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6 marzo 2018

«“Il divino egoista” di Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli», di Cinzia Baldazzi














Il divino egoista
Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli
Alpes Edizioni
Roma 2018
Prefazione di Franco Cordelli
Presentazione di Paolo Lagazzi
Scritti di Enzo Siciliano, Alfonso Berardinelli, Elio Fiore
Euro 10,00
70 pp.
ISBN: 88-65-31442-7










In tempi di sfacelo delle poetiche, la poesia resiste.
(Attilio Bertolucci, da «Un’ansia religiosa senza maledettismo», Il Giorno, 11 giugno 1975)

Divino egoista, lo so che non serve
chiedere aiuto a te
so che ti schermiresti.
Abbitela cara – dice – quest’ombra
verde e questo male. Evasivo
scostandosi lo copre con una
sua foglia di gaggìa –
                                         biglietto
d’invito a una festa che ci si prepara
vaga come una nuvola
in groppa all’Appennino.

(Vittorio Sereni, «A Parma con A. B.»,
agosto 1978, parte IV)


Ricordo di aver sfiorato l’esperienza di intravedere il futuro presente e prossimo del comunicare in generale, e nello specifico di matrice letteraria, quando nelle pagine d’esordio de L’ordine del discorso di Michel Foucault leggevo:

Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile.1

Poco dopo il filosofo francese, davanti al pubblico dei suoi nuovi studenti e al corpo accademico, sosteneva:

Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un pezzo, superando in anticipo tutto quello che sto per dire) una voce che parlasse così: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole finché ce ne sono […], è forse già cosa fatta, mi hanno forse già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta».2

È come se nel libro Il divino egoista, di Attilio Bertolucci e Doriano Fasoli, gli enunciati del testo citato, proiettati in un rigoroso ma elegante meccanismo utopico, prendessero parola (al di fuori, è ovvio, del mitico ed hegeliano Jean Hyppolite, ammirato maestro di Foucault) dapprima tramite il critico firmatario dell’articolata intervista, quindi con il poeta, «nella tranquillità del salotto in penombra» della casa romana di Monteverde, con un Bertolucci ironico e vivace, «pieno di grazia e leggerezza, e di un garbo antico» e con una «profondità di pensiero che è propria degli uomini più semplici».3

Nato a San Prospero, frazione di San Lazzaro, nella campagna vicino a Parma – città nella quale frequentò il Convitto Nazionale «Maria Luigia» – si laureò in Lettere all’università del capoluogo di regione, ateneo scelto non appena Roberto Longhi ottenne la cattedra di Storia dell’Arte. «Nel 1935 andò a insegnare a Bologna», spiega Bertolucci, «e mia moglie, che studiava lì, sentì la sua famosa prolusione sulla pittura bolognese da Vitale (riscoperto da Longhi) a Morandi».4