Giuseppe Girimonti Greco
è traduttore e saggista. Si occupa principalmente di Proust. Fra i suoi ultimi
lavori di traduzione: Vertigine di
Julien Green (Nutrimenti , Roma; premio Bodini 2017), Racconti di Marcel Proust (Clichy, Firenze 2017) e Fiabe di Charles Perrault (La Nuova
Frontiera Junior, Roma 2018), tutti e tre curati insieme allo scrittore Ezio
Sinigaglia, con il quale forma un collaudato sodalizio da alcuni anni.
Doriano Fasoli: Cosa racconta Il bafometto, l’ultimo romanzo di Pierre
Klossowski, appena pubblicato da Adelphi nella tua traduzione?
Giuseppe
Girimonti Greco:
Non è facile “raccontare” Il bafometto.
La parte più propriamente narrativa del testo è il lungo Prologo (uscito su rivista, autonomamente, già
nel 1964), che può essere considerato un bell’esempio di pastiche di
almeno tre tipologie testuali: il verbale di polizia, il saggio
storico-erudito, la narrazione alla Walter Scott. Klossowski ricostruisce
(reinventadola) la fosca vicenda del processo ai Templari (accusati, com’è
noto, di eresia, idolatria e sodomia), che portò rapidamente alla sospensione
dell’Ordine. I personaggi evocati sono in parte storici (Filippo il Bello,
Guglielmo di Nogaret, Jacques de Molay, ecc.), in parte fittizi: in una lettera
al critico Jean Decottignies che è stata pubblicata in appendice a una
monografia dello stesso Decottignies (Klossowski,
notre prochain, H. Veyrier, Paris 1985), e che in questa edizione abbiamo
riprodotto a mo’ di postfazione («Note e chiarimenti sul Bafometto»), Klossowski dice di aver accarezzato, già a partire dal
1964, «il progetto di un romanzo storico che rievocasse le circostanze della
soppressione dell’Ordine dei Templari»; tuttavia, molto presto lo scrupolo di
attendibilità storica cede il passo a un progetto di altra natura; l’idea di
partenza ridesta in lui «il ricordo di una remota lettura di Walter Scott»,
risalente alla prima adolescenza. Infatti, «i nomi di due dei protagonisti del Prologo – Bois Guilbert e Malvoisie –
sono mutuati da quelli dei due Templari che compaiono in Ivanhoe» (Brian de Bois-Guilbert e Philip de Malvoisin). Ma
Klossowski si diverte a inserire nel suo racconto anche altri personaggi dai
nomi quanto mai “parlanti”: Valentine de Saint-Vit (acerrima nemica del Tempio)
e Ogier de Béauseant (il bell’efebo che porta la discordia in seno all’Ordine).
Sulla questione dell’onomastica klossowskiana il discorso sarebbe troppo
tecnico; mi limiterò a notare, en passant,
che vit, nel francese medievale
(quello dei fabliaux, per intendersi), indica il membro virile (dal
latino vectis, “leva”, “stanga”,
“sbarra” e simili); e che séant è
sinonimo colloquiale di derrière, fessier, postérieur; cosicché, volendo, ci si sarebbe potuti avventurare in
esperimenti onomastici – per così dire – goliardici: “Valentina della Santa
Verga” e “Oggieri di Belsedere”; soluzioni scartate a monte, ché alla lunga
avrebbero sicuramente stancato l’orecchio. Come dicevo, solo nel Prologo
abbiamo una narrazione vera e propria, molto tesa, peraltro; gotica, cupa e…
corrusca (per usare un aggettivo caro a Paolo Poli, che tanto amava le cose
neogotiche, il finto Medioevo); Klossowski la definisce «favola allegorica,
fiaba orientale», apologo gnostico «che risente (Blanchot dixit) del modello del racconto orientale del Vathek di Beckford»; personalmente, io ho letto Il bafometto, sin dall’inizio, come un
vero e proprio conte brun: ovvero,
come una narrazione ricca di momenti sublimi e grotteschi insieme, e
caratterizzata da un andamento policier
molto riuscito (visto che sulla “tenebrosa vicenda” che distrugge l’Ordine
dall’interno indaga un vero e proprio detective: il Commendatario, abilissimo
nel trovare il bandolo della matassa e nel venire a capo del mistero, salvo poi
decidere di nascondere per sempre le “tracce” dello scandalo).
Quali sono gli ingredienti della storia?
Gli “ingredienti” del
libro sono disparati, ed è Klossowski stesso a metterli a fuoco, con grande
precisione auto-esegetica, nei vari paragrafi che scandiscono il testo che
abbiamo ripreso in appendice. Anzi, prenderò spunto proprio da questa
postfazione, per non perdere il filo: in primo luogo la dimensione
eminentemente “teatrale” del testo, su cui gli studiosi di Klossowski insistono
da sempre (anche per il resto della sua opera); l’ambientazione storica, di cui
abbiamo già detto (e che implica un approccio ironico, imposto dalla necessità
di reinventare in chiave fantastica e allucinatoria un Medioevo misterico al
tempo stesso sublime e kitsch); e ancora: i contenuti teologici e l’influsso
dei grandi eresiarchi gnostici (in particolare Basilide e Carpocrate); la
ricerca iconografica che sta alla base di molte delle invenzioni presenti nel
testo (a partire dalla rappresentazione dell’idolo stesso, molto lontana
dall’immagine a tutti nota: il demone androgino, cornuto e barbuto, tanto caro
agli amanti del fantasy, delle letture pseudo-esoteriche e dei giochi di
ruolo); la dimensione disinvoltamente intertestuale, che prende le mosse dagli
atti del processo e dalle Scritture per coinvolgere testi lontanissimi nello
spazio e nel tempo (dalle opere degli gnostici alle lettere di Santa Teresa,
dalle opere di Nietzsche alle altre opere klossowskiane, ironicamente
richiamate en abyme); la traduzione
in racconto di «quel simulacro di dottrina che è l’Eterno Ritorno nietzschiano»;
il topos gnostico della metempsicosi; il tema (a sua volta di matrice
gnostica) del raggiungimento della santità attraverso l’abisso dell’abiezione
(tema ossessivo anche in Bataille, autore per molti versi vicino a Klossowski);
e infine l’ingrediente forse meno vistoso: i rimandi (perlopiù parodici) ai
rituali massonici. Klossowski parla di «stile massonico della commemorazione»:
i rituali iniziatici su cui si indaga nel Prologo, infatti, e anche
l’esecuzione rituale del bell’Ogier e di sua zia Valentine (rispettivamente
pomo della discordia e dark lady della storia), sono quanto mai oscuri,
ma al tempo stesso appaiono carichi di significati simbolici ineludibili.
L’autore, nella postfazione, spiega l’importanza di questo aspetto: «Nel mio
libro tutto questo, presentato in chiave di spettacolare parodia, […], conserva
intatta la gravità simbolica delle parole e dei gesti deliberatamente assurdi
previsti dal rituale, che assolvono quindi alla funzione di mettere alla prova
la capacità di distinguere il vero dal falso ecc.» Ecco: in questo passo di
limpido auto-commento Klossowski svela il nucleo intimamente paradossale della
poetica che sta alla base del Bafometto e di tante altre sue opere. Ed è
proprio questa mescolanza di oscurità e evidenza, di «gravità simbolica» e
parodia, di verità e finzione (rituale e teatrale) a costituire il principale
problema ai fini della resa, della restituzione di un intero immaginario
(surreale, paradossale, assurdo) da parte del povero traduttore (ma su questo
punto tornerò).
Ma vorrei soffermarmi su
un altro aspetto rilevante del testo: la sua drammaturgia, ovvero
(l’espressione, volutamente ambigua e polisemica, è di Klossowski stesso) il «teatro
di società» cui assistiamo leggendo intere pagine del Bafometto. Cedo di nuovo la parola all’autore: «Il tutto fu scritto
molto rapidamente, come sotto dettatura, o meglio: come se stessi descrivendo uno spettacolo cui assistevo, senza
omettere neanche una delle parole che i vari
gesti degli attori mi suggerivano, tanto da avere l’impressione di essere
lì, in loco, ad ascoltarli»; molto
teatrale è tutta la parte centrale del libro, che alterna parti più narrative e
descrittive (oniriche, visionarie, surreali, per ambientazione e temi e
atmosfere) a corpose sezioni composte da lunghi monologhi e serrati dialoghi
fra i “Soffi” in scena (ovvero i simulacri disincarnati dei personaggi evocati
nel Prologo, che interagiscono con altri simulacri). E ancora: a proposito
dell’epilogo (che esce in anteprima su rivista come esercizio di prosa
drammatica), Klossowski ci svela: «… nell’imbastire l’azione narrativa di
questo libro, ho avuto l’impressione di assistere a uno spettacolo teatrale».
Nel dialogo fra l’efebo (un personaggio dall’identità incerta, un incrocio un
anonimo “paggio”, Ogier, Santa Teresa d’Ávila e chissà quanti altri simulacri)
e Fra’ Damiens (controfigura dell’autore), Klossowski riprende i temi esposti
nel Prologo e sviluppati nella parte centrale del testo, e li rielabora secondo
una drammaturgia particolarmente complessa. Come in un testo pensato per la
scena, abbiamo dettagliate indicazioni di regia («Ecco che, di nuovo, si alza
il sipario: questa volta su una camera della foresteria della Commenda, […]. In
questa camera ampia, […] si vede un ospite coricato. Ai piedi del letto, un
ragazzo molto giovane, con addosso una serica livrea da paggio medioevale,
giocherella con un rosario»); abbiamo giochi di specchi e mises en abyme tipicamente modernisti, il tutto all’interno di una
sistematica, spiazzante alterazione del rapporto fra realtà e finzione. Il
narratore, nella «scena» che chiude l’epilogo, a un certo punto si domanda se
il ragazzo non stia recitando a memoria «quella specie di omelia»; tutto, la
sua manovra seduttiva, le sue elucubrazioni teologiche, i paradossi del suo
argomentare, i gesti… tutto sembra confermarlo. Folgorante, in tal senso, una
delle più sprezzanti (e rivelatrici) battute del ragazzo: «[…] credete forse
che avrei anche solo lontanamente potuto pensare di parlarvi in tal modo se non
fossi che un modesto figurante di commedia?»
Perché Adelphi ha deciso oggi di riproporlo?
Immagino che l’Editore
abbia voluto riproporre ai lettori un autore per certi versi “storicamente”
legato al suo catalogo. Nel 1973 Adelphi ha pubblicato, di Klossowski, Le dame romane (nella traduzione di
Giancarlo Marmori). Si tratta di un titolo risalente al 1968, molto
rappresentativo (rispetto alla produzione klossowskiana) e, soprattutto, molto
in linea con temi e problemi che sono sempre stati centrali nel catalogo
Adelphi. Anche in questo caso, Klossowski parte da un “caso”, da una “tenebrosa
vicenda”, uno scandalo a sfondo sessuale in cui si mescolano, proprio come nel Bafometto, erotismo, ritualità, parodia,
teatralità e blasfemia; «con la sua rabdomantica sottigliezza, con una
sensibilità pronta a captare aspetti ambigui e segreti dell’antichità» (così il
risvolto), Klossowski conduce (seguendo Bachofen) un’indagine sui principi
costitutivi del matriarcato e sul mistero dei misteri (tema ossessivo della sua
opera narrativa, oltre che saggistica): le «leggi dell’ospitalità».
E ancora: nel 1981
Adelphi ha pubblicato, nella collana «Saggi», Nietzsche e il circolo vizioso (nella traduzione di Enzo Turolla;
titolo poi ripreso nel 2013 nella collana «Saggi. Nuova serie»). In quel lavoro
Klossowski tenta, in modo molto persuasivo, di eludere la dicotomia lucidità/follia
in cui si erano impelagati gli esegeti di Nietzsche, partendo dal presupposto
che tutto il pensiero di Nietzsche «ruota attorno al delirio come attorno al
proprio asse». A questo proposito posso fare due considerazioni di carattere
generalissimo: Adelphi è una casa editrice legata a doppio filo alla
Nietzsche-Renaissance (basti citare Roberto Calasso, «Monologo fatale»,
postfazione all’edizione adelphiana dell’Ecce
homo del 1969), il che significa che un autore così rilevante, nel quadro
di un radicale ripensamento della lezione nietzschiana, non poteva certo
mancare in un catalogo così orientato, dal punto di vista storico-filosofico. E
ancora: “Federico” (che nel libro compare, a sorpresa, sotto le spoglie
perturbanti di un goffo formichiere) è un personaggio-chiave dello stesso Bafometto; un personaggio la cui voce si
sovrappone da un lato a quella di Teresa (che parla con accenti ora teresiani,
ora gnostici, ora nietzschiani, appunto), e dall’altro a quella di Klossowski
stesso (che trova il modo di auto-rappresentarsi nel testo, o meglio: di
manifestarsi, in vari modi). L’intero libro è attraversato dalla presenza di
“Federico” (che, peraltro, è oggetto anche di un malinteso comico-grottesco
molto riuscito, dal momento che i “Soffi” dei Templari, ignari dei giochi
anacronistici congegnati dal loro creatore, prendono questo «filosofo che viene
dal futuro» per Federico II di Svevia, da loro percepito come acerrimo nemico e
poi, apertamente, come veridica incarnazione dell’Anticristo). Ma basterà
citare un estratto dal risvolto di Nietzsche
e il circolo vizioso, per cogliere
le profonde affinità che legano l’opera saggistica di Klossowski ai temi del Bafometto: «più che l’articolarsi dei concetti,
[Klossowski] segue le “fluttuazioni d’intensità” in quella “tonalità dell’anima” che era Nietzsche stesso – e il libro si
intesse alle pagine di Nietzsche come un perpetuo commento, un’eco dove le
parole dell’autore stingono su quelle dell’esegeta e viceversa. Molte sono le
sorprese che si incontreranno per questa via: per esempio i frammenti politici di
Nietzsche, che per lo più gettano i lettori nei più infausti equivoci o – nel
caso migliore – nel totale imbarazzo, vengono qui letti in modo finalmente
convincente, come la più precisa descrizione di una società industriale
avanzata: “Le domande di Nietzsche descrivono ciò che noi ora stiamo vivendo”.
Quanto all’eterno ritorno, quel “circolo vizioso” a cui allude il
titolo, non lo troveremo qui allineato fra le tante tesi dei
manuali di storia della filosofia, ma trattato innanzitutto come esperienza –
avvicinabile, come l’esperienza misterica, solo nei termini dell’enigma. Infine
tutto il periodo della “euforia di Torino”, con l’efflorescenza dei “biglietti
della follia”, viene qui raccontato dal narratore più affine
che il delirio di Nietzsche abbia trovato sino a oggi».
Molto adelphiani, del
resto, sono diversi altri elementi che attraversano da cima a fondo questo
libro così singolare: la spiccata vocazione al paradosso della teologia
klossowskiana, che forse meriterebbe di essere riletta e rimeditata; la natura
squisitamente dionisiaca di Ogier, di Teresa (nella versione klossowskiana,
ovviamente) e dell’idolo stesso (tre simulacri che vanno considerati insieme, e
che, del resto, nel testo si manifestano spesso fusi insieme come in una sorta
di Trinità rovesciata); e, soprattutto, il dialogo (solo apparentemente
conflittuale, in realtà profondamente dialettico) fra epoche apparentemente
remote; Klossowski ama molto questo genere di corto-circuiti: «Il Gran Maestro
[Jacques de Molay] rappresenta qui la sensibilità gotica, in contrapposizione
alla santa di Ávila che scaturisce dal mondo barocco: il giovane Ogier, nella
rotazione del suo corpo immarcescibile, sta in qualche modo a rappresentare la
transizione dal pensiero ogivale a quello, spiraleggiante, del barocco, che
reintroduce la sensualità nell’esperienza contemplativa dei mistici spagnoli».
In ogni caso, questo caleidoscopio storico-filosofico è complicato dalla
prepotente presenza della contemporaneità (ovvero della voce di Klossowski
stesso, che si autorappresenta nei panni di teologo perverso, di allievo dei
grandi eresiarchi gnostici, di libertino parigino del 1964, al tempo stesso
moderno e antimoderno, disincantato e nostalgico). Il bafometto, quindi, è un libro singolare, certo, e molto legato
all’epoca della sua concezione, ma al tempo stesso la sua ‘inattualità’ si
rovescia, in qualche modo, nel suo contrario…
Quali sono
state le tue maggiori difficoltà incontrate nella traduzione di questo testo?
Il
bafometto
è un testo che presenta due problemi principali, legati essenzialmente a due
aspetti: l’oscurità di intere pagine (in particolare i lunghi monologhi di
Teresa) e la particolarissima qualità della scrittura, che è parodica e a suo
modo comica, ‘umoristica’, sin dall’incipit. Quando mi è stata chiesta una
prova di traduzione, sulle prime pagine, mi sono concentrato soprattutto sugli
aspetti stilistici e linguistici (il Prologo non pone problemi di comprensione
insormontabili); ho cercato di mettere a punto una strategia di restituzione
del “tono” del testo, e della sua “atmosfera”, adottando a mia volta la tecnica
che mi pare Klossowski abbia ampiamente messo in opera per la sua riscrittura
parodica della storia: il pastiche. Inizialmente ho persino
(deliberatamente) abusato di desuetismi lessicali e morfologici e di
costruzioni sintattiche arcaizzanti, dopodiché ho provato ad alleggerire il
testo d’arrivo, facendo tesoro dei consigli (chirurgici) di Ena Marchi e di
Giancarlo Maggiulli, che in fase di revisione mi hanno messo in guardia da
certi eccessi. Le dolenti note sono arrivate con la parte centrale del testo, quella
più densa dal punto di vista filosofico. Si tratta di un testo oscuro, oscurissimo, e il fatto che quel che è
oscuro nell’originale debba restare – ovviamente – oscuro in traduzione non è di grande sollievo per il traduttore,
che è comunque chiamato (per ragioni diciamo “deontologiche”) a capire il testo
in tutte le sue sfumature, a capirlo profondamente e in dettaglio, così da
poter poi eventualmente spalmare di oscurità ciò che ha chiarito (ma di
un’oscurità acuminata, misterica, non dell’oscurità ottusa del traduttore che
non ha capito e che riproduce l’originale alla lettera). Perciò, davanti a un
libro del genere, così difficile e così traboccante di riferimenti eruditi,
oltre che di giochi di rovesciamento ironico non sempre percepibili alla prima
lettura, il traduttore è tenuto a diventare anche uno studioso, un esperto
dell’opera e dell’autore con cui si confronta e delle discipline coinvolte
nella narrazione. Questa è stata la difficoltà più ardua, l’ostacolo costante,
cui ho cercato di sopperire rileggendo Klossowski (che per uno stranissimo caso
avevo “incontrato” da adolescente: io non sono stato, da ragazzo, un lettore
forte, ma Le leggi dell’ospitalità e La vocazione interrotta evidentemente mi
attirarono con la loro aura di letture proibite). Ho consultato materiali
disparati, chiedendo aiuto ad amici e conoscenti più eruditi di me in materia
di teologia, di Templari, di simbologie massoniche, dell’opera teresiana e di
testi gnostici (molto preziose sono state le dritte dell’ispanista Loris Tassi,
quelle di Marco e Pietro Giovannoni, che mi hanno messo a disposizione la loro
biblioteca teologica; e altrettanto preziosi sono stati i consigli stilistici
di Ezio Sinigaglia, esperto di italiano antico e di pastiches). Un aiuto
impagabile mi è venuto dall’edizione a cura di Luciano De Maria (, dalla quale
ho cercato di non farmi condizionare, ma che mi è stata in alcuni casi di
estremo “conforto” (in particolare là dove la sintassi si avvitava
vorticosamente in volute e incisi e grappoli di subordinate, nelle pagine di
più virtuosistica imitazione di due tipologie testuali particolarmente
complesse: la controversia scolastica e il discorso mistico).
Klossowki è un autore oggi dimenticato?
Non credo di poter rispondere in modo
obiettivo a questa domanda. Dal momento che da alcuni mesi ho la testa piena di
Klossowski e sono circondato da una sorta di fan club klossowskiano, una vera e
propria tifoseria, pensare che Klossowski sia un autore dimenticato mi
sembrerebbe crudele perfino verso me stesso. In ogni caso, fosse anche un
autore in parte dimenticato, questa iniziativa adelphiana servirà certamente a
riportarlo in voga, almeno in Italia. Prima alludevo alla paradossale
“attualità” di Klossowski, che non a caso è un autore molto caro a Roberto
Calasso (il cui ultimo libro si intitolo, non a caso, L’innominabile attuale. Il risvolto è illuminante, in tal senso: «Ciò
che avviene nel Bafometto è
l'abbandono al mondo ridivenuto favola, dove il passato è intercambiabile con
l'attuale – e dove forse la storia dei Templari è il massimo di attualità
possibile».
Con quale altra opera klossowkiana sei ora alle
prese?
Preferirei, per
il momento, non svelare il segreto. Solo per scaramanzia…
Doriano Fasoli
(Febbraio
2018)
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