Visualizzazione post con etichetta poetry. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta poetry. Mostra tutti i post

28 dicembre 2020

«Il covid ha preso Collagna nella sua generosa montagna» di Nicola d’Ugo



A Orly e alla mia gente

Come una valanga,

come una vanga,

il covid ha preso Collagna

nella sua generosa montagna,

seme della mia carne,

carne dei miei pensieri.

 

Confido nella forte fibra

dei miei compaesani,

nella pelle dura che non teme

i geloni invernali,

nel nugolo di calli nelle mani,

negli avvinazzati e briosi

canti montanari.

 

Confido nella loro tempra,

loro ce la faranno tutti

o quasi, anziani, adulti e bambini.

Tu Orlando, cuore nel mio cuore,

maestro di vita e fratello,

possa il cielo e la nostra carne

e i semi che fanno alberi e fiori e amori

tenerti in vita coma una goccia

sul viso, perché sei stato bello,

un dolcissimo fratello maggiore,

coi controcazzi, come si dice in gergo,

gesti tuoi nei miei gesti, carne tua

nella mia carne e in quella dei miei cuginetti.

 

Vanga, valanga e frutti che s'aprono

al sole e alla neve, che ci ubriacano d'amore.

No, Collagna, non sarà rasa al suolo,

non sarà decimata da questo morbo.

Conterà i suoi morti sapendo

che non sono numeri gli uomini.

Collagna resisterà a tutto questo

come sempre, nei secoli. 

 

Nicola d’Ugo

 

(Lerici, 3 dicembre 2020)

 

 

 

 

 

3 giugno 2018

«Sei poesie de 'Gli alberi, per esempio'» di Costantino Belmonte




La contr’ora

osservazione in agosto, il 16


Sembra faccia paura lo sfoltirsi
di persone,
dalla fine di luglio a degradare,
                               nel buio. Ma il diradarsi di vite
comporta l’infittirsi di vita – la fluente,
infiltrante, inaridente, dilagante gloria
negli spazi liberi.
                 Gli spruzzi di oro antico sulle siepi
basse sono già minaccia – e le gocce numerate
della pioggia nell’afa che non bagna
                                             neanche se stessa.
Le cicale
hanno sfregato a fondo, sminuzzando
gli angoli annerati di un minuto
solare. Lungo il ritorno a casa
se ne calpesta l’opera, la segatura
di miliardi di corolle
tenere, la scia di sangue verde ed ocra
ripulita dai plotoni di api.
                  E qualche desiderio, un brano
di conversazione, tre sospiri si levano
in volute di polveri, raspati dalle elitre violente
degli insetti; ricadendo quiete.

La piazza che si rende ora
desertica mi fa più compagnia. La popolo
con le presenze certe di chi
immagino siano.



* * * 

Gli alberi, per esempio

osservazione in Febbraio, il 22


Fronde di testimoni, ecco, per esempio
                                         gli alberi.
Su quali
              fondali
devastati stanno imperturbabili. Assediati
da quante vite
                brute si schiomano. E non
se ne vanno. In autunno,
per stanchezza, 
                         sfogliano.
                         Agli
alberi, seriamente, non importa.


1 aprile 2018

«For Easter | Per Pasqua» di David Plante


Correggio, «Noli me tangere», 1524.



A small red votive lamp in a dim church
Lights up a thin man nailed to a cross,
Illumination enough to see what men do
To make other men suffer, and for this
There can only be helpless pity,
And if there can be in pity belief
To hold us back from what we do,
The belief must rise from how far we
Rise up from where the wounded
And the dead lie in our broken fields,
And where, in cold rain, an old woman
Searches for her son, if we can rise at all.


Una minuta rossa lampada votiva in una buia chiesa
rischiara un uomo smilzo inchiodato a una croce,
illuminazione bastevole per far vedere cosa facciano
gli uomini per far soffrire altri uomini, e per questo
non può esserci che fragile pietà,
e se nella pietà potrà esserci un credo
per trattenerci da quel che commettiamo,
tal credo deve adergersi come, a distanza, 
ci risolleviamo da dove feriti
e morti son distesi nei nostri campi di battaglia,
e da dove, nella pioggia fredda, una vecchia
cerchi il figlio, se solo potessimo rialzarci.


* * *

I know there is no resurrection
From the dead, but I let the bright idea
Revolve above my head and wonder
How such brightness occurred to anyone,
And think: a miraculous conception
Of what can’t be, and so, my love, you,
Smiling, with arms held out to me,
Conceived in me miraculously.


So che non esiste la resurrezione
dei morti, ma lascio che la splendida idea
mi volteggi sulla testa e mi domando
come un tale splendore sia capitato a chiunque,
e penso: un concepimento miracoloso
di ciò che essere non può, e così, amor mio, tu,
sorridendo, con braccia a me protese,
in me hai miracolosamente concepito.

* * *

The dead man did what the dead can’t do,
He pressed his bony back against the stone
And hefted it so it fell away, and he stood
And saw, far out, the stars, and he raised
His arms, and, knowing he couldn’t fly, he flew
Out to where he was constellated in the dark sky.


Il morto fece quello che i morti non possono fare,
puntò la schiena ossuta contro la pietra
e la spinse facendola cader via, e si levò
e vide, in lontananza, le stelle, e sollevò
le braccia, e, sapendo di non poter volare, scappò
verso dove nel cielo scuro fu ammantato di stelle. 


(March / Marzo 2018) 

(trad. di Nicola d’Ugo)




30 agosto 2015

«Vita, morte: un paese che incollana», di Antonio Melillo

 

 

Vita, morte: un paese che incollana
d’ocra una collina, una bimba
che stende dita al greve voltolare
d’una foglia, un ruscello che si sfronda
sui sassi d’un passante d’auto.

Fuggire la felicità di luogo
in clima per non essere infelici.
Pigri contro i frantumi d’una fede,
senz’aspettarsi nulla di meglio.
Ecco, ritorna un amaro di mare.

E lei ch’è salita precipitando
non ha pace quanto me. Serrano
tempi diversi, ma la stessa guerra
di trincea – attesa – che non dà senso
al ch’io recida ogni nodo ravvolto

fin qui, al friccicare dei ciottoli,
a ogni ritorno di risacca.
Vorrei ricogliere della conchiglia
i frutti della primavera,
amorosa coi suoi viali ampi

trascorsi negli occhi. E spalle di carpini,
fianchi d’ippocastani, gambe d’olmi
resilienti al vento. Sebbene un mare,
muliebre onnipresenza contro
la flebile astanza d’esserci,

costretta e non voluta, putrido
di putredine, fracido di foglie
(quell’attimo che ci conobbe
divenendo entrambi altro: ed ora un tetro
di tedio, un dio buio di nulla), ci stringa

sotto un cielo ripido. Così contro
l’inverno un arruffo di pigolii
tra le rame magre s’arrischia
per trattenersi in vita. Ed una sola
domanda: Perché?

 

Antonio Melillo

 

 

10 maggio 2015

«Cinque poesie da ‘Il fuoco dello sguardo. Collected Poems’» di John Berger

 

Pages

Word by word I describe
you accept each fact
and ask yourself:
what does he really mean?
Quarto after quarto of sky
salt sky
sky of the placid tear
printed from the other sky
punched with stars.
Pages laid out to dry.
Birds like letters fly away
O let us fly away
circle and settle on the water
near the fort of the illegible.

1972

 

Pagine

Parola per parola io descrivo
tu accetti ogni fatto
e ti chiedi:
che cosa vuole veramente dire?
Un in quarto dopo l’altro di cielo
di cielo sale
di cielo della lacrima placida
impresso dall’altro cielo
trapunto di stelle.
Pagine stese ad asciugare.
Uccelli volano via come lettere
Oh sì voliamo via
volteggiamo e posiamoci sull’acqua
vicino alla fortezza dell’illeggibile.

1972

 

* * *

Story Tellers

Writing
crouched beside death
we are his secretaries
Reading by the candle of life
we complete his ledgers
Where he ends,
my colleagues,
we start, either side of the corpse
And when we cite him
we do so
for we know the story is almost over.

1984

 

Narratori

Scriviamo
accucciati ai piedi della morte
siamo i suoi segretari
Leggiamo al lume della vita
e ne compiliamo i libri mastri di pietra
Dove lei finisce,
colleghi miei,
cominciamo noi, ai lati della salma
E quando la nominiamo
è perché ormai
si sa che la storia è quasi finita.

1984

 

5 maggio 2014

«Rapsodia ultramarina», di Angelo Tonelli

Angelo Tonelli




Una grande città, meridionale
ma con corti sprecate, miserabile,
a ombre fitte, androni senza raggi
di sole che traspaiano. La musica
del cosmo c’è anche qui
che senti grida ottuse, che le donne
ammassano gioielli alla rinfusa
di aranci e melograni, di conchiglie.
A mille a mille i giorni si aggrovigliano
dentro le mura, in mormorii confusi,
palpiti brevi, dischiudersi di ciglia.

* * *


Mediterraneo d’argento, re disfatto
di microscopici reami,
di città invisibili
scavate nel sale – il Pireo1
trabocca di patate appena fritte
dentro le stive delle navi azzurre
e rovesciate in darsena.
                                            Se non fosse che il vicolo
della Madonna Cieca è reso in buona parte impercorribile
da montagne di tchai2, dal miele
che le api dell’Acropoli distillano
all’alba su tutta la città.
                                            Ci restano l’Eufrate
e il Nilo per rinascere, papiri
e sabbia e pietra bianca: senza vento
era il deserto, e tu sorgevi
e i pescherecci andarono tutti alla deriva,
invano governati da marinai di quarzo.
Se il tempo non tradisse, se perpetue
fiorissero, nel cuore, andalusie,
se fosse musica
l’aria che respiriamo, le parole
frammenti di cristallo…

* * *

10 dicembre 2013

Luigia Sorrentino translated by Alfred Corn: "We had gone up the mountain" ("eravamo saliti sul monte")

 


We had gone up the mountain
Toward the monumental face of a temple
Broken in pieces
After the battle all had been swept away
Death had opened itself up
One of us had left the ground behind
We stopped looking for anything
In the woodland twilight.

Someone will, as we did, see
With renewed clarity
The fallen hero in those stones.

 

Transl. by Alfred Corn

 

* * *

eravamo saliti sul monte
verso la colossale figura del tempio
ridotto in macerie
dopo la terribile lotta tutto era svanito
la morte si era aperta
uno di noi aveva abbandonato il suolo
non cercavamo più nulla
nell’azzurra penombra del bosco

qualcuno vedrà come noi
l’eroe caduto nella pietra
in fresca chiarezza

(Olimpia di Luigia Sorrentino. Novara: Interlinea, 2013, p. 93)

 

24 febbraio 2013

«Gli insorti» di Luigia Sorrentino


Nella foto, Luigia Sorrentino


noi fummo poco o nulla
poi, notte e niente
quel che non esisteva
spuntava lento e largo
di molti altri,
nel nome di colui che venne
la carne si avventò su noi
l’uno nell’altro ci stringemmo
il corpo sollevato
dal nostro forte peso
chiede l’umano il movimento
la notte adolescente canta
il cuore orfano del nulla

* * *


allargando lo sterno respirano
accorrono verso lo scudo fisso
provati dalla lotta, dalla necessità
vengono da lontano, nel concatenarsi
di vivi e di morti
con un tocco immediato il tronco
sostiene il rifiuto totale
la mappa di un mondo risale alla luce
ormai privo d’acqua
abitato solo dal vento
niente rispondeva dalla montagna
solo quel rivolgersi così umano
scompariva dietro la nuvola


[ dalla silloge poetica di Luigia Sorrentino, Olimpia, Interlinea, Novara 2013, pp. 77-78 ]

4 febbraio 2013

"Atrocities" / «Le atrocità», by / di Siegfried Sassoon


Siegfried Sassoon durante la Prima guerra mondiale


You told me, in your drunken-boasting mood,
How once you butchered prisoners. That was good!
I'm sure you felt no pity while they stood
Patient and cowed and scared, as prisoners should.

How did you do them in? Come, don't be shy:
You know I love to hear how Germans die,
Downstairs in dug-outs. "Camerad!" they cry;
Then squeal like stoats when bombs begin to fly.

And you? I know your record. You went sick
When orders looked unwholesome: then, with trick
And lie, you wangled home. And here you are,
Still talking big and boozing in a bar.

* * *


M'hai raccontato, sentendoti ringalluzzito dalla sbornia,
di come hai massacrato i prigionieri. Bella roba!
Son certo che non provavi pietà mentre se ne stavano in piedi
pazienti e sottomessi e spaventati, come lo sono i prigionieri.

Come li hai finiti? Su, non fare il timido:
sai che mi piace sentire come muoiono i tedeschi,
là, sotto le barricate. "Camerad!" gridano;
poi squittiscono come ermellini quando fioccano le bombe.

E tu? Conosco il tuo curriculum. Stavi male
quando gli ordini ti sembravano un pericolo: poi, con sotterfugi
e bugie, ti sei intascato il rimpatrio. Ed eccoti qui,
sempre a fare lo spaccone ubriaco dentro a un bar.



(Traduzione di Nicola D'Ugo)