981 Adelphi ha pubblicato, nella collana «Saggi», Nietzsche e il circolo vizioso (nella traduzione di Enzo Turolla; titolo poi ripreso nel 2013 nella collana «Saggi. Nuova serie»). In quel lavoro Klossowski tenta, in modo molto persuasivo, di eludere la dicotomia lucidità/follia in cui si erano impelagati gli esegeti di Nietzsche, partendo dal presupposto che tutto il pensiero di Nietzsche «ruota attorno al delirio come attorno al proprio asse». A questo proposito posso fare due considerazioni di carattere generalissimo: Adelphi è una casa editrice legata a doppio filo alla Nietzsche-Renaissance (basti citare Roberto Calasso, «Monologo fatale», postfazione all’edizione adelphiana dell’Ecce homo del 1969), il che significa che un autore così rilevante, nel quadro di un radicale ripensamento della lezione nietzschiana, non poteva certo mancare in un catalogo così orientato, dal punto di vista storico-filosofico. E ancora: “Federico” (che nel libro compare, a sorpresa, sotto le spoglie perturbanti di un goffo formichiere) è un personaggio-chiave dello stesso Bafometto; un personaggio la cui voce si sovrappone da un lato a quella di Teresa (che parla con accenti ora teresiani, ora gnostici, ora nietzschiani, appunto), e dall’altro a quella di Klossowski stesso (che trova il modo di auto-rappresentarsi nel testo, o meglio: di manifestarsi, in vari modi). L’intero libro è attraversato dalla presenza di “Federico” (che, peraltro, è oggetto anche di un malinteso comico-grottesco molto riuscito, dal momento che i “Soffi” dei Templari, ignari dei giochi anacronistici congegnati dal loro creatore, prendono questo «filosofo che viene dal futuro» per Federico II di Svevia, da loro percepito come acerrimo nemico e poi, apertamente, come veridica incarnazione dell’Anticristo). Ma basterà citare un estratto dal risvolto di Nietzsche e il circolo vizioso, per cogliere le profonde affinità che legano l’opera saggistica di Klossowski ai temi del Bafometto: «più che l’articolarsi dei concetti, [Klossowski] segue le “fluttuazioni d’intensità” in quella “tonalità dell’anima” che era Nietzsche stesso – e il libro si intesse alle pagine di Nietzsche come un perpetuo commento, un’eco dove le parole dell’autore stingono su quelle dell’esegeta e viceversa. Molte sono le sorprese che si incontreranno per questa via: per esempio i frammenti politici di Nietzsche, che per lo più gettano i lettori nei più infausti equivoci o – nel caso migliore – nel totale imbarazzo, vengono qui letti in modo finalmente convincente, come la più precisa descrizione di una società industriale avanzata: “Le domande di Nietzsche descrivono ciò che noi ora stiamo vivendo”. Quanto all’eterno ritorno, quel “circolo vizioso” a cui allude il titolo, non lo troveremo qui allineato fra le tante tesi dei manuali di storia della filosofia, ma trattato innanzitutto come esperienza – avvicinabile, come l’esperienza misterica, solo nei termini dell’enigma. Infine tutto il periodo della “euforia di Torino”, con l’efflorescenza dei “biglietti della follia”, viene qui raccontato dal narratore più affine che il delirio di Nietzsche abbia trovato sino a oggi».

Molto adelphiani, del resto, sono diversi altri elementi che attraversano da cima a fondo questo libro così singolare: la spiccata vocazione al paradosso della teologia klossowskiana, che forse meriterebbe di essere riletta e rimeditata; la natura squisitamente dionisiaca di Ogier, di Teresa (nella versione klossowskiana, ovviamente) e dell’idolo stesso (tre simulacri che vanno considerati insieme, e che, del resto, nel testo si manifestano spesso fusi insieme come in una sorta di Trinità rovesciata); e, soprattutto, il dialogo (solo apparentemente conflittuale, in realtà profondamente dialettico) fra epoche apparentemente remote; Klossowski ama molto questo genere di corto-circuiti: «Il Gran Maestro [Jacques de Molay] rappresenta qui la sensibilità gotica, in contrapposizione alla santa di Ávila che scaturisce dal mondo barocco: il giovane Ogier, nella rotazione del suo corpo immarcescibile, sta in qualche modo a rappresentare la transizione dal pensiero ogivale a quello, spiraleggiante, del barocco, che reintroduce la sensualità nell’esperienza contemplativa dei mistici spagnoli». In ogni caso, questo caleidoscopio storico-filosofico è complicato dalla prepotente presenza della contemporaneità (ovvero della voce di Klossowski stesso, che si autorappresenta nei panni di teologo perverso, di allievo dei grandi eresiarchi gnostici, di libertino parigino del 1964, al tempo stesso moderno e antimoderno, disincantato e nostalgico). Il bafometto, quindi, è un libro singolare, certo, e molto legato all’epoca della sua concezione, ma al tempo stesso la sua ‘inattualità’ si rovescia, in qualche modo, nel suo contrario…

Quali sono state le tue maggiori difficoltà incontrate nella traduzione di questo testo?

Il bafometto è un testo che presenta due problemi principali, legati essenzialmente a due aspetti: l’oscurità di intere pagine (in particolare i lunghi monologhi di Teresa) e la particolarissima qualità della scrittura, che è parodica e a suo modo comica, ‘umoristica’, sin dall’incipit. Quando mi è stata chiesta una prova di traduzione, sulle prime pagine, mi sono concentrato soprattutto sugli aspetti stilistici e linguistici (il Prologo non pone problemi di comprensione insormontabili); ho cercato di mettere a punto una strategia di restituzione del “tono” del testo, e della sua “atmosfera”, adottando a mia volta la tecnica che mi pare Klossowski abbia ampiamente messo in opera per la sua riscrittura parodica della storia: il pastiche. Inizialmente ho persino (deliberatamente) abusato di desuetismi lessicali e morfologici e di costruzioni sintattiche arcaizzanti, dopodiché ho provato ad alleggerire il testo d’arrivo, facendo tesoro dei consigli (chirurgici) di Ena Marchi e di Giancarlo Maggiulli, che in fase di revisione mi hanno messo in guardia da certi eccessi. Le dolenti note sono arrivate con la parte centrale del testo, quella più densa dal punto di vista filosofico. Si tratta di un testo oscuro, oscurissimo, e il fatto che quel che è oscuro nell’originale debba restare – ovviamente – oscuro in traduzione non è di grande sollievo per il traduttore, che è comunque chiamato (per ragioni diciamo “deontologiche”) a capire il testo in tutte le sue sfumature, a capirlo profondamente e in dettaglio, così da poter poi eventualmente spalmare di oscurità ciò che ha chiarito (ma di un’oscurità acuminata, misterica, non dell’oscurità ottusa del traduttore che non ha capito e che riproduce l’originale alla lettera). Perciò, davanti a un libro del genere, così difficile e così traboccante di riferimenti eruditi, oltre che di giochi di rovesciamento ironico non sempre percepibili alla prima lettura, il traduttore è tenuto a diventare anche uno studioso, un esperto dell’opera e dell’autore con cui si confronta e delle discipline coinvolte nella narrazione. Questa è stata la difficoltà più ardua, l’ostacolo costante, cui ho cercato di sopperire rileggendo Klossowski (che per uno stranissimo caso avevo “incontrato” da adolescente: io non sono stato, da ragazzo, un lettore forte, ma Le leggi dell’ospitalità e La vocazione interrotta evidentemente mi attirarono con la loro aura di letture proibite). Ho consultato materiali disparati, chiedendo aiuto ad amici e conoscenti più eruditi di me in materia di teologia, di Templari, di simbologie massoniche, dell’opera teresiana e di testi gnostici (molto preziose sono state le dritte dell’ispanista Loris Tassi, quelle di Marco e Pietro Giovannoni, che mi hanno messo a disposizione la loro biblioteca teologica; e altrettanto preziosi sono stati i consigli stilistici di Ezio Sinigaglia, esperto di italiano antico e di pastiches). Un aiuto impagabile mi è venuto dall’edizione a cura di Luciano De Maria (, dalla quale ho cercato di non farmi condizionare, ma che mi è stata in alcuni casi di estremo “conforto” (in particolare là dove la sintassi si avvitava vorticosamente in volute e incisi e grappoli di subordinate, nelle pagine di più virtuosistica imitazione di due tipologie testuali particolarmente complesse: la controversia scolastica e il discorso mistico).

Klossowki è un autore oggi dimenticato?

Non credo di poter rispondere in modo obiettivo a questa domanda. Dal momento che da alcuni mesi ho la testa piena di Klossowski e sono circondato da una sorta di fan club klossowskiano, una vera e propria tifoseria, pensare che Klossowski sia un autore dimenticato mi sembrerebbe crudele perfino verso me stesso. In ogni caso, fosse anche un autore in parte dimenticato, questa iniziativa adelphiana servirà certamente a riportarlo in voga, almeno in Italia. Prima alludevo alla paradossale “attualità” di Klossowski, che non a caso è un autore molto caro a Roberto Calasso (il cui ultimo libro si intitolo, non a caso, L’innominabile attuale. Il risvolto è illuminante, in tal senso: «Ciò che avviene nel Bafometto è l'abbandono al mondo ridivenuto favola, dove il passato è intercambiabile con l'attuale – e dove forse la storia dei Templari è il massimo di attualità possibile».

Con quale altra opera klossowkiana sei ora alle prese?

Preferirei, per il momento, non svelare il segreto. Solo per scaramanzia…

Doriano Fasoli

(Febbraio 2018)



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