15 giugno 2019
«Trasgressioni Bataille, Lacan. Intervista a Silvia Lippi» di Doriano Fasoli
7 aprile 2018
«Un italiano nel maggio 68 a Parigi, ovvero Godere senza limiti. Intervista a Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli
6 ottobre 2017
«La pratica del colloquio clinico. Un’intervista a Massimo Recalcati» di Doriano Fasoli
7 settembre 2015
«Il discorso amoroso. Conversazione con Cristiana Cimino», di Doriano Fasoli
Cristiana Cimino, psichiatra e psicoanalista di formazione freudiana e lacaniana, esercita a Roma. Membro associato della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), ha scritto numerosi testi per riviste specializzate, sia italiane che straniere. È stata co-editor per anni dell’European Journal of Psychoanalysis. Si occupa da tempo del pensiero di Elvio Fachinelli. La presente conversazione prende spunto dall'uscita del suo recente studio Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile, pubblicato in questi giorni per i tipi manifestolibri.
Doriano Fasoli: Dottoressa Cimino, il titolo del suo libro Il discorso amoroso. Dall’amore della madre al godimento femminile riecheggia quello assai noto di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso… C’è un qualche collegamento?
Cristiana Cimino: Si tratta, evidentemente, di una citazione che in qualche modo vuole essere un omaggio al pensiero di un autore che ha accompagnato la mia storia e la mia formazione. Il suo Frammenti, sebbene sfortunatamente abusato, rimane un testo unico, che si colloca – o meglio, non si colloca – in un territorio di confine, e dunque fertile, tra letteratura, filosofia, semiotica, psicoanalisi: e potrei andare avanti, con la grazia disinvolta propria di Barthes. Il mio testo è costruito in modo molto differente, ma, egualmente, cerca di cogliere alcuni nuclei del discorso amoroso.
Su cosa poggia il discorso amoroso?
La mia ipotesi è che abitualmente il discorso amoroso, ossia la forma inconscia che prende il legame amoroso tra gli esseri umani, si fondi sulla ricerca dell’eguale, del già noto, di ciò che riporta a sé, al di là della scelta di genere. Questa esclusione del reale dell’Altro è il tentativo di non ingaggiarsi con i suoi aspetti estranei, dissonanti, che sempre sfuggono e provocano angoscia. Se si riesce a sostenerla si apre la possibilità di fare un legame in cui l’estraneità dell’Altro diventi una risorsa, forse l’unica, di entrare davvero in rapporto. Questa è l’altra forma di discorso amoroso ipotizzabile, se ci risolve ad abbandonarci all’Altro e al potenziale spaesante di cui è portatore.
«A letto c’è sempre calma piatta,» affermava Lacan… Cosa intendeva dire?
Il punto è che l’atto sessuale, il godimento in quanto tale, non è di per sé segno d’amore, per questo non c’è rapporto sessuale e dunque, dal lato dell’amore, a letto c’è calma piatta, c’è solo godimento dei corpi. Qui Lacan rimanda all’insufficienza del fallo che, incredibilmente, è proprio l’ostacolo all’amore. Esso concentra in sé tutto il godimento, godimento fallico, appunto, che, come dirà Lacan chiaro e forte nel Seminario XX, non ha a che vedere con l’amore. La scommessa è quella di andare oltre il registro fallico e attingere a un altro godimento, quello femminile, che ha più possibilità di sperimentare quell’assoluto che è l’amore. Il termine femminile non è riferito a un’appartenenza di genere ma a una posizione psichica e direi etica che anche un uomo può assumere.
Cosa l’ha spinta a pubblicare questo libro oggi?
In parte il semplice fatto che, lavorando sul tema da tempo, desideravo separarmi dal prodotto di questo lavoro. Ma soprattutto perché ho l’impressione che oggi ancora più che in altri momenti storici la questione del rapporto tra i sessi sia urgente. Il cambiamento su quel piano non è un lusso, come si potrebbe pensare, a fronte di altre priorità, è una priorità in sé. Persino Marx ne era convinto. Oltre la sua ‘impossibilità’ – il non c’è rapporto sessuale di Lacan – mi è sembrato di cogliere, nella mia pratica clinica, una domanda di novità, di apertura a possibilità di fare un legame d’amore che si collochino altrove rispetto al modello incestuoso, endogamico, così come ho cercato di riportarlo nel libro. Valeva la pena raccoglierla.
18 luglio 2015
«Il taglio. Conversazione con Felice Cimatti» di Doriano Fasoli
Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Fra le sue recenti pubblicazioni, La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens (Ombre Corte, 2011) e Filosofia dell’animalità (Laterza, 2013). Ha curato, insieme a Silvia Vizzardelli, Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi (Quodlibet, 2012); con Alberto Luchetti Corpo, Linguaggio e psicoanalisi (Quodlibet, 2013); e con Leonardo Caffo A come animale. Per un bestiario dei sentimenti (Bompiani, 2015). Nel 2012 ha ricevuto il Premio Musatti dalla Società Psicoanalitica Italiana. È docente dell’Istituto Freudiano, sede di Roma. È uno dei conduttori del programma di attualità culturale Fahrenheit di Rai Radio 3. L'intervista che segue si incentra sull'ultimo libro di Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, uscito in questi giorni per i tipi Quodlibet.
Doriano Fasoli: A cosa rimanda il titolo del suo libro?
Felice Cimatti: L’idea è quella di un taglio, è una espressione di Lacan, una linea netta che lascia sul corpo umano una ferita che non si rimargina. Viene in mente uno dei tagli di Fontana, come questo riprodotto qui sotto. Il taglio è una ferita netta, che lascia una traccia indelebile nel corpo umano. Al taglio è connessa anche l’idea che i bordi della ferita non possono più ricongiungersi. Nel corpo rimane quella linea, e il dolore che lo accompagna. Il punto è che si tratta di una ferita che non si rimargina. L’animale umano è questo taglio.
In questo senso il sottotitolo del libro è Linguaggio e pulsione di morte. Il taglio, seguendo Lacan (ma anche il Wittgenstein del Tractatus, che prima di Lacan aveva lucidamente intravisto gli effetti del linguaggio sul corpo umano), è il linguaggio. Gli esseri umani parlano, e il fatto del parlare installa nel corpo umano un dispositivo impersonale ed autosufficiente che persegue un proprio obiettivo, che non coincide con quello del corpo che lo ospita. Sembra una idea misteriosa, in realtà se si legge Chomsky, ad esempio, il più grande linguista del ’900, si scopre che la facoltà del linguaggio è appunto un dispositivo che ‘genera’ (è esattamente l’espressione di Chomsky) enunciati in modo del tutto non intenzionale. Li genera perché non può non generarli, il linguaggio è questo dispositivo. Il linguaggio, per Chomsky, impersonalmente parla. Non siamo noi che usiamo il linguaggio, al contrario, il linguaggio è un dispositivo che genera enunciati. Per questo, è ancora Chomsky a dirlo, la funzione principale del linguaggio non è la comunicazione. La comunicazione serve a noi umani, ma il linguaggio umano non è fatto per questo (la comunicazione è la funzione dei linguaggi animali). Il linguaggio può generare enunciati di lunghezza infinita, che noi non usiamo perché non abbiamo la capacità di usarli (limiti di memoria, di attenzione, e così via). Il linguaggio è molto più potente di noi. Lacan la pensa così. Il linguaggio è la pulsione di morte allora, perché innesta nel nostro corpo finito, mortale, limitato, un dispositivo che lo proietta oltre sé stesso, dove il corpo non può andare. Prendiamo il caso del desiderio umano, distinto da un bisogno (ad esempio la fame) che una volta soddisfatto si acquieta. Un desiderio è indipendente dalla sua eventuale realizzazione, proprio perché non è un bisogno. Don Giovanni seduce migliaia di donne spinto da un desiderio che non ha nulla di biologico e di umano. È un desiderio che è spinto da un meccanismo interno – la pulsione di morte – che non può essere soddisfatta. Si pensi alla sequenza dei numeri naturali: 1, 2, 3 … n. Il linguaggio come dispositivo è questa forza interna che non si arresta, perché la sua esistenza consiste in questa stessa procedura. Il corpo umano, in quanto corpo parlante, è questa procedura. Il taglio è allora l’effetto sul corpo di un dispositivo che lo proietta sempre oltre sé stesso. Oltre i propri bisogni e le proprie possibilità corporee (si pensi alle dipendenze, alle ossessioni e così via).
