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12 settembre 2009

«Nuova poesia italica in Marcoaldi» di Nicola D'Ugo


In Celibi al limbo (Einaudi, Torino 1995), Franco Marcoaldi ci offre una poesia autoironica, talvolta amara, schivando con l’arguzia buffonesca ogni pretesa di lirismo serioso, di letteratura alta, di sperimentalismo estroso, come vorrebbe invece la più nota poesia del secondo Novecento. Ciò che mi ha colpito di questo autore è il gioco simpatico e imperfetto delle rime, come fiori o stelle che sboccino nella testa lungo il fiume della sensazione. Una sensazione che sa tenersi, o meglio perdersi e ritornare, in un contesto riconoscibile, in un’Italia fatta di amici, illusioni, canzonature, attese e delusioni.

La poesia, con Marcoaldi, sembra ritornare a questo contesto contemporaneo, di cui ci avevano già raccontato altri linguaggi, anzitutto quello cinematografico di Moretti e quello fumettistico di Pazienza. L’Italia di Marcoaldi non è un orto montaliano, in cui l’esistenza si consuma e la vita si brucia, e non è neppure quell’Italia posteriore segnalata da Pagliarani ne La Ragazza Carla, in cui depressione e immigrazione rappresentano il contesto sociale entro cui matura, nel dolore, il boom economico degli anni sessanta. Qui ciò che si consuma sono i momenti, ciò che brucia è il desiderio, in rapida consunzione. La vita non è disillusa, ma si illude e disillude, per illudersi ancora. Il mito non è né la Rivoluzione, né la Lotta Sociale, ma, come scrive Marcoaldi, «regina Fica»: