31 dicembre 2021

«"Il Canto di Ulisse" di Dante» di Nicola d'Ugo

 


  

La conoscenza: la sua importanza e i suoi limiti

 

Dopo l'invettiva contro Firenze, inizia il vero e proprio tema del Canto XXVI dell’Inferno dantesco: la conoscenza, i suoi pericoli e i suoi limiti. Conoscere va bene, ma fino a un certo punto. Dio ha posto dei limiti all'uomo e tali limiti, per quanto estesi, non devono essere superati. Dante, lo sappiamo, è un poeta che ricerca il nuovo, ciò che non conosce. Ciò che è estraneo, la novità, porta al miglioramento dell'uomo. La sua prima opera si chiamava Vita nova, la vita che cambia, si rinnova, attraverso l'amore per Beatrice: di fronte alla novità non si guarda più con gli stessi occhi, ma con un sentimento e una «coscïenza» diversi. Anche la Commedia parla di cose nove, del tutto inaudite: il viaggio di Dante nel regno dei morti.


La conoscenza del nuovo («esperïenza» dirà Ulisse) è quindi fondamentale per il miglioramento della propria anima, per la sua nobilitazione. Nello Stilnovo, la nobilitazione dell'uomo avveniva attraverso l'esperienza, attraverso la donna gentile o angelicata, immagine in terra dello splendore divino. Dante riassume questo concetto nella formula «novo miracolo e gentile», in cui all’eccezionalità esteriore debba corrispondere un contenuto intimo virtuoso, nobile, «gentile» appunto (Vita nova, XXI, « Ne li occhi porta la mia donna Amore», v. 14). Come sappiamo dalla storia della Commedia, per raggiungere il bene bisogna passare attraverso il male e non solo rimanere in quello che consideriamo, a priori, il bene. Solo guardando il male in faccia, da vicino, possiamo riconoscere in noi i tratti del male, le implicazioni dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre omissioni. Il male non è qualcosa che riguardi gli altri, ma se stessi: posso scorgere il male nell'altro, ma questo è molto meno importante dello scoprire il male in me stesso, poiché ciò che è fondamentale è sempre, per Dante, il bene e il male all'interno di sé.


La conoscenza svolge quindi un ruolo fondamentale nei riguardi della propria salvezza. In questo, il Canto di Ulisse trova la sua centralità, in quanto è emblematico di un modo sbagliato di concepire la conoscenza. Infatti, la conoscenza per Dante non si limita a una serie di nozioni: la conoscenza non è informazione, qualcosa di astratto, un insieme di dati relativi alla vita. La conoscenza è, innanzitutto, passione, è emozione, è desiderio. L'uomo raggiunge la conoscenza attraverso una forza emotiva che lo spinga verso ciò che è inusitato, che lo trascini verso la novità. L’uomo deve essere sensibile, quindi, a ciò che lo circonda, riconoscere in ciò che incontra l’eccezionalità della specie di sapere e perseguire il proprio percorso conoscitivo attraverso la selezione di ciò che entra in quel genere di conoscenza.

4 dicembre 2021

«Doriano Fasoli. “Derive. Schegge di vita in versi e in prosa”» di Luciano Albanese

 


Doriano Fasoli

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

Prefazione di Stefano Santuari

Alpes, Roma 2021

X-139 pp.

€ 15,00

ISBN: 8865317345



Scrittore, critico, giornalista e sceneggiatore, studioso e docente di psicoanalisi e letteratura, Doriano Fasoli si ripresenta ora al pubblico in veste di poeta. Lo stile di Fasoli, sul quale tornerò, ricorda quello delle ‘poesie in prosa’ di Rimbaud, ed è particolarmente in linea col contenuto dell’opera, bene compendiato dal titolo. Come una barca che ha perso gli ormeggi e fluttua alla mercé della corrente – spiega Fasoli – così è la vita. Non si sa da dove si parte, non si sa da dove si viene e non si sa dove si arriva. È un moto che i greci definivano ‘planetario’, ovvero ‘errante’, come quello dei ‘pianeti’, appunto, chiamati così perché nella prospettiva geocentrica apparivano retrogradi. Tuttavia, osserva Fasoli, verso la fine di questo viaggio ‘planetario’ ci si accorge che non è tanto importante la meta – peraltro ignota – ma certe stazioni incontrate lungo la via.

 

Derive è il ricordo, tradotto nella forma poetica, di un centinaio di queste soste, siano esse incontri, interviste, ricordi di viaggio o emozioni vissute interiormente. Si inizia con infanzia e adolescenza, dove emerge la figura della madre e soprattutto del padre, controfigura di Jean Gabin nel Porto delle nebbie. Poi il militare, e successivamente l’incontro decisivo con Stefano Santuari, autore della bella prefazione. Gustosissima la loro irruzione nell’eremo di Camaldoli: un tentativo di fuga mistica dal mondo risolto in tagliatelle ai funghi porcini e telefonate di nascosto alle ragazze, prima della inevitabile cacciata dal convento. Anche Michele Psello, mutatis mutandis, fece un’esperienza simile, prima che il gorgo della vita lo risucchiasse di nuovo. 

 

Esperienze di vita e di morte si intrecciano continuamente nel libro di Fasoli. Dal sofferto ricordo della lunga, eroica sofferenza di Martine alle interviste con Carmelo Bene e Fabrizio De André, entrambi destinati a una vita breve, ma quasi consapevoli di questo, e del fatto che dopo sarebbero vissuti perennemente nel ricordo. Altre figure note emergono dal ‘Vortice di incontri’ che vede sfilare personaggi come Barilli, Maria Luisa Spaziani, Attilio Bertolucci, Mario Luzi, Cesare Brandi, colto nella serenità della bella villa di Vignano di Siena, Emilio Garroni, Giovanni Macchia, Toti Scialoja, Sergio Endrigo, e altri ancora. In Appendice ritroviamo Carmelo Bene, intervistato nel corso del suo memorabile Riccardo III, Emilio Garroni, il cui ricordo mi riporta agli anni della Sapienza, ed Elémire Zolla, il nuovo, aristocratico vate della filosofia perenne di Agostino Steuco. E ancora, l’indimenticabile ritratto di Marguerite Duras, che aveva ribattezzato Fasoli ‘Terence Stamp’.

11 luglio 2021

«Black Widow (2021)» di Nicola d’Ugo

 

 

Black Widow (2021) non ha nulla a che fare con le iperboliche avventure degli Avengers. È un thriller alla James Bond con un taglio da romanzo di formazione, tipico di altri film della regista australiana Cate Shortland (Somersault, 2004, e Lore, 2012). Un apologo sulla liberazione delle donne: le migliaia di Vedove Nere, sottomesse e sottoposte fin da bambine ai disumani trattamenti da cavie nella Stanza Rossa.

 

La seconda e terza Vedova Nera, Natasha Romanoff (Scarlett Johansson e, da piccola, Ever Anderson) e la sua sorella adottiva ed emula Yelena Belova (Florence Pugh; da piccola, Violet McGraw), cercano di distruggere definitivamente la Stanza Rossa, di liberare le Vedove Nere e uccidere il suo scellerato direttore russo, il massiccio generale Dreykov (Ray Winstone). Neppure troppo velato il parallelismo tra Dreykov e il corpulento manipolatore Harvey Weinstein, l'allusione alla sua Miramax hollywoodiana, al movimento #MeToo ecc.

 

Con un bel po' d'azione, pochi personaggi e senza effetti visivi notevoli, il taglio è spesso comico, parodico, il tema domestico. Una famiglia di spie russe in Ohio che si ritrova un ventennio dopo (dopo il finto matrimonio e due figlie adottive portate via a forza da Dreykov) a fare i conti con quegli strani genitori (interpretati dal simpatico David Harbour e l’affettuosa, astuta Rachel Weisz), scellerati dal punto di vista di sorella e sorellina, navigate supereroine assassine. Non li cercano per una nemesi (in questo sono poco Avengers, Vendicatrici), ma per fini strumentali al proprio progetto. Rivederli rende la nemesi certa.

 

La Marvel ha deciso di produrre un film diverso dal resto della serie, più rétro anziché più innovativo. A parte l'inizio ambientato nel 1995, la storia si svolge nel 2016 in varie parti del mondo, soprattutto a Budapest. E ha due finali: il secondo, ambientato nel 2023, potrebbe sfuggirvi, perché è dopo i lunghissimi titoli di coda. Il livello qualitativo della regia lascia un po' a desiderare, a cominciare dal fatto che sacrifichi le straordinarie doti espressive della Johansson nelle vesti del personaggio più affascinante degli Avengers a vantaggio della pur brava Pugh, forse per 'lanciare' la simpatica e più infantile terza Vedova Nera nei prossimi film della Marvel. Peccato, davvero.

 

Nicola d’Ugo

 

(Luglio 2021)

 

 

6 giugno 2021

«“Roubaix, una luce”. Un film di Arnaud Desplechin» di Nicola d’Ugo

 


Carino, non un capolavoro, ma interessante. Il film di Arnaud Desplechin si ispira a un evento di cronaca del 2001-2002, in cui venne uccisa una donna anziana e vennero accusate le due giovani vicine, misere, alcoliste e tossicomani.

 

Gli attori sono di notevolissimo livello, come ci si aspetta dai francesi. Roschdy Zem, nella parte del commissario, ha ricevuto il Premio César come migliore attore nel 2020, mentre Sara Forestier la candidatura come attrice non protagonista. Léa Seydoux, la più celebre a livello internazionale, non ha ricevuto un picchio, del resto quello che hanno ricevuto lei e Adèle Exarchopoulos per la loro interpretazione de La vita di Adele non l'ha mai ricevuto nessun altro attore nella storia del cinema, neppure Marlon Brando, Sophia Loren o Meryl Streep: la Palma d'oro a Cannes nel 2013. Qui recita alla grande, non come insipida Bond girl.

 

Roubaix, una luce non è male, è un film che è stato candidato alla Palma d'oro a Cannes e al César francese. La parte migliore è quella degli interrogatori e dei rapporti con la città ai confini del Belgio del commissario arabo, cresciuto lì. Roschdy Zem dà spessore umano al commissario, la sua è davvero una bella interpretazione non banale. Per il resto il film manca di una cinematografia d'autore, non c'è la magia che il cinema ha nelle sue potenzialità, si affida solo a un intreccio abbastanza semplice, alla notevolissima interpretazione degli attori, a buoni dialoghi e a un'interessante raffigurazione dei metodi dell'interrogatorio francese. Il resto è uno squarcio illustrativo su una depressa città di provincia del Nord della Francia. Un film che mette in luce la bassezza morale che si vive in certe città francesi colpite da povertà, depressione economica e separatismi etnici. In fondo, più che essere un noir, cerca di offrire allo spettatore uno sguardo antropologico su Roubaix come esempio tipico delle realtà provinciali europee, senza moralismo e prese di posizione nette.