2 dicembre 2010

«Poesia e critica» di Nicola D'Ugo





È proprio la risposta, mammina
cara, che non cerchiamo piú;

residui individui come siamo
di un tempo vecchio e assieme
di uno nuovo che ancora non svela
la sua forma. Che non è piú né mito
né storia né progresso.

Franco Marcoaldi¹


Alla memoria di Allen Ginsberg e Gianni Martella

In un tempo in cui si va velocizzando la fruizione estetica (anche delle opere d'arte), ad alcuni anziani artisti e poeti, come nei bei tempi andati, vengono profferti onori nelle piú varie occasioni, dalla mostra rappresentativa di un percorso individuale e di un'epoca, alla presentazione di un libro, a cittadinanze e lauree honoris causa. Questi avvenimenti, apparentemente dedicati alla cultura, ben poco hanno a che fare con la reale fruizione delle opere dei festeggiati e, come barlumi di poca fonte, producono un impercettibile effetto sulla collettività, che può riconoscersi piuttosto in una perniciosissima omissione: i promotori e gli interpreti dell'evento celebrano un passato che è, sí, ancora in vita, ma con il fine non della rivalsa dell'intelligenza e della sensibilità dalle stradine e dai viottoli dell'oblio bensí della garanzia –autopromossa mediante il rito culturale dall'accademico, dal politico, dall'imprenditore, dall'operatore culturale d'occasione– di una spudorata, e talvolta davvero inconsapevole, impunità da parte di quegli italiani i quali all'arte e alla letteratura non sono del tutto restii. Questi italiani vengono di fatto ingannati, giacché la vera letteratura è entro le regole della collettività, e vi dimora bene, solo quando quest'ultima è serena. Non mi pare di riscontrare attualmente in Italia una tale serenità.

22 novembre 2010

«'Hypatia of Alexandria' di Maria Dzielska» di Luciano Albanese


Maria Dzielska,
Hypatia of Alexandria,
Harvard University Press,
Cambridge (Mass.)-London 1996.
Translated by F. Lyra.
XII-157 pp. EUR 19.45
Il saggio è costruito sulla base di una netta contrapposizione fra la "leggenda di Ipazia” e la realtà storica. La prima trova spazio per lo più nelle opere a carattere eminentemente letterario. Secondo questa tradizione, Ipazia è soprattutto la "martire pagana”, nel duplice significato di testimone del tramonto del mondo classico e di vittima dell'intolleranza cristiana. La sua fine tragica è una sorta di preludio al Medioevo, alla barbarie dei "secoli bui”. La parte introduttiva del volume è dedicata espressamente all'esame degli aspetti più caratteristici di questa linea interpretativa.

In una rapida, ma efficace ricognizione, nella quale viene idealmente ripresa e portata a compimento l'opera di R. Asmus (Hypatia in Tradition und Dichtung, Berlin 1907), sono esaminati, innanzitutto, gli autori del settecento inglese e francese che hanno maggiormente contribuito alla formazione della leggenda, facendo di Ipazia il simbolo della ragione contro l'oscurantismo della Chiesa: Toland, Voltaire, Gibbon, Fielding. L'attenzione si sposta poi sull'ottocento, con Leconte de Lisle, Gérard de Nerval, Maurice Barrès, Charles Kingsley. Ipazia diventa una eroina romantica, che incarna «lo spirito di Platone nel corpo di Afrodite», e affronta la plebaglia cristiana armata solo di cultura e di bellezza. Seguono i positivisti inglesi e americani, come J. W. Draper, che fanno di Ipazia una antesignana di Marie Curie immolata sull'altare della scienza: interpretazione ripresa dagli storici della scienza, come Van der Waerden o, più recentemente, M. Alic e il Dictionary of Scientific Biography.

6 novembre 2010

«Morte di un poeta Beat. Gregory Corso è morto nel gennaio scorso» di Nicola D'Ugo


Allen Ginsberg e Gregory Corso (foto di Elsa Dorfman)
Aveva settant’anni Gregory Corso, il poeta più europeista della Beat Generation, il movimento che dagli anni cinquanta aveva aperto la via alla contestazione giovanile in America. Si è spento a gennaio all’ospedale di North Memorial Medical Center di Robbinsdale, nel Minnesota, dove a settembre si era trasferito a casa della figlia Sheri Langerman, un’infermiera, per un tumore alla prostata.

Poeta autodidatta (lesse il russo Dostoevskij, il francese Stendhal e l’inglese Percy Shelley in carcere), il suo linguaggio è considerato tutt’oggi il più onirico della Beat Generation, addirittura il più ingenuo e naïf.

29 settembre 2010

«Nietzsche a Capri» di Luciano Albanese


Friedrich Wilhelm Nietzsche
negli anni Settanta dell'Ottocento
Nietzsche passò tutto l’inverno del 1876-77 a Sorrento, in compagnia di Paul Ree e della sua amica di vecchia data Malwida von Meysenbug, che si era stabilita in questa città fin dal 1862 e presso la quale trovò ospitalità. In questo periodo Nietzsche visitò tutto il territorio circostante, e naturalmente fece anche una escursione a Capri.

Nietzsche aveva allora trentadue anni. Dal 1869 era diventato professore di filologia classica all’Università di Basilea, ed era famoso per la pubblicazione nel 1872 della Nascita della tragedia e per le violente polemiche che l’avevano seguita. Tuttavia a partire dal 1876 le sue condizioni di salute erano peggiorate, al punto che nel 1879 lo spingeranno a lasciare l’insegnamento. Il viaggio a Sorrento e la visita a Capri si situano in un momento critico della vita di Nietzsche, nel quale egli, sostanzialmente, stava prendendo una decisione importante: quella di cessare la sua attività di filologo per diventare un filosofo, ma un filosofo di tipo particolare, in cui la vita, l’azione e il linguaggio del corpo avrebbero costituito il centro e lo stimolo per ogni riflessione.

6 settembre 2010

«L'infanzia riscattata del bardo Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo


Dylan Thomas,
Ritratto dell'artista da cucciolo
e altri racconti
,
Einaudi, Torino 1999.
A cura di Ariodante Marianni.
268 pp. EUR 7.75
«E là io mi addormentai sul montagnoso
panciotto di mio zio, e, mentre dormivo,
–Chi va là?– gridò Sentry alla luna che volava.»
Dylan Thomas, «Una storia» (1953)

Di pochi scrittori di questo secolo si sa e si è scritto tanto quanto di Dylan Thomas (Swansea 1914 – New York 1953). Un’attrazione straordinaria ha fatto sì che tutto ciò che lo riguardasse fosse pervaso da un senso di leggenda. Capita così che ogni scrittore aspiri in qualche modo a dire la sua sull’autore, come è evidentemente il mio caso. In altri casi –penso a Bob Dylan– si è preso il nome dell’autore per farne il proprio nome d’arte, o –come è il caso di Dylan Dog– ci si è ispirati per il titolo di un fumetto.

Questo autore lo vorrebbero raccontare in molti. Purtroppo, come nel caso di un ampio articolo di Pietro Citati pubblicato su La Repubblica un paio di anni fa, ognuno descrive il poeta a modo suo, infischiandosi di cosa accadde nella vita di Thomas e nella sua opera. Da un certo punto di vista, questa posizione è legittima, nella misura in cui si vuole sentirsi vivi all’ombra semovente d’uno dei grandi bardi del Novecento, scherzoso e ridanciano e cupo come pochi altri colleghi. Del resto il personaggio pare uscito da un film: povero in canna, ubriacone, donnaiolo, vissuto in uno sperduto paesino gallese di duecento anime e diventato famoso in tutto il mondo.

«Gli eroi e antieroi di Raymond Queneau. 'I fiori blu'» di Nicola D'Ugo


Raymond Queneau,
I fiori blu,
Einaudi, Torino 1984.
Traduzione di Italo Calvino.
277 pp. EUR 14.46
«Si avvicinò ai merli per considerare
un momentino la situazione storica.»
Raymond Queneau, I fiori blu (1965)

Vi sono vari romanzi del Novecento che raccontano storie di gente comune e di eroi. Per uno scrittore, alcuni di questi raccontano storie come altre, che si perdono nei rivoli delle possibilità delle nostre vite o delle nostre fantasticherie. A volte vorremmo ripetere le gesta di quel personaggio qualsiasi avviluppato di nebbie e oscurità, che una lucentezza improvvisa, una chiarezza natalizia, fatta di festoni e palle di Natale accese, rende invidiabile per un certo tepore che abbiamo conosciuto in un momento della nostra esistenza; a volte, più trasognanti, vorremmo essere quel tale eroe che compie gesta straordinarie e traccia un segno netto nella storia dell’uomo e delle sue possibilità. Questi due tipi di uomini e personaggi la critica letteraria, che si è autorizzata a descrivere la letteratura degli uomini, li ha voluti chiamare eroi e antieroi. Nel Novecento non vi sono solo gli antieroi (gli uomini comuni costretti dai loro limiti virtuali), ma anche gli eroi dell’antichità riproposti da certi gialli e da certa fantascienza, che i nomi di Maigret e Superman rappresentano in maniera esemplare. Questi eroi non sono invincibili, ma, come Achille, hanno una sorta di loro tallone, sia esso la kryptonite, o qualche pistolettata o beffa criminosa imprevista dal protagonista.

10 marzo 2010

«'Cathay' di Ezra Pound» di Nicola D'Ugo


La copertina della prima edizione di Cathay
Il primo aprile 1977 compariva su The Times Literary Supplement, in traduzione inglese, un articolo di Gianfranco Contini su Ezra Pound, che così recitava:

Il punto dolente è proprio questo: uno scrittore che è stato un traduttore principe, non soltanto dalle quasi per tutti inverificabili lingue dell'Estremo Oriente, ma da territorî familiari, quale che fosse la sua comprensione della lettera (basti citare come esempio minimo la parafrasi del finale di Inferno XXVIII in Near Perigod), non è poeticamente fruibile in traduzioni italiane. Non certo che le versioni manchino, basti menzionare a titolo di lode, a parte quelle della figlia esegeticamente capitali, il fedelissimo Alfredo Rizzardi e l'impegnato Giovanni Giudici. Ma troppi, anche di firme celebrate, si sono cimentati alla spicciolata con Pound per omaggio e come per una sorta di gioco di società. . . . Non esito a dire che [queste tentazioni approssimative] o distorcono la lettera o lasciano svaporare la poesia. («Ezra Pound e l'Italia», in Ultimi elzeviri ed esercizî, Einaudi, Torino 1989, pp. 267-268).

2 febbraio 2010

«'Poesie' di Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo


Uno dei poeti mitici del Novecento, il più stimato in lingua inglese da Montale («ultimo bardo» lo definì Attilio Bertolucci), Dylan Thomas è stato recentemente riproposto, rigorosamente con testo a fronte, al lettore italiano dalla casa editrice Tea. Si tratta, salvo qualche aggiunta, delle traduzioni di Roberto Sanesi accresciute più volte da Guanda a partire dal 1954, l'anno dopo la morte del poeta, avvenuta accidentalmente per assunzione di alcool e farmaci, all'età di trentanove anni.

A soli vent'anni aveva pubblicato la sua prima raccolta di versi. A ventidue la seconda. Sue passioni principali erano la poesia e le donne, la conversazione e l'alcool, e l'accanita lettura di cronaca nera. Poco prima di morire aveva curato la raccolta fondamentale, e mai per intero tradotta, Collected Poems 1934-52.

«'Il libro delle preghiere' (a cura) di Enzo Bianchi» di Nicola D'Ugo


Enzo Bianchi (a cura di),
Il libro delle preghiere,
Einaudi, Torino 1997.
XXII-315 pp. EUR 8.50
Che senso ha oggi pregare? Basta affermare, come fa Enzo Bianchi, curatore del volume, che la «preghiera è anzitutto un fenomeno umano» e «proprio per questo stupisce che ancora oggi il fatto di pregare susciti tanti sospetti», perché si possa essere interessati alla preghiera al punto da elevarla a statuto di «genere» letterario? Non è forse un «fatto» essenzialmente umano anche dire le parolacce, bestemmiare, calunniare, diffamare, vilipendere? E, ancora, non è essenzialmente umano inventare i grandi congegni distruttivi che hanno segnato la storia di questo secolo?

Il rapporto fra poesia e preghiera, avvertito da Enzo Bianchi nella breve introduzione, si muove dalla distinzione fra magia e preghiera, fra l'esercitare un potere per mezzo della parola e il riconoscere che la «preghiera invece … in tutte le sue forme esprime la non-disponibilità dell'esistenza, il suo non essere immediatamente fruibile da parte dell'uomo, afferma che la vita è al cospetto di un Altro». Ma un fine conoscitore dei testi biblici, il canadese Northrop Frye, indicava, proprio nella differenziazione fra poesia e magia, il carattere di tramite del poeta fra l'universo e gli altri uomini.

«'Otello' di William Shakespeare» di Nicola D'Ugo


William Shakespeare,
Otello,
Feltrinelli, Milano 1996.
A cura di Agostino Lombardo.
Testo originale a fronte.
VIII-304 pp. EUR 8.50
Una domanda che ci si pone rispetto alla traduzione di un classico di cui abbondino le traduzioni novecentesche riguarda la necessità di una nuova traduzione. All’uomo di cultura, e parimenti al lettore, non interessano se non marginalmente le questioni editoriali, che vogliono che una casa editrice, in questo caso Feltrinelli, pubblichi l’intera opera di un grande autore del passato, in questo caso quella shakespeariana, tradotta da un insigne letterato, Agostino Lombardo. Lo fece nei decenni scorsi la Rizzoli con le traduzioni di Gabriele Baldini, optando per una soluzione, quella prosastica, che, in un certo qual modo, può lasciare interdetto il lettore anglofono, abituato alle rapide staffette fra il blank verse e la prosa del drammaturgo inglese, fra il parlare in versi dei nobili e le prosastiche puntate gergali e dialettali dell’informalità e del volgo.

Ciò che innanzitutto il poeta, lo storico e il critico letterario sempre e subito si chiedono si fonda sull’assunto che un’opera e un’opera di traduzione debbano aggiungere qualcosa in direzione di un progresso espressivo e un grado più elevato di significazione. Su questi due principi di sensibilità e intelligenza si giocano le grandi partite che rendono un’opera immortale, ed è proprio in questo agone di sopravvivenza che le traduzioni perlopiù invecchiano mentre le opere originali soprassiedono ai tempi. E se di questo se ne avverte solo da poco l’importanza in relazione al genere più diffuso, il romanzo, è perché è il genere ad essere recente e i doppioni di traduzione ancora molto ridotti.

«'Lazio insolito' di Alberto Crielesi. La recensione» di Nicola D'Ugo


Alberto Crielesi,
Lazio insolito.
Appunti di viaggio tra sacro e profano
,
Photo Club Controluce,
Montecompatri 1998.
224 pp. EUR 12.00
Non mancano certo copiosi volumi che illustrino le risorse storiche del Lazio. Ve ne sono di interi dedicati a città, villaggi, quartieri, singoli palazzi. E più se ne sente raccontare, più appare evidente l'enormità delle lacune conoscitive, l'adagiarsi d'enormi ombre fra le brevi luminarie del dettaglio, dell'episodio, del particolare.

Se si pensa ai dodici libri che compose l'antropologo ottocentesco James G. Frazer per spiegarsi il mito di Diana a Nemi e lo strano re che vi dimirava, si comprende perché Lazio insolito abbia cercato di narrarci in modo diverso territori su cui si è andata sedimentando l'opera di migliaia di studiosi. Del mito di Diana, salvo un vago accenno onomastico, l'autore non ci dice nulla, preferendo raccontarci quel luogo in modo "insolito", dal I sec. d.C. agli anni quaranta del presente.

«Man and Being in Dylan Thomas» by Nicola D'Ugo


Dylan Thomas in his writing shed.
Laugharne, Wales
Human essence, the essence of an individual that is first of all a being, is the starting point for a criticism that wishes to turn its attention to Dylan Thomas’s work. "Man be my metaphor" ("If I were tickled by the rubs of love") is an expression that literally taken implies a split between man and being, an ideal differentiation that permits us to settle in the Welsh poet’s wide scenery, made of differentiated quick glances, of "dry worlds", "hills", "trees", "glow-worms", "oil", "seeds", "girls", "all" and "nothing".

To be an individual apart and separated from his flesh, a being ahead of his own birth and with his own course somehow already predestined, has meant to Dylan Thomas a way of planning his life, a way of conceiving the world and his own work as a great recall addressed to the entire mankind. Born in Swansea (South Wales) in 1914, he died at thirty-nine in New York in November 1953. He was not, and never wanted to be, an isolated poet, a solitary man, one of those writers that demonstrate a sort of modesty towards literature. This may appear in contrast with his exclusion from the minor or major literary movements of the twentieth century, but is not in contrast at all with the idea of a public literature, addressed to the audience and read aloud. Neither the idea of a retro and traditionalist poet can properly fit the bard of Wales and of the whole world, as he longed to be considered. Such an idea would be in contrast with his interest in cinema, radio and television. Under Milk Wood represents the high awareness of the radio play, with its characters not only set into the night and darkness, but also followed step by step into their own dreams, into the laconicism of their more intimate thoughts, so going beyond the social appearances, bringing light, sun and clarity into the shifting of the unity of time and place of the narrative. Facing the problem of writing a radio play, Thomas’s answer started from the means and the audience, from a means that couldn’t have anything broadcast but mere sound to an audience that couldn’t have seen anything but the images contained in the medium of words. It is not strange to note that in the two most important radio plays ever written in English, Under Milk Wood and Samuel Beckett’s Embers, blindness of night and sleep, or of illness, guarantees a reception of the play which meets the momentary sensorial condition of the listener. This is the beginning of Under Milk Wood:

«Articoli e saggi che leggono un paese. 'Vivere altrove' di Sciara a favore dell'associazione "Il Chicco"» di Nicola D'Ugo

Natale Sciara è un poeta ciampinese che si è reso attivo in questi anni con una serie di iniziative locali che hanno per oggetto la letteratura. Attraverso la Pro Loco ciampinese ha convogliato insegnanti, scrittori, editori, giornalisti e politici a raccontare gli autori degli ultimi duecento anni, italiani e stranieri, e alcune riflessioni sugli scritti filosofici di autori non strettamente letterari. Vivere altrove (frammenti di un discorso comunitario) è una raccolta di articoli pubblicati da Sciara a partire dalla fine degli anni Ottanta su varie testate, fra cui quella storica ciampinese Anni Nuovi.

La scrittura di Sciara rispetta il suo modo di incontrare gli eventi di una comunità tanto frammentata quanto lo sono i «frammenti» del sottotitolo, con i suoi cittadini venuti dalle più diverse regioni d’Italia prima e del mondo poi, che appena si sfiorano quotidianamente fra un treno e l’altro caratteristici del pendolarismo locale. Fa da sfondo il desiderio di comunicare la passione di un uomo che prova a dare una ragione degli scenari che gli si presentano davanti nell’arco degli anni, e quell’amore per l’arte e per la poesia che è difficile comunicare, a una comunità inesistente, che non comunica in altro modo che nei compartimenti stagno dei palazzi, dei muretti, delle strade, dei bar, dei campi di calcio e delle scuole.

«Harold Pinter e le stanze chiuse dell'oppressione» di Nicola D'Ugo


Harold Pinter
Un Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato in questi giorni a Harold Pinter. È una buona notizia, vista la sua straordinaria opera drammaturgica, che ha pochi pari in un secolo. A questo si aggiunga l’attualità della sua tematica ricorrente: l’invasione dello spazio domestico, che è metafora di una lotta in cui l’altro non è un uguale, ma un “simile” minaccioso.

Formatosi come attore alla Royal Academy of Dramatic Art, per poi passare alla recitazione in una prestigiosa compagnia irlandese, l’inglese Harold Pinter ha esordito come drammaturgo con La stanza (The Room) nel 1957. Il suo teatro dell’assurdo (o comedy of menace), dai registri linguistici che riproducono il modo di parlare delle diverse classi sociali inglesi, inscena la continua lotta di personaggi mediocri, presi dalle proprie necessità quotidiane, che compiono gesti meschini, spesso incomprensibili. Nei suoi drammi sono esposte situazioni apparentemente banali, buffe e imbarazzanti, che rasentano il ridicolo, prima di illuminarsi in paradossi cuciti addosso a quel brandello dell’esistenza che si finge di essere un abito congeniale, prima che il passato emerga in situazioni che accendono lo spazio di una memoria smarrita o occultata, rimettendo in gioco convinzioni e propositi di una vita.