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15 giugno 2019

«Trasgressioni Bataille, Lacan. Intervista a Silvia Lippi» di Doriano Fasoli



Silvia Lippi, bolognese di nascita, vive a Parigi. È psicoanalista, affiliata all’associazione Espace analytique di Parigi e all’ALIPSI di Milano. È psicologa all’ospedale psichiatrico Barthélemy Durand d’Étampes, ricercatrice presso l’Università di Parigi 7 e docente titolare dell’IRPA, Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata diretto da Massimo Recalcati, nelle sedi di Milano e Grottammare. Oltre a numerose pubblicazioni in Francia, nel 2017 è uscito in Italia La decisione del desiderio (Mimesis), già vincitore del Prix Oedipe le Salon 2014, mentre del 2018 sono Freud. La passione dell’ingovernabile (Feltrinelli) e Ritmo e melanconia (Poiesis).

Doriano Fasoli: Dottoressa Lippi, cosa suggerisce il titolo del suo nuovo lavoro Trasgressioni. Bataille, Lacan (che ricorda quello di Masud Khan, Trasgressioni, Bollati Boringhieri), pubblicato in questi giorni da Orthotes Editrice?

Silvia Lippi: Bisognerebbe chiederlo agli ipotetici lettori! Per quanto mi riguarda, ho voluto scrivere un libro sul desiderio, abbordato dal punto di vista del fantasma. Per fantasma intendo, alla maniera freudiana, lo scenario che ognuno di noi si costruisce per accedere all’oggetto del desiderio. E uno dei fantasmi fondamentali è proprio la trasgressione. Non solo dal punto di vista strettamente sessuale: il bimbo che ruba di nascosto la marmellata è spinto da un moto trasgressivo, come il feticista che invece di innamorarsi di una donna si innamora di una pelliccia, o di una scarpa. Il concetto di trasgressione rinvia alla vergogna ma anche alla colpa, quindi all’infrazione, alla disobbedienza, dunque alla legge. Uno psicoanalista non può rimanere indifferente a tutto questo materiale, e agli interrogativi connessi che riguardano la vita psichica. Che rapporto esiste tra la trasgressione come atto e la trasgressione come fantasma? Il desiderio può esistere senza la trasgressione? Come si articolano i concetti di «legge» e di «trasgressione»? E a che tipo di godimento ci riferiamo quando mettiamo in atto un fantasma di trasgressione? Sono questi i quesiti a cui il libro cerca di rispondere.

Nonostante la mole bibliografica esistente, cosa l’ha spinta a occuparsi di Bataille e Lacan?

Ogni causalità è surdeterminata: voglio dire, le ragioni che mi hanno spinta a scrivere il libro sono molteplici. Prima di tutto, mi chiamo Silvia, come Sylvia Maclès, che è stata prima la moglie di Bataille e poi la moglie di Lacan. Scherzi a parte, ho conosciuto Bataille sui banchi del liceo, a Bologna, grazie al mio professore di letteratura, Gian Paolo Roffi, di cui mi ricordo un corso stupefacente sul romanzo Storia dell’occhio. A quell’epoca, non sapevo ancora che sarei andata a vivere a Parigi un giorno, tantomeno che avrei scritto un libro su Georges Bataille. Ricordo solamente che rimasi colpita dallo strano erotismo di questo suo racconto, gioioso e sconsolato nello stesso tempo. E sicuramente anche dai personaggi della storia, certo così poco epici. Vorrei qui precisare che la trasgressione nell’opera di Bataille non è mai ostentata. È una trasgressione sobria, rigorosa, oserei dire, come fosse l’effetto dell’amor fati. Non vi è nessuna provocazione, nessuna sfida all’Altro e alla sua legge. La trasgressione è una ricerca di verità che passa attraverso il desiderio del soggetto.

7 aprile 2018

«Un italiano nel maggio 68 a Parigi, ovvero Godere senza limiti. Intervista a Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto è psicoanalista, filosofo e saggista. Ricercatore a Roma all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, al quale ha apportato un approccio filosofico e/o psicoanalitico, è presidente dell'ISAP (Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi) e direttore dell'European Journal of Psychoanalysis, da lui fondato nel 1995. Professore emerito, e uno dei maggiori maestri di studi psicoanalitici e filosofici italiani, ha collaborato e collabora a numerose riviste culturali internazionali, tra cui TelosLettre InternationaleTexteJournal for Lacanian StudiesL'évolution psychiatrique. Tra le traduzioni per l’Italia, si ricorda Il seminario. Libro XX. Ancora 1972-1973 di Jacques Lacan, edito da Einaudi nel 1983. Tra le sue copiose pubblicazioni scientifiche e culturali, si vogliono qui ricordare in sintesi solo le recenti oggetto di questa conversazione: Godere senza limiti. Un italiano nel maggio 68 a Parigi, edito da Mimesis e Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, edito da Orthotes. La seguente conversazione si incentra soprattutto, per la diretta esperienza di Benvenuto al Maggio 68 in Francia, sul volume edito in questi giorni da Mimesis.

Doriano Fasoli: Benvenuto, perché hai scritto un libro sul Maggio 68 in Francia?

Sergio Benvenuto: Pur essendo nato nel 1948, posso dire di aver vissuto il fascismo e la guerra, perché mio padre, straordinario affabulatore, ha passato molte ore nel raccontare a noi figli la sua esperienza sotto il fascismo e durante la guerra. Questo mi ha permesso di stabilire una continuità con la generazione precedente, nel capirne drammi e illusioni. Credo che la nostra generazione abbia lo stesso compito con le generazioni più giovani: testimoniare la propria esperienza. È quel che ho cercato di fare io con questo libro quasi-postumo. Lo sento come un dovere quasi biologico: trasmettere ai più giovani non tanto delle idee, delle teorie, delle convinzioni, quanto piuttosto, semplicemente, quel che si è vissuto. Saranno poi i nostri posteri a farne quel che vorranno.

Cosa significò per te, allora diciannovenne, studente italiano alla Sorbona di Parigi, trovarsi nella tempesta del Maggio ’68? E cosa ti spinse ad andare a Parigi?

Decisi di andare a studiare a Parigi nel 1967 perché ero straordinariamente attratto dalla cultura francese di allora, improntata a quello che si chiamava «strutturalismo» (Lévi-Strauss, Barthes, Lacan, Foucault, Althusser, Todorov) e che poi gli americani chiamarono, chissà perché, «post-strutturalismo». Prima dello strutturalismo, molti dei miei maestri dell’adolescenza erano francesi: i surrealisti, Sartre, Camus, Céline, Merleau-Ponty, Bataille… Inoltre, volendo iniziare un percorso di formazione come psicoanalista, intuivo che all’epoca in Francia bolliva molto nella pentola psicoanalitica. E non mi sbagliavo, dato che la psicoanalisi francese, all’epoca ancora alquanto ignota nel mondo, avrebbe poi preso una posizione di preminenza nel panorama mondiale. Non solo Lacan, ma la psicoanalisi francese in genere.

Il Maggio 68 fu per me entusiasmante perché ero in perfetta sintonia con molte delle esigenze che allora si espressero. E che non erano solo esigenze politiche, ma di rivoluzione del modo di vivere. Il Maggio sembrò realizzare, anche se in modo effimero, il sogno di varie generazioni di militanti dell’estrema sinistra. Non dimentichiamo che lo sciopero generale politico che paralizzò la Francia per settimane era stato teorizzato proprio da un francese, Georges Sorel, attraverso un libro del 1908 che fu bestseller della sinistra per decenni, Riflessioni sulla violenza. Col Maggio, un sogno a cui partecipavo da anni sembrava divenuto realtà. Il guaio è che poi un’intera generazione – di militanti, filosofi, saggisti, ecc. – ha continuato a pensare il 68, e il Maggio 68 in particolare, non come un’eccezione ma come ciò che poteva diventare regola. Ed è allora che sono cominciate le disillusioni amare, la tentazione masochista del terrorismo, il radicalismo sterile della sinistra, ecc.

6 ottobre 2017

«La pratica del colloquio clinico. Un’intervista a Massimo Recalcati» di Doriano Fasoli



Massimo Recalcati, tra i più noti psicoanalisti in Italia, è membro analista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi e direttore dell’IRPA (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata). Insegna alle Università di Pavia e di Verona. Le sue numerose pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue. Nelle edizioni Raffaello Cortina ha pubblicato con successo L’uomo senza inconscio (2010), Cosa resta del padre? (2011), Ritratti del desiderio (2012), Non è più comeprima (2014), oltre a due volumi su Jacques Lacan (2012 e 2016).

Doriano Fasoli: Perché hai deciso oggi di dare alle stampe (presso Raffaello Cortina) questo libro che raccoglie scritti giovanili: La pratica del colloquio clinico?

Massimo Recalcati: In realtà non si tratta di scritti ma di lezioni orali. Questo libro raccoglie un intero corso universitario che tenni ad Urbino nel 1999 presso la Facoltà di Psicologia. Il fatto che mi sia deciso solo oggi a pubblicarne una versione scritta, risultato di una operazione di sbobinatura fatta allora dai alcuni miei allievi, dipende da una piccola fortuna che non ha smesso di circondare quel corso. Era in quella Università il primo corso clinico che veniva dedicato a Lacan. Fu per me l’occasione – insegnando Teoria del colloquio clinico – di mettere alla prova della pratica la dottrina di Lacan. Di offrire agli studenti non tanto l’immagine di un Lacan teorico della struttura, del linguaggio, del soggetto, eccetera, ma quella di un Lacan clinico. Il successo immediato e imprevisto delle prime dispense del corso continuò stranamente negli anni. Non avevano la forma di un libro ma quella fatta in proprio tipica, appunto, delle dispense universitarie.  La loro piccola fortuna è che per tutti questi anni non hanno mai smesso di circolare di mano in mano. Al punto che mi sono deciso a trasformarle in un libro che omaggia quei formidabili anni… Il lettore troverà la mia voce che commenta la voce di Lacan. Si tratta di lezioni ricche di clinica, di esperienza, di casi che la passione di quegli anni riversava in aula come fosse un vento di primavera o un vino prelibato… Sarebbe davvero difficile raccontare quella atmosfera che si creava spontaneamente in ogni lezione. L’aula magna dei Collegi strapiena, gli studenti seduti ovunque, un silenzio assoluto, una fame collettiva di psicoanalisi… È stato per me molto emozionante essere per questi giovani studenti un ponte che li portava verso lo studio di Lacan. In fondo è per me, per quello che sono stato in quegli anni e anche per loro, per quei volti che non dimentico, che mi sono deciso dopo tutto questo tempo a non disperdere quella esperienza e di tradurla in un libro.

Quando avvenne il tuo incontro con il pensiero di Lacan e in che senso ti ha cambiato la vita?

Dopo la discussione della mia prima laurea in filosofia. Passai l’estate a Milano a leggere Lacan nella grande aula semideserta della Biblioteca Sormani. Lessi per primi gli Scritti. Una lettura difficile, direi impossibile. Ma sufficiente per causare il mio desiderio di sapere e il mio amore per Lacan. Gli Scritti sono un condensato densissimo del lavoro in miniatura che egli compie di anno in anno nei suoi Seminari. Imparai abbastanza presto che senza la conoscenza dei Seminari gli Scritti sono, se non proprio inaccessibili, almeno mutilati di una parte sotterranea che dà loro linfa. Ho già detto da qualche parte che la mia prima impressione leggendo Lacan fu quella di imbattermi in un muro. Solo più tardi ritrovai – nel Seminario XX – il suo neologismo che accosta il muro all’amore: amur. Di questo in effetti si trattò: il mio incontro con il testo di Lacan fu un incontro d’amore; dunque, come tale, destinato a lasciare un segno, a durare, a restare nel tempo. L’amore non è infatti, come ricorda Lacan stesso, attraverso Paul Éluard, il «duro desiderio di durare»? «Ancora» – encore – non è forse la sua parola fondamentale? Sono rimasto fedele a Lacan, al mio amore per Lacan in tutti questi anni, ma a mio modo. La fedeltà nell’amore non è mai la ripetizione monocorde di un’abitudine, di un linguaggio che diventa codice dispotico, dogmatico, autoritario, privo di pensiero. Uno dei grandi insegnamenti di Lacan è l’incoraggiamento all’eresia come forma radicale dell’eredità. «Fate come me, non imitatemi», usava dire ai suoi allievi più scolasticamente fedeli. Nel rapporto con l’insegnamento di Lacan era ed è in gioco per me il grande tema dell’eredità. Innanzitutto di quella freudiana. Lacan ne ha dato testimonianza: ereditare non significa vivere di rendita ma rischiare il proprio, riconquistare, fare nostra quella che è stata l’impresa di Freud. Per questo ai miei occhi nulla tradisce più il messaggio di Lacan della necrofilia dogmatica di alcune scuole che si rifanno al suo pensiero. Essere lacaniano per me non è una dichiarazione settaria di fede, ma l’esperienza, sempre rinnovata, di una fedeltà amorosa che sa durare nel tempo. Anche quando, come mi è accaduto negli ultimi anni, il mio lavoro mi ha portato su strade che Lacan non ha mai frequentato.

7 settembre 2015

«Il discorso amoroso. Conversazione con Cristiana Cimino», di Doriano Fasoli

Cristiana Cimino, psichiatra e psicoanalista di formazione freudiana e lacaniana, esercita a Roma. Membro associato della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), ha scritto numerosi testi per riviste specializzate, sia italiane che straniere. È stata co-editor per anni dell’European Journal of Psychoanalysis. Si occupa da tempo del pensiero di Elvio Fachinelli. La presente conversazione prende spunto dall'uscita del suo recente studio Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile, pubblicato in questi giorni per i tipi manifestolibri.

Doriano Fasoli: Dottoressa Cimino, il titolo del suo libro Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile riecheggia quello assai noto di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso… C’è un qualche collegamento?

Cristiana Cimino: Si tratta, evidentemente, di una citazione che in qualche modo vuole essere un omaggio al pensiero di un autore che ha accompagnato la mia storia e la mia formazione. Il suo Frammenti, sebbene sfortunatamente abusato, rimane un testo unico, che si colloca – o meglio, non si colloca – in un territorio di confine, e dunque fertile, tra letteratura, filosofia, semiotica, psicoanalisi: e potrei andare avanti, con la grazia disinvolta propria di Barthes. Il mio testo è costruito in modo molto differente, ma, egualmente, cerca di cogliere alcuni nuclei del discorso amoroso.

Su cosa poggia il discorso amoroso?

La mia ipotesi è che abitualmente il discorso amoroso, ossia la forma inconscia che prende il legame amoroso tra gli esseri umani, si fondi sulla ricerca dell’eguale, del già noto, di ciò che riporta a sé, al di là della scelta di genere. Questa esclusione del reale dell’Altro è il tentativo di non ingaggiarsi con i suoi aspetti estranei, dissonanti, che sempre sfuggono e provocano angoscia. Se si riesce a sostenerla si apre la possibilità di fare un legame in cui l’estraneità dell’Altro diventi una risorsa, forse l’unica, di entrare davvero in rapporto. Questa è l’altra forma di discorso amoroso ipotizzabile, se ci risolve ad abbandonarci all’Altro e al potenziale spaesante di cui è portatore.

«A letto c’è sempre calma piatta,» affermava Lacan… Cosa intendeva dire?

Il punto è che l’atto sessuale, il godimento in quanto tale, non è di per sé segno d’amore, per questo non c’è rapporto sessuale e dunque, dal lato dell’amore, a letto c’è calma piatta, c’è solo godimento dei corpi. Qui Lacan rimanda all’insufficienza del fallo che, incredibilmente, è proprio l’ostacolo all’amore. Esso concentra in sé tutto il godimento, godimento fallico, appunto, che, come dirà Lacan chiaro e forte nel Seminario XX, non ha a che vedere con l’amore. La scommessa è quella di andare oltre il registro fallico e attingere a un altro godimento, quello femminile, che ha più possibilità di sperimentare quell’assoluto che è l’amore. Il termine femminile non è riferito a un’appartenenza di genere ma a una posizione psichica e direi etica che anche un uomo può assumere.

Cosa l’ha spinta a pubblicare questo libro oggi?

In parte il semplice fatto che, lavorando sul tema da tempo, desideravo separarmi dal prodotto di questo lavoro. Ma soprattutto perché ho l’impressione che oggi ancora più che in altri momenti storici la questione del rapporto tra i sessi sia urgente. Il cambiamento su quel piano non è un lusso, come si potrebbe pensare, a fronte di altre priorità, è una priorità in sé. Persino Marx ne era convinto. Oltre la sua ‘impossibilità’ – il non c’è rapporto sessuale di Lacan – mi è sembrato di cogliere, nella mia pratica clinica, una domanda di novità, di apertura a possibilità di fare un legame d’amore che si collochino altrove rispetto al modello incestuoso, endogamico, così come ho cercato di riportarlo nel libro. Valeva la pena raccoglierla.

18 luglio 2015

«Il taglio. Conversazione con Felice Cimatti» di Doriano Fasoli

Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Fra le sue recenti pubblicazioni, La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens (Ombre Corte, 2011) e Filosofia dell’animalità (Laterza, 2013). Ha curato, insieme a Silvia Vizzardelli, Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi (Quodlibet, 2012); con Alberto Luchetti Corpo, Linguaggio e psicoanalisi (Quodlibet, 2013); e con Leonardo Caffo A come animale. Per un bestiario dei sentimenti (Bompiani, 2015). Nel 2012 ha ricevuto il Premio Musatti dalla Società Psicoanalitica Italiana. È docente dell’Istituto Freudiano, sede di Roma. È uno dei conduttori del programma di attualità culturale Fahrenheit di Rai Radio 3. L'intervista che segue si incentra sull'ultimo libro di Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, uscito in questi giorni per i tipi Quodlibet.

Doriano Fasoli: A cosa rimanda il titolo del suo libro?

Felice Cimatti: L’idea è quella di un taglio, è una espressione di Lacan, una linea netta che lascia sul corpo umano una ferita che non si rimargina. Viene in mente uno dei tagli di Fontana, come questo riprodotto qui sotto. Il taglio è una ferita netta, che lascia una traccia indelebile nel corpo umano. Al taglio è connessa anche l’idea che i bordi della ferita non possono più ricongiungersi. Nel corpo rimane quella linea, e il dolore che lo accompagna. Il punto è che si tratta di una ferita che non si rimargina. L’animale umano è questo taglio.

In questo senso il sottotitolo del libro è Linguaggio e pulsione di morte. Il taglio, seguendo Lacan (ma anche il Wittgenstein del Tractatus, che prima di Lacan aveva lucidamente intravisto gli effetti del linguaggio sul corpo umano), è il linguaggio. Gli esseri umani parlano, e il fatto del parlare installa nel corpo umano un dispositivo impersonale ed autosufficiente che persegue un proprio obiettivo, che non coincide con quello del corpo che lo ospita. Sembra una idea misteriosa, in realtà se si legge Chomsky, ad esempio, il più grande linguista del ’900, si scopre che la facoltà del linguaggio è appunto un dispositivo che ‘genera’ (è esattamente l’espressione di Chomsky) enunciati in modo del tutto non intenzionale. Li genera perché non può non generarli, il linguaggio è questo dispositivo. Il linguaggio, per Chomsky, impersonalmente parla. Non siamo noi che usiamo il linguaggio, al contrario, il linguaggio è un dispositivo che genera enunciati. Per questo, è ancora Chomsky a dirlo, la funzione principale del linguaggio non è la comunicazione. La comunicazione serve a noi umani, ma il linguaggio umano non è fatto per questo (la comunicazione è la funzione dei linguaggi animali). Il linguaggio può generare enunciati di lunghezza infinita, che noi non usiamo perché non abbiamo la capacità di usarli (limiti di memoria, di attenzione, e così via). Il linguaggio è molto più potente di noi. Lacan la pensa così. Il linguaggio è la pulsione di morte allora, perché innesta nel nostro corpo finito, mortale, limitato, un dispositivo che lo proietta oltre sé stesso, dove il corpo non può andare. Prendiamo il caso del desiderio umano, distinto da un bisogno (ad esempio la fame) che una volta soddisfatto si acquieta. Un desiderio è indipendente dalla sua eventuale realizzazione, proprio perché non è un bisogno. Don Giovanni seduce migliaia di donne spinto da un desiderio che non ha nulla di biologico e di umano. È un desiderio che è spinto da un meccanismo interno – la pulsione di morte – che non può essere soddisfatta. Si pensi alla sequenza dei numeri naturali: 1, 2, 3 … n. Il linguaggio come dispositivo è questa forza interna che non si arresta, perché la sua esistenza consiste in questa stessa procedura. Il corpo umano, in quanto corpo parlante, è questa procedura. Il taglio è allora l’effetto sul corpo di un dispositivo che lo proietta sempre oltre sé stesso. Oltre i propri bisogni e le proprie possibilità corporee (si pensi alle dipendenze, alle ossessioni e così via).