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6 ottobre 2017

«La pratica del colloquio clinico. Un’intervista a Massimo Recalcati» di Doriano Fasoli



Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti in Italia, è membro analista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi e direttore dell’IRPA (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata). Insegna alle Università di Pavia e di Verona. Le sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Nelle edizioni Raffaello Cortina ha pubblicato con successo L’uomo senza inconscio (2010), Cosa resta del padre? (2011), Ritratti del desiderio (2012), Non è più comeprima (2014), oltre a due volumi su Jacques Lacan (2012 e 2016).

Doriano Fasoli: Perché hai deciso oggi di dare alle stampe (presso Raffaello Cortina) questo libro che raccoglie scritti giovanili: La pratica del colloquio clinico?

Massimo Recalcati: In realtà non si tratta di scritti ma di lezioni orali. Questo libro raccoglie un intero corso universitario che tenni ad Urbino nel 1999 presso la Facoltà di Psicologia. Il fatto che mi sia deciso solo oggi a pubblicarne una versione scritta, risultato di una operazione di sbobinatura fatta allora dai alcuni miei allievi, dipende da una piccola fortuna che non ha smesso di circondare quel corso. Era in quella Università il primo corso clinico che veniva dedicato a Lacan. Fu per me l’occasione – insegnando Teoria del colloquio clinico – di mettere alla prova della pratica la dottrina di Lacan. Di offrire agli studenti non tanto l’immagine di un Lacan teorico della struttura, del linguaggio, del soggetto, eccetera, ma quella di un Lacan clinico. Il successo immediato e imprevisto delle prime dispense del corso continuò stranamente negli anni. Non avevano la forma di un libro ma quella fatta in proprio tipica, appunto, delle dispense universitarie.  La loro piccola fortuna è che per tutti questi anni non hanno mai smesso di circolare di mano in mano. Al punto che mi sono deciso a trasformarle in un libro che omaggia quei formidabili anni… Il lettore troverà la mia voce che commenta la voce di Lacan. Si tratta di lezioni ricche di clinica, di esperienza, di casi che la passione di quegli anni riversava in aula come fosse un vento di primavera o un vino prelibato… Sarebbe davvero difficile raccontare quella atmosfera che si creava spontaneamente in ogni lezione. L’aula magna dei Collegi strapiena, gli studenti seduti ovunque, un silenzio assoluto, una fame collettiva di psicoanalisi… È stato per me molto emozionante essere per questi giovani studenti un ponte che li portava verso lo studio di Lacan. In fondo è per me, per quello che sono stato in quegli anni e anche per loro, per quei volti che non dimentico, che mi sono deciso dopo tutto questo tempo a non disperdere quella esperienza e di tradurla in un libro.

Quando avvenne il tuo incontro con il pensiero di Lacan e in che senso ti ha cambiato la vita?

Dopo la discussione della mia prima laurea in filosofia. Passai l’estate a Milano a leggere Lacan nella grande aula semideserta della Biblioteca Sormani. Lessi per primi gli Scritti. Una lettura difficile, direi impossibile. Ma sufficiente per causare il mio desiderio di sapere e il mio amore per Lacan. Gli Scritti sono un condensato densissimo del lavoro in miniatura che egli compie di anno in anno nei suoi Seminari. Imparai abbastanza presto che senza la conoscenza dei Seminari gli Scritti sono, se non proprio inaccessibili, almeno mutilati di una parte sotterranea che dà loro linfa. Ho già detto da qualche parte che la mia prima impressione leggendo Lacan fu quella di imbattermi in un muro. Solo più tardi ritrovai – nel Seminario XX – il suo neologismo che accosta il muro all’amore: amur. Di questo in effetti si trattò: il mio incontro con il testo di Lacan fu un incontro d’amore; dunque, come tale, destinato a lasciare un segno, a durare, a restare nel tempo. L’amore non è infatti, come ricorda Lacan stesso, attraverso Paul Éluard, il «duro desiderio di durare»? «Ancora» – encore – non è forse la sua parola fondamentale? Sono rimasto fedele a Lacan, al mio amore per Lacan in tutti questi anni, ma a mio modo. La fedeltà nell’amore non è mai la ripetizione monocorde di un’abitudine, di un linguaggio che diventa codice dispotico, dogmatico, autoritario, privo di pensiero. Uno dei grandi insegnamenti di Lacan è l’incoraggiamento all’eresia come forma radicale dell’eredità. «Fate come me, non imitatemi», usava dire ai suoi allievi più scolasticamente fedeli. Nel rapporto con l’insegnamento di Lacan era ed è in gioco per me il grande tema dell’eredità. Innanzitutto di quella freudiana. Lacan ne ha dato testimonianza: ereditare non significa vivere di rendita ma rischiare il proprio, riconquistare, fare nostra quella che è stata l’impresa di Freud. Per questo ai miei occhi nulla tradisce più il messaggio di Lacan della necrofilia dogmatica di alcune scuole che si rifanno al suo pensiero. Essere lacaniano per me non è una dichiarazione settaria di fede, ma l’esperienza, sempre rinnovata, di una fedeltà amorosa che sa durare nel tempo. Anche quando, come mi è accaduto negli ultimi anni, il mio lavoro mi ha portato su strade che Lacan non ha mai frequentato.