3 marzo 2025

«Senso e intelletto nel pensiero moderno» di Luciano Albanese


Immanuel Kant


La filosofia moderna nasce quando entra in crisi il concetto di somiglianza fra percezioni e oggetti corrispondenti, il cardine di Aristotele e del materialismo ellenistico. Inversamente, la dissomiglianza fra percezioni e oggetti, ricavata dall’atomismo democriteo, era il tema centrale dello scetticismo antico, ma è solo nei tempi moderni che emergono tutte le sue potenzialità, che lo faranno diventare il motivo conduttore dei ‘nuovi filosofi’. 

 

Sesto Empirico aveva dimostrato, come già Democrito a suo tempo, che il fuoco non è ‘caldo’ e la spada non è ‘dolorosa’, ovvero che il fuoco che scalda non sente caldo e la spada che ferisce non sente dolore, quindi che le sensazioni, negli esseri senzienti, erano prodotte da cose non senzienti (Contro i matematici AM VII 357, 367-68). Conseguentemente era impossibile continuare a parlare di somiglianza fra le sensazioni e gli oggetti che le producono. Ne seguiva che le affezioni dei sensi non potevano mai attingere gli oggetti esterni, ovvero i sostrati (hypokeimena, i sostrati della tradizione aristotelica: Schizzi pirroniani PH II 74) delle affezioni stesse – pur dichiarati esistenti. Il senso, perciò, «non fornisce al pensiero gli oggetti esterni, ma si limita a enunciare la propria affezione» (AM VII 354).

 

A questo si aggiungeva che l’esperienza delle guerre europee fatta da alcuni filosofi, come Descartes, aveva dimostrato che le sensazioni possono insorgere anche in assenza degli oggetti corrispondenti. Chi aveva perso uno degli arti in battaglia continuava a sentire dolore nonostante che avesse perso il braccio o la gamba, le fonti originarie di quelle sensazioni. Inoltre, anche i sogni dimostravano che le inani visioni notturne erano in grado di produrre sensazioni sonore, tattili e olfattive dotate di un alto tasso di evidenza (la famosa enargheia comune alla scuola aristotelica, stoica ed epicurea, su cui si fondava l’ipotesi dell’esistenza di una conoscenza certa).

 

La filosofia moderna aveva ripreso in mano, e tradotto, i testi dello scetticismo antico spinta soprattutto da tre esperienze sconvolgenti, che avevano messo in crisi il vecchio sistema del mondo: la rivoluzione copernicana, lo scisma luterano e la scoperta dell’America. A partire da quelle tre date, il dubbio si era insinuato profondamente nella filosofia moderna, e chi desiderava combattere lo scetticismo emergente vedeva davanti a sé due sole opzioni possibili. Una soluzione radicale, quella di eliminare i sostrati, e dire che esistono solo le sensazioni, ovvero che percezioni e oggetti si identificano. Gli unici oggetti esistenti sono le sensazioni, esse est percipi, ovvero esistere significa essere percepiti (Berkeley nella fase dell’empirismo radicale, oggi Matrix dei fratelli Wachowski).


E una soluzione moderata, continuare ad ammettere l’esistenza dei sostrati, ma dichiarare, come già Sesto, che essi restano inattingibili, e che la nostra conoscenza può essere solo fenomenica. Questa tesi, presente già in Gassendi nella fase scettica del suo pensiero, è fatta propria da Hume: «la mente non ha mai presenti se non percezioni, e non è possibile che le riesca di conseguire esperienza alcuna della connessione delle percezioni cogli oggetti» corrispondenti (cfr. Luciano Albanese, «Sesto Empirico e David Hume», in Studi filosofici, XXII, 1999, p. 146). 

 

Questa tesi scettica è ripresa esplicitamente da Kant in un passo della Critica della ragion pura su cui probabilmente non si è riflettuto abbastanza: «noi abbiamo a che fare solo con le nostre rappresentazioni (Vorstellungen). Come possano essere le cose in se stesse (prescindendo dalle rappresentazioni mediante le quali esse ci affettano) è del tutto al di fuori della nostra sfera conoscitiva» (B 235/A 190). Mi sembra fuori discussione che Kant si allacci a una «aurea catena» che da Hume riconduce direttamente a Sesto Empirico1

 

A questo punto, tuttavia, sorgeva un problema. Alcune di queste affezioni si presentano in modo disordinato, e posso invertirle a piacimento. Altre invece, si presentano secondo una sequenza irreversibile. Sulla base delle tesi precedenti è impossibile affermare che l’ordine delle affezioni che io ricevo corrisponda all’ordine degli oggetti esterni che le suscitano, perché questo sarebbe «del tutto al di fuori della nostra sfera conoscitiva». Non mi resta che concludere, allora, che l’ordine delle affezioni è un prodotto del mio apparato categoriale, e quindi dell’Io penso. Infatti per un verso la loro oggettività, ovvero la loro irreversibilità, non posso attribuirla a una realtà fuori di me e inattingibile. Per l’altro verso, poiché ciò che è irreversibile può essere solo causale, e poiché la causalità è una categoria dell’intelletto, diventa un prodotto dell’intelletto ogni sequenza percettiva che presenti un ordine.

 

Nasce così il paradosso di una filosofia che tenta di dare oggettività a una conoscenza dichiarata solo fenomenica, cioè soggettiva, anche se soggettiva/trascendentale. Ma è difficile evitare l’obiezione che una filosofia trascendentale senza presa sulla realtà esterna non potrà restituirci un universo reale, ma solo un universo ipotetico, cioè un universo come risultato della sola immaginazione produttiva. Un modello di universo che, nella sua genesi e struttura, non sarà molto diverso da quello del vecchio sistema del mondo, sarà solo vestito a nuovo e con nuove maschere.

 

Chi tentò di battere una strada diversa, che si riallacciava al materialismo ellenistico, fu la Scuola scozzese di senso comune (Thomas Reid). La scuola scozzese non rigettò la tesi della dissomiglianza fra percezioni e oggetti, ma, adottandola e tenendone conto, aprì la strada ad una più precisa conoscenza del funzionamento dell’apparato sensibile, e ad una nuova visione del rapporto tra i sensi e la realtà esterna. Questa strada conduceva lontano dal sentiero della ricerca solo filosofica, incentrata esclusivamente sulla sfera mentale/razionale del soggetto, per approdare finalmente a quello della ricerca sperimentale, l’unico sentiero in grado di sondare il complesso universo della sfera mentale/sensibile per riuscire a dare risposte congruenti con la realtà. Basterà, a tale proposito, un solo esempio, ma molto significativo.

 

La scoperta del principio di reafferenza2, avvenuta all’inizio degli anni ’50 del ‘secolo breve’, ha risolto uno dei problemi che Kant aveva avuto almeno il merito di sollevare (nella seconda analogia dell’esperienza). Il motivo per cui non posso invertire alcune sequenze – in realtà la maggior parte di esse, cioè quelle del mondo in movimento intorno a me – non deve essere ricercato nella categoria di causa (per la buona ragione che se tutte le sequenze causali sono irreversibili, non tutte le sequenze irreversibili – anzi la maggior parte di esse – sono causali), ma in operazioni del sistema nervoso, che screma, preventivamente e senza che le funzioni intellettive entrino in gioco, le sequenze non reali da quelle reali. Si riapriva, dopo secoli, la corrispondenza tra percezioni e oggetti, e i sensi tornavano ad essere non veli, ma finestre aperte sulla realtà.

 

Sarebbe sbagliato leggere il principio di reafferenza, o altre operazioni dell’apparato sensoriale che ne fanno un insieme attivo, e non meramente passivo, come una vittoria di Kant. In Kant i sensi non possono essere fonte di conoscenza, perché non comunicano con la realtà esterna (il noumeno di Gassendi, che altro non è che l’hypokeimenon della tradizione aristotelica), ovvero, come già in Hume, essi hanno bisogno di un surrogato intellettuale per funzionare. La vera evidenza, forza e vivacità, non sta nei sensi, come poteva sembrare ad una prima lettura del Trattato di Humema nelle riflessioni dell’intelletto e dell’immaginazione intorno ad essi, che producono una forza e vivacità superiore a quella prodotta dai sensi stessi. Ciò è detto a chiare lettere nel Trattato, dove la «forza e vivacità delle impressioni» di p. 2 viene arricchita e di fatto sostituita dalla «forza e vivacità del ragionamento» (unico fondamento dell’esistenza continuata degli oggetti) di p. 199 (ed. Selby-Bigge). In questa prospettiva, comune a Hume e a Kant, il senso non è attivo, ovvero l’apparente attività del senso è in realtà esclusivamente quella dell’intelletto: il cosiddetto «carico teorico della percezione» di Popper e compagni (le cui radici sono in realtà antichissime, platoniche e neoplatoniche). Ma esiste una differenza abissale fra un intelletto che è parte costitutiva della percezione, come in Kant, e un intelletto che interpreta una percezione completamente autonoma dalle funzioni intellettive. L’errore, in questo caso, non proviene dai sensi, ma dall’intelletto che legge male quello che vede di fronte a sé.

 

Nella prospettiva scientifica, invece, il senso è certamente attivo, ma non perché è surrogato dall’intelletto, ma grazie alla sua stessa forza, che non è di natura intellettuale come in Hume e Kant, ma esclusivamente sensibile, derivando da alcune operazioni del sistema nervoso centrale e periferico, che ci danno conto, da sole e senza l’intervento di alcun ragionamento, dei caratteri essenziali del mondo circostante. Abbiamo quindi una teoria della conoscenza sensibile che non si trasforma immediatamente, come accade in Kant e negli epigoni neokantiani, in una improbabile teoria dell’esperienza scientifica, col risultato paradossale di escludere, dalla Critica della ragion pura, i caratteri fondamentali della ricerca, ovvero la fallibilità e la natura ipotetica e provvisoria della stessa. 

 

Luciano Albanese

 

(Febbraio 2025)

 

 

Note:

 

1.    L’assenza di contatti con la sensibilità spiega la necessità, per Kant, di fornire una sorta di surrogato della sensibilità all’intelletto, ovvero una sensibilità trascendentale pura, compatibile con la stessa purezza dell’intelletto: «I concetti puri a priori, oltre alla funzione dell’intelletto (nelle categorie), contengono a priori anche le condizioni formali della sensibilità, cioè la raffigurazione o schema della temporalità» (B 179-A 149). Il modello di questo intelletto sensibile, ovvero dello schematismo dell’intelletto, come ho mostrato altrove, è fornito, in ultima istanza, dalla tradizione neoplatonica, specie il segmento che va dagli Oracoli caldaici a Proclo.

2.    La teoria della reafferenza fu elaborata nel 1951 dai neurofisiologi tedeschi E. von Holst e H. Mittelstaedt per spiegare la costanza delle coordinate spaziali in cui ci troviamo, malgrado il continuo variare, a ogni movimento del corpo e degli occhi, delle immagini visive che ci circondano. In altri termini, la teoria spiega perché, quando muoviamo gli occhi, interpretiamo lo spostamento dell'immagine retinica come movimento degli occhi e non del mondo esterno. Tale costanza non può essere dovuta alla consapevolezza del fatto che gli occhi sono in movimento; infatti, se spostiamo passivamente il bulbo oculare (per esempio, mediante una leggera pressione con un dito), pur essendo consapevoli che è l'occhio a spostarsi, percepiamo nettamente la realtà circostante in movimento, perdendo la costanza di cui sopra. Secondo von Holst e Mittelstaedt ciò sarebbe dovuto al fatto che, quando dai centri effettori oculomotori cerebrali inviamo ai muscoli oculari l'ordine di compiere un certo movimento (per esempio, spostare l'occhio verso destra), all'impulso nervoso verso il muscolo si accompagna una scarica corollaria (Efferenzkopie) diretta ai centri della percezione visiva, che li preparerebbe in anticipo a ricevere lo spostamento dell'immagine retinica, e a correggerlo ripristinando la costanza. Tale teoria è stata successivamente rielaborata nel 1961 dall'americano R. Held, che ne ha comunque mantenuto le caratteristiche sostanziali. A riprova della sua validità possiamo citare due dati: l'effetto già menzionato dello spostamento passivo del bulbo oculare; la perdita di costanza è qui spiegabile in base alla mancanza dell'impulso oculomotore, e quindi della scarica corollaria, con impossibilità di correzione dello spostamento dell'immagine retinica a livello centrale; e l'effetto opposto consistente nel fatto che un soggetto con muscoli oculari paralizzati se tenta di spostare l'occhio vede la realtà circostante muoversi. In questo caso manca lo spostamento dell'immagine retinica, ed è efficace solo la scarica corollaria. Su questa base sono spiegabili anche alcuni effetti non legati alla percezione visiva, ma ad altre modalità sensoriali (per esempio, la nota illusione di Aristotele).

 

 

 

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