Sabina Vannucci è un architetto. È nata a Roma, la città in cui vive. Ha molto viaggiato. Nel corso della sua attività professionale ha illustrato libri scientifici, didattici e per ragazzi, ha fatto progettazione d'interni, si è occupata di piani di sviluppo sostenibile e ha facilitato processi di progettazione partecipata con diverse comunità locali italiane. Nel 2004 ha pubblicato con Raymond Lorenzo per l'Apat (oggi Ispra) il manuale Agenda 21 locale 2003. Dall'Agenda all'azione, e diversi contributi a rapporti di educazione ambientale, contabilità ambientale e strumenti di pianificazione ambientale del Comune di Roma. Ha insegnato e fatto formazione nelle discipline dell'arte, dell'architettura e dello sviluppo sostenibile. In un processo di ricerca della propria autenticità e con l'intento di aprire alternative per affrontare una crisi economica che rende difficile la professione, in tempi recenti ha recuperato le sue attività giovanili approfondendone lo studio e integrandole con l'uso dei nuovi media digitali e con la scrittura e la sperimentazione di forme diverse di arte visiva: fotografia, digital art, grafica, pittura, video making. I suoi lavori sono stati esposti in occasione di mostre personali a Roma e di collettive come «Detenzioni» 2012 e 2013 a Torino e «Per Appiam» 2014 a Roma.
Tra Shakti e Maya, che ha vinto la prima edizione del Premio Letterario Verbavolant a Castelnuovo di Porto, è il suo primo libro di poesie, edito da Terre Sommerse nel 2013.
Doriano Fasoli: Vannucci, quando hai scoperto la tua vena creativa?
Sabina Vannucci: Della prima poesia ricordo con tenerezza il momento in cui ho cercato con urgenza carta e penna. Avevo circa dieci anni, su una terrazza affacciata sul lago di Bled, una notte in Slovenia. Provavo emozioni. Le parole che mi attraversavano la mente erano semplici, ma il loro suono aveva l'andamento dello sciabordio del lago: la cosa mi colpì e così decisi di scriverle. Da allora ho continuato a scrivere poesie fino ai venticinque anni circa. Ho un quaderno, scritto a mano con la biro, in cui si vedono evolvere sia la scrittura sia la calligrafia. Poi basta.
Nei vent'anni successivi, nulla. Avevo continuato a scrivere molto, molti 'scritti da cassetto', ma poesie, mai più. Ho ripreso quando, durante un periodo molto duro della mia vita, ho fatto un confronto estremo con me stessa, un confronto che non ammetteva fughe e mi sono detta: «Ma a te cosa ti piace davvero più di tutto?» E sono riaffiorate cose dimenticate. Così dopo anni tecnici, di architettura, ho ripreso anche ciò che avevo fatto languire, ovvero la poesia, il disegno e la pittura. Ho ripreso a scrivere poesie come una furia, bloccandomi sul motorino a metà di un percorso, o in metropolitana. Anche nei momenti più assurdi, se c'è bisogno, tuttora mi fermo e scrivo.
Quando le scrivi hai presente un pubblico?
Mai. Ho scoperto l'esistenza di una possibile relazione con un pubblico quando mi son tornati indietro i primi riscontri, che in effetti mi hanno stupito. Non avevo considerato l'eventualità di muovere emozioni anche in altre persone. Il primo libro – ne ho finito un'altro, che è attualmente in cerca di pubblicazione – l'ho cominciato a scrivere come un'alternativa al percorso analitico, che avevo dovuto interrompere. È stata una psicoanalisi autarchica. Cercavo la mia verità e questa, in genere, è una cosa che si fa in privato. Però, una delle sorprese più preziose e piacevoli per me, ora, è sentire le interpretazioni che vengono fatte delle mie poesie, mi raccontano cose nuove, che io stessa non vedo. Amo quando ciò che scrivo arriva al cuore di qualcuno cambiando, a quel punto, forma e essenza. Amo quel momento in cui la poesia non è più mia, ma diventa di chi la legge.