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9 maggio 2018

«Su “Romanzo per la mano sinistra” di Giancarlo Micheli» di Luciano Albanese



Romanzo per la mano sinistra (Manni, 2017), di Giancarlo Micheli, consta di 102 capitoli per complessive 635 pagine. Si tratta di un lavoro molto accurato e molto impegnativo, che emerge prepotentemente dal panorama letterario più recente. Racconta, attraverso le lettere di Stefan al figlio Bruno, le vicissitudini di una famiglia ebraica, Adele (chiamata alternativamente col diminutivo Ada) Stefan e Bruno, in un periodo che va dall’annessione dell’Austria alla Germania nazista alla fine del ‘secolo breve’. Lo sfondo delle vicende dei protagonisti è costituito da una folta galleria di personaggi storici, che acquistano una solida autonomia compositiva – a tratti persino preponderante – e costituiscono una sorta di romanzo parallelo rispetto al filo principale della narrazione. Sfilano così davanti a noi Hitler, Mussolini, Freud, Concetto Marchesi, Marie Bonaparte, Ciano, Luchino Visconti, Alicata, Valerio Borghese, Mario Capanna, Feltrinelli, Asor Rosa, Pasolini, insieme ad altri personaggi indirettamente collegati alle vicende principali, come ad es. Enrico Fermi e gli scienziati di Los Alamos. In effetti una buona metà del romanzo è occupata da questa galleria di personaggi, di cui Micheli, grazie ad un paziente lavoro storiografico, ricostruisce, in uno stile ‘tucidideo’, le conversazioni intercorse. Al punto che potrebbe sorgere il dubbio se il vero sfondo dell’opera siano piuttosto le storie di Stefan, Adele e Bruno, che da questa ottica funzionerebbero da elemento di raccordo.

In realtà i due piani del romanzo si intersecano continuamente, perché i personaggi storici in questione sono, più spesso direttamente che indirettamente, la causa prima dell’odissea dei protagonisti, e quindi della loro tragica fine. Anche una ricostruzione sommaria delle loro vicende – che non credo inutile – è in grado di mostrare quanto e fino a che punto essi abbiano dovuto subire l’iniziativa di chi aveva in mano le leve effettive del potere.

Adele, una storica dell’arte, e Stefan, uno psicanalista, vivono e lavorano felicemente a Vienna insieme al neonato Bruno, quando l’annessione dell’Austria alla Germania nazista li costringe a fuggire in Italia, la patria di Adele. Lì tuttavia nuove difficoltà sorgono in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Dopo una inutile supplica allo stesso Mussolini, i due chiedono consiglio sul da farsi sia a Freud, che, vicino alla morte, li indirizza a Parigi, presso la sua allieva Marie Bonaparte, che a Concetto Marchesi, che li indirizza verso l’Urss, apparente fucina di un futuro migliore. Decidono per la seconda soluzione, e giungono a Leopoli. Lì Stefan viene contattato dall’Nkvd, che lo arruola fra i suoi agenti. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop e la spartizione della Polonia, i due ritengono più sicuro trasferirsi a Cracovia sotto la protezione della contessa Lanckorońska. Ma Stefan viene intercettato da ufficiali della Wehrmacht che stanno complottando contro Hitler e intendono servirsi di lui come diagnostico della psicopatologia hitleriana (oggetto della sua tesi dottorale). La congiura fallisce sul nascere, e Stefan viene costretto dai congiurati, per mantenere la sua copertura, ad arruolarsi nelle SS come medico psichiatra. Nel frattempo Ada, ritenendo che della scomparsa di Stefan sia responsabile la contessa Lanckorońska, fugge con Bruno e, mezza assiderata, trova rifugio e momentanea pace nel monastero di Bielany. Tuttavia una improvvisa retata delle SS condurrà Adele e Bruno di fronte al Gruppenführer Heydrich, che invaghito di Adele le prometterà salvezza in cambio di amore.

17 marzo 2017

«La maieutica valoriale di un’incessante narrazione. “Romanzo per la mano sinistra” di Giancarlo Micheli» di Carmen De Stasio



Ogni civiltà, nella propria fase decadente, negli anni senili della propria esistenza storica, finisce per mutarsi in una qualche specie di ottuso apparato di distruzione, un pervasivo ed estremo strumento di morte.
Giancarlo Micheli

In una fluida narrativa per evidenze, Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli (Manni, San Cesario di Lecce 2017) consolida l’impressione di continuità antidiegetica propria del territorio umano, confermandosi libro-luogo, in cui a decidere di efficace memorabilità è l’annullamento delle credenziali assimilate per tradizione in forza di una carica che muove da un appassionante impegno, teso a ricomporre le salienti fasi di una storia sovente dimentica di se stessa, che l’autore tiene fuori da qualsiasi possibile collasso euritmico e parziale. Nella flessione severa degli eventi, la scrittura paratattica si affida a gesti dinamici, ai vasti significati intrinseci, mediante i quali giunge come sfida alla lacerazione avvertita quale esperienza capace di aggregare tanto l’intimità dei personaggi che la loro concretezza, in una figuratività metafisico-astrattiva che delinea la coesistenza di linguaggi in continuo bilico tra presenza decisa e dissolvenza alla maniera dei sogni, nei quali avviene «l’appagamento dei desideri» (S. Freud). Ed è con animo critico che l’autore in un certo qual modo ‘intervista’ la storia nelle sue puntualità intellettuali, senza mai trascendere in una solarizzazione emozionale suggestiva, pur nell’aleggiante senso di privazione che ivi alberga in un tempo totalmente dominato da una precarietà tuttavia inadatta a sgominare la speranza, pur vitale nelle resistenti difficoltà di ordine pratico. La costruttiva narrazione s’investe così di un carattere caparbiamente volto ad alterare l’orientamento per via di un «passato che mormora nelle corrispondenze» (W. Benjamin, «I “passages” di Parigi», in Id., Proust e Baudelaire. Due figure della modernità, Cortina, Milano 2014, p. 9). Stefan scrive nella lettera al figlio Bruno in Romanzo per la mano sinistra:

Ho deciso di narrarti, dapprincipio, della donna che, adesso mentre ti scrivo, ti porta nel grembo. Spero ciò ti sia viatico affinché tu giunga, in un giorno che tardi abbastanza perché non ti capiti di rimpiangere prematuramente il tempo che pure perderai vivendo, a fare la felice esperienza in cui le tue parole toccheranno l’anima di un altro, un tuo simile, grazie al cui libero ascolto esse prendano il loro senso, proprio e particolare, tale da renderle fulgide di tutta la luce che un’esistenza umana getta sul mondo, dal suo principio alla sua fine attraverso le epoche e le generazioni. (p. 37)

Dalla commistione dei casi – ritratti di circostanze dall’apparenza talora fortuita, che tracciano la rotta (sovente senza una consistente volontà personale) intrapresa dai componenti il medesimo nucleo familiare (personaggi portanti sono Stefan Bauer, Adele Ascarelli, sua moglie, e il figlio Bruno) – si penetra l’intimità di un’epopea che scansiona le protuberanze territoriali per evolvere in una sorta di unicità simultanea, che dilania le diversità dei luoghi nel loro valore astrattivo. Pur provenendo da realtà diverse anche dal punto di vista sociale (Stefan è austriaco, Adele ha le sue radici in una prestigiosa stirpe industriale napoletana), ciascuna porzione minimale trasporta i segni delle tante storie che, sebbene stagliate su orizzonti dall’improbabile legame, confluiscono in un intreccio di verità e invenzione dagli effetti sapienziali, dove svolte interlocutorie dirigono una prospettiva sottoposta a incessanti (ri)elaborazioni. È comprensibile che da parte dell’autore sussista il rifiuto ad adeguarsi all’elaborazione di un impianto ripetitivo, all’interno del quale strutturare la sua invenzione narrativa, recepita nell’attraversamento lento e deciso di territori noti. Di fatto, Giancarlo Micheli con strenua energia da essi estirpa le vicende dalla polvere, perché diventino centri di diffusione di una meta-vicenda che, svoltando da una situazione unifamiliare e adiabatica, valica luoghi, tempi e situazioni, in una convergenza che s’arricchisce di particolari e che, infine, coinvolge integralmente il lettore, il quale, quindi, dal suo punto mobile, si ritrova a concepire se stesso nella posizione di osservatore indiretto di una dettagliata corrispondenza sulla quale aleggia la condanna dell’essere ebreo.

23 febbraio 2017

«Romanzo per la mano sinistra. Conversazione con Giancarlo Micheli» di Doriano Fasoli


Giancarlo Micheli è nato nel 1967 a Viareggio, dove vive. Romanziere, poeta e saggista, è autore di tre raccolte poetiche, tra cui e La quarta glaciazione (Campanotto, 2012, finalista della XXXI edizione del premio nazionale Alpi Apuane, e dei romanzi: Elegia provinciale (Baroni, Viareggio 2007; Fratini, Firenze 2013), Indie occidentali (Campanotto, Udine 2008; premio internazionale «Nuove Lettere», XXII edizione), La grazia sufficiente (Campanotto, 2010); Il fine del mondo (Ladolfi, Novara 2016). La presente conversazione si incentra su Romanzo per la mano sinistra, un voluminoso e ambizioso romanzo storico, uscito in questi giorni per i tipi Manni, il quale traccia le vicende di due generazioni dagli anni Trenta agli anni Settanta del Novecento, raffigurando la crisi dei valori e i concomitanti contrasti politico-sociali europei.

Doriano Fasoli: Micheli, da cosa è nato lo stimolo per scrivere Romanzo per la mano sinistra?

Giancarlo Micheli: Senza dubbio, dal mio personale punto di vista soggettivo, il desiderio di scrivere questo romanzo è nato da una molteplicità complessa di motivazioni, alle quali non è stato estraneo il fatto biografico di esser divenuto padre. Misi, infatti, mano al primo dei venti quadernetti del manoscritto sul finire dell’inverno del 2011, pochi mesi prima della nascita di mio figlio Ernesto. Tra i materiali diegetici di cui il testo si compone, hanno un ruolo portante nell’architettonica dell’opera le lettere che il protagonista, Stefan Bauer, ebreo moravo perseguitato per un intreccio di circostanze che rivelano aspetti focali nel rapporto tra carattere e destino, indirizza al figlio Bruno, il quale le leggerà a distanza di anni, quando, una volta adulto, raccoglierà dal padre il testimone di eroe della storia. Cionondimeno, nell’opera letteraria epica, quale credo Romanzo per la mano sinistra possa dirsi, il punto di vista soggettivo, foss’anche quello dell’autore e delle sue maschere testuali, conta quanto quello di ogni donna, uomo o bambino che abiti il nostro insidiato pianeta.

Da un punto di vista più generale, d’altronde, l’opera letteraria non solo giustifica se stessa come totalità coerente di voci e discorsi (plurivocità e pluridiscorsività, illustrate negli studi del grande teorico del romanzo Michail Bachtin) che, in ordine ai nessi intrinseci tra di essi stabiliti, costituiscono le leggi specifiche della composizione, ma chiama a sé l’autore, il luogo dell’enunciazione, lo postula in una posizione variabile e di volta in volta modulata lungo lo sviluppo diegetico: in un certo senso l’opera crea, dunque, l’autore o, quantomeno, l’autore quale appare a chi legge. L’opera letteraria, come la vedo io, organizza la percezione del lettore per dischiuderla ad un’esperienza evolutiva, la pone in grado di emanciparsi dai meccanismi costitutivi della personalità qual è irretita nei rapporti sociali di produzione; prefigura, dunque, la liberazione dall’universo concentrazionario dell’individualismo dove ciascuno sconta la vita come pena comminata dalle leggi dell’economia capitalistica, indica, al di là di ogni prassi costrittiva o anche larvatamente parenetica, il cammino verso la coscienza di specie. A chi, oggi, abbia la fortuna di imbattersi in essa, la narrazione che risponda a questo compito gioverà con la medesima consapevolezza che i lettori eruditi nella lingua persiana già nel dodicesimo secolo potevano attingere, laddove si fossero soffermati a meditare i versi di Omar Khayyam: «Dietro un velo avviene il tuo e il mio parlare/ E quando il velo cade né tu né io ci siamo».  Scrivere oggi un romanzo – intendo uno vero, non una scimmiottatura tayloristica, a livello di psicologia individuale o di psicologia di gruppi ristretti, della divisione del lavoro invalsa nella nostra Waste Land, quella che organizza la distribuzione dei beni d’uso affinché i ratei di profitto incrementino gli scarti di produzione tanto da congestionarne lo smaltimento nella polluzione globale di una cronica crisi energetica – significa partire da questo primo velo, per proseguire a far cadere tutti quelli che la libera creatività è in grado di opporre alla catastrofe reale.

Le sue parole paiono ‘civettare’ con i postulati del ‘vecchio’ materialismo dialettico. Non le pare un tipo di approccio alla letteratura ormai suranné?

Ritengo sia invece tanto profondamente attuale da esserlo stato in ogni epoca, tra quelle di cui la coscienza umana ha fatta l’esperienza. Il materialismo dialettico è un canone di studi molto più serio e composito di quella polvere calcinata (i roghi dei libri nazisti sarebbero nient’altro che prodromi o sintomi premonitori della liquidazione delle coscienze alla quale il vigente regime globale assolve con zelo impersonale) cui le prassi politiche, durante l’intera fase matura del capitalismo, ne hanno ridotto la struttura, cosicché l’ideologia del capitalismo, a tal segno infantile ed estremistica da integrare nel proprio discorso di padroni di giorno in giorno più miserabili tutti i cataboliti logici delle false interpretazioni invalse, potesse specchiarvi, non senza profusione di godimento narcisistico, la propria ur-tragica finis humanitatis. Accanto ai capolavori di Marx – sull’abbrivio dei quali, attraverso l’economicismo staliniano ed altre nefandezze, la tecnocrazia finanziaria si è oggi resa in grado di schedare, sulla base provvisoria dei profili di reddito e consumo ancorché covi il sogno incubatorio di poterli presto determinare a priori tramite huxleyane profilassi genetiche, il promettente individuo il quale, messosi in viaggio agli albori della macchina a vapore con tutta l’onesta ingenuità di un Adam Smith o di un John Stuart Mill, evaso poi per terra e per mare con l’innocenza di un Melville o con la fatale forasticità di un Rimbaud, acconsente infine alla cinica unanimità dei delusi di questo mondo e si unisce a loro in un patto più inesorabile di quello che lo Stato totalitario, in passato, abbia potuto esigere in forza dei propri dilettanteschi strumenti di repressione – accanto ai fondamentali testi del genio di Treviri sarebbe giovevole tenere in pronta consultazione, se non quali livres de chévet, l’opera di Engels, le analisi epistemologiche di Svechnikov sulla causalità, nonché, e direi soprattutto, alcuni classici del pensiero storicistico marxista, quali Das Prinzip Hoffnung di Ernst Bloch – già anche il meno ponderoso Thomas Müntzer als Theologe der Revolution concilierebbe meglio la veglia e il sonno di chi desideri raccapezzarsi nel presente – ed ancora il tetragono Die Zerstörung der Vernunft di György Lukács.