23 febbraio 2017

«Romanzo per la mano sinistra. Conversazione con Giancarlo Micheli» di Doriano Fasoli


Giancarlo Micheli è nato nel 1967 a Viareggio, dove vive. Romanziere, poeta e saggista, è autore di tre raccolte poetiche, tra cui e La quarta glaciazione (Campanotto, 2012, finalista della XXXI edizione del premio nazionale Alpi Apuane, e dei romanzi: Elegia provinciale (Baroni, Viareggio 2007; Fratini, Firenze 2013), Indie occidentali (Campanotto, Udine 2008; premio internazionale «Nuove Lettere», XXII edizione), La grazia sufficiente (Campanotto, 2010); Il fine del mondo (Ladolfi, Novara 2016). La presente conversazione si incentra su Romanzo per la mano sinistra, un voluminoso e ambizioso romanzo storico, uscito in questi giorni per i tipi Manni, il quale traccia le vicende di due generazioni dagli anni Trenta agli anni Settanta del Novecento, raffigurando la crisi dei valori e i concomitanti contrasti politico-sociali europei.

Doriano Fasoli: Micheli, da cosa è nato lo stimolo per scrivere Romanzo per la mano sinistra?

Giancarlo Micheli: Senza dubbio, dal mio personale punto di vista soggettivo, il desiderio di scrivere questo romanzo è nato da una molteplicità complessa di motivazioni, alle quali non è stato estraneo il fatto biografico di esser divenuto padre. Misi, infatti, mano al primo dei venti quadernetti del manoscritto sul finire dell’inverno del 2011, pochi mesi prima della nascita di mio figlio Ernesto. Tra i materiali diegetici di cui il testo si compone, hanno un ruolo portante nell’architettonica dell’opera le lettere che il protagonista, Stefan Bauer, ebreo moravo perseguitato per un intreccio di circostanze che rivelano aspetti focali nel rapporto tra carattere e destino, indirizza al figlio Bruno, il quale le leggerà a distanza di anni, quando, una volta adulto, raccoglierà dal padre il testimone di eroe della storia. Cionondimeno, nell’opera letteraria epica, quale credo Romanzo per la mano sinistra possa dirsi, il punto di vista soggettivo, foss’anche quello dell’autore e delle sue maschere testuali, conta quanto quello di ogni donna, uomo o bambino che abiti il nostro insidiato pianeta.

Da un punto di vista più generale, d’altronde, l’opera letteraria non solo giustifica se stessa come totalità coerente di voci e discorsi (plurivocità e pluridiscorsività, illustrate negli studi del grande teorico del romanzo Michail Bachtin) che, in ordine ai nessi intrinseci tra di essi stabiliti, costituiscono le leggi specifiche della composizione, ma chiama a sé l’autore, il luogo dell’enunciazione, lo postula in una posizione variabile e di volta in volta modulata lungo lo sviluppo diegetico: in un certo senso l’opera crea, dunque, l’autore o, quantomeno, l’autore quale appare a chi legge. L’opera letteraria, come la vedo io, organizza la percezione del lettore per dischiuderla ad un’esperienza evolutiva, la pone in grado di emanciparsi dai meccanismi costitutivi della personalità qual è irretita nei rapporti sociali di produzione; prefigura, dunque, la liberazione dall’universo concentrazionario dell’individualismo dove ciascuno sconta la vita come pena comminata dalle leggi dell’economia capitalistica, indica, al di là di ogni prassi costrittiva o anche larvatamente parenetica, il cammino verso la coscienza di specie. A chi, oggi, abbia la fortuna di imbattersi in essa, la narrazione che risponda a questo compito gioverà con la medesima consapevolezza che i lettori eruditi nella lingua persiana già nel dodicesimo secolo potevano attingere, laddove si fossero soffermati a meditare i versi di Omar Khayyam: «Dietro un velo avviene il tuo e il mio parlare/ E quando il velo cade né tu né io ci siamo».  Scrivere oggi un romanzo – intendo uno vero, non una scimmiottatura tayloristica, a livello di psicologia individuale o di psicologia di gruppi ristretti, della divisione del lavoro invalsa nella nostra Waste Land, quella che organizza la distribuzione dei beni d’uso affinché i ratei di profitto incrementino gli scarti di produzione tanto da congestionarne lo smaltimento nella polluzione globale di una cronica crisi energetica – significa partire da questo primo velo, per proseguire a far cadere tutti quelli che la libera creatività è in grado di opporre alla catastrofe reale.

Le sue parole paiono ‘civettare’ con i postulati del ‘vecchio’ materialismo dialettico. Non le pare un tipo di approccio alla letteratura ormai suranné?

Ritengo sia invece tanto profondamente attuale da esserlo stato in ogni epoca, tra quelle di cui la coscienza umana ha fatta l’esperienza. Il materialismo dialettico è un canone di studi molto più serio e composito di quella polvere calcinata (i roghi dei libri nazisti sarebbero nient’altro che prodromi o sintomi premonitori della liquidazione delle coscienze alla quale il vigente regime globale assolve con zelo impersonale) cui le prassi politiche, durante l’intera fase matura del capitalismo, ne hanno ridotto la struttura, cosicché l’ideologia del capitalismo, a tal segno infantile ed estremistica da integrare nel proprio discorso di padroni di giorno in giorno più miserabili tutti i cataboliti logici delle false interpretazioni invalse, potesse specchiarvi, non senza profusione di godimento narcisistico, la propria ur-tragica finis humanitatis. Accanto ai capolavori di Marx – sull’abbrivio dei quali, attraverso l’economicismo staliniano ed altre nefandezze, la tecnocrazia finanziaria si è oggi resa in grado di schedare, sulla base provvisoria dei profili di reddito e consumo ancorché covi il sogno incubatorio di poterli presto determinare a priori tramite huxleyane profilassi genetiche, il promettente individuo il quale, messosi in viaggio agli albori della macchina a vapore con tutta l’onesta ingenuità di un Adam Smith o di un John Stuart Mill, evaso poi per terra e per mare con l’innocenza di un Melville o con la fatale forasticità di un Rimbaud, acconsente infine alla cinica unanimità dei delusi di questo mondo e si unisce a loro in un patto più inesorabile di quello che lo Stato totalitario, in passato, abbia potuto esigere in forza dei propri dilettanteschi strumenti di repressione – accanto ai fondamentali testi del genio di Treviri sarebbe giovevole tenere in pronta consultazione, se non quali livres de chévet, l’opera di Engels, le analisi epistemologiche di Svechnikov sulla causalità, nonché, e direi soprattutto, alcuni classici del pensiero storicistico marxista, quali Das Prinzip Hoffnung di Ernst Bloch – già anche il meno ponderoso Thomas Müntzer als Theologe der Revolution concilierebbe meglio la veglia e il sonno di chi desideri raccapezzarsi nel presente – ed ancora il tetragono Die Zerstörung der Vernunft di György Lukács.

5 febbraio 2017

«Su Freud e Pirandello. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli


Gabriele Pulli è autore di diversi libri, che hanno toccato temi anche molto diversi fra loro ma con un unico filo conduttore che è la sua personale ricerca, con un’impronta specifica molto marcata. Da diversi anni insegna Psicologia filosofica e Psicologia dell’arte e della letteratura nei corsi di laurea triennale e magistrale di Filosofia all’Università di Salerno. E a queste discipline si possono ricondurre due suoi brevi ma intensi libri usciti recentemente: Il brivido dell’eterno. Su Pirandello e Freud (Clinamen, Firenze 2016) e Freud e l’enigma della negazione (Alpes, Roma 2017).

Doriano Fasoli: Partiamo dal primo: Perché questo titolo? E perché questo libro?

Gabriele Pulli: Mi è sembrato che nei Sei personaggi in cerca d’autore fosse racchiuso qualcosa di più profondo di quel dramma dell’identità che viene generalmente rilevato, quello per cui non siamo uno ma tanti, e diversi, «diversissimi», a seconda delle diverse persone con cui entriamo in rapporto, «“uno” con questo, “uno” con quello», dice Pirandello. Mi è sembrato persino che ciò in se stesso non fosse neanche un dramma e che lo diventasse solo alla luce di questa dimensione più profonda. Pirandello definisce l’opera d’arte come qualcosa che «vive per sempre» e definisce la fantasia che dà luogo all’opera d’arte come ciò di cui si serve la natura «per proseguire, più alta, la sua opera di creazione». Per la fantasia dunque, intesa appunto come un più elevato ordine di realtà, tutto è eterno. Ma se tutto è eterno è eterno anche il dolore. I sei personaggi infatti incarnano ciascuno una variazione sul tema del dolore. Dal testo emerge dunque come il percorso verso un’eternità che possa essere solo desiderata, in quanto salvezza dall’angoscia dell’annullamento, s’imbatta nell’ostacolo di un’eternità che può essere solo temuta, in quanto eternità del dolore. Dunque una cupa negatività su un cammino luminoso. Mi è sembrato che la vita più intima del dramma pirandelliano fosse qui. E la scelta del titolo – per rispondere alla prima parte della sua domanda – è derivata appunto da quest’idea. Rivolgendosi al capocomico, il padre osserva come la realtà dei sei personaggi sia immutabile e come a causa di ciò l’accostarsi a loro dovrebbe provocare un brivido. Se il capocomico avesse veramente capito, se avesse intuito la natura dei sei personaggi, dinanzi a loro avrebbe avuto un brivido: appunto il brivido dell’eterno.

Lei dice che nei Sei personaggi si può individuare qualcosa di più profondo del dramma dell’identità, ma il nesso fra l’opera di Pirandello e quella di Freud viene individuato in genere nella comune percezione della complessità del problema dell’identità. Come si presenta il nesso fra i due autori nel suo libro? 

Mi è sembrato che nell’opera di Freud ci fosse una tensione analoga a quella che ho appena cercato di descrivere a proposito dell’opera di Pirandello. Se in Pirandello per la fantasia tutto è eterno, in Freud per l’inconscio tutto è eterno. E se per Pirandello la fantasia dà luogo a un più elevato ordine di realtà, per Freud l’inconscio è la «vera realtà psichica». Ma questa eternità e atemporalità dell’inconscio è anche, soprattutto, la causa della patologia psichica. Ora, secondo la mia ricostruzione, ciò avviene in ultima analisi perché, anche in questo caso, se tutto è eterno è eterno anche il dolore. In tal modo mi è sembrato che si potesse comprendere qualcosa in più dell’enigmatico fenomeno della coazione a ripetere le esperienze spiacevoli, ma anche del fenomeno, che dev’essere considerato altrettanto enigmatico, della rimozione. 

Tutto questo percorso a quali conclusioni l’ha portato?

Nella conclusione del libro mi sono chiesto appunto cosa si possa fare: se sia preferibile rinunciare alla sfera dell’atemporalità per liberarsi dal dolore o rinunciare a liberarsi dal dolore per accedere alla sfera dell’atemporalità. E mi è sembrato di poter rispondere che queste due opposte prospettive si danno insieme contemporaneamente, al punto che ciascuna può avere un’efficacia e un valore – fino a corrispondere a una possibilità di cura della sofferenza psichica – in virtù della sua capacità di attivare contemporaneamente l’altra. Mi dispiace di non riuscire a essere più chiaro, ma mi è difficile rispondere sinteticamente.

L’altro, ancor più recente, libro Freud e l’enigma della negazione fa parte di uno stesso percorso. In che modo vi si inserisce? 

La coazione a ripetere e la stessa rimozione, che ho appena ricordato, implicano il tema del negativo, dunque della negazione. È un tema su cui mi sono soffermato in diverse circostanze. In questo libro lo faccio in un modo diverso, cioè dedicando l’intero testo al breve scritto freudiano del 1925 «La negazione». È uno scritto che è stato molto autorevolmente studiato, e definito di volta in volta oscuro, vertiginoso, stupefacente, enigmatico. Mi è sembrato che nonostante i contributi importanti acquisiti sin qui, ci fossero ancora dei nodi da sciogliere: che l’enigma fosse ancora lì. E ho cercato di proporne una soluzione.