Una grande città, meridionale
ma con corti sprecate, miserabile,
a ombre fitte, androni senza raggi
di sole che traspaiano. La musica
del cosmo c’è anche qui
che senti grida ottuse, che le donne
ammassano gioielli alla rinfusa
di aranci e melograni, di conchiglie.
A mille a mille i giorni si aggrovigliano
dentro le mura, in mormorii confusi,
palpiti brevi, dischiudersi di ciglia.
* * *
Mediterraneo d’argento, re disfatto
di microscopici reami,
di città invisibili
scavate nel sale – il Pireo1
trabocca di patate appena fritte
dentro le stive delle navi azzurre
e rovesciate in darsena.
Se non fosse che il vicolo
della Madonna Cieca è reso in buona parte impercorribile
da montagne di tchai2, dal miele
che le api dell’Acropoli distillano
all’alba su tutta la città.
Ci restano l’Eufrate
e il Nilo per rinascere, papiri
e sabbia e pietra bianca: senza vento
era il deserto, e tu sorgevi
e i pescherecci andarono tutti alla deriva,
invano governati da marinai di quarzo.
Se il tempo non tradisse, se perpetue
fiorissero, nel cuore, andalusie,
se fosse musica
l’aria che respiriamo, le parole
frammenti di cristallo…
* * *
L’isolotto battuto dal mare
resisteva malcerto, il mistral 3
incalzava dalla Provenza. Rari, immobili
gabbiani si ostinavano contro il velo
non visibile del vento. Il biondo
pescatore o pastore che fosse, soffocando,
reggeva il timone d’oro dell’isola4. Tu a poppa, assordata
non dal mare, da parole
che il nocchiere gridava controvento
come scaglie di sale in piena luce.
È sempre quella
la mitica parola monosillaba
che tende le sue reni. Con il crepuscolo
si attenua. Si placa
soltanto a notte fonda.
(Ma il passero era lui, che dentro noi
cinguetta e muore implume, inutilmente
imboccato, scaldato, si abbandona
appena abbandonato; invece l’altro5
camminava come un gatto sulle tombe,
estraeva rubini sotto ammassi di polvere,
inseguiva piovre e cernie negli abissi
e li mordeva con un sorriso
proprio sopra la testa: «Mio figlio
l’ho chiamato Albatros,» rideva nel guidarci sulle scale
e tutto il castello rideva,
rideva l’isola e il mare).
* * *
Il calendario datava giorni persi
nell’ozio. Il mare fuori rimbombava
dal retrobottega, già spirava
odore di lavanda e cartapesta.
A un tratto mi trovai riverso a destra
sepolto dai ricordi. La finestra
guardava il lungomare, il pesce azzurro
friggeva gaiamente: la mia festa
ormai era finita, la mia nékyia
si preparava. «Ad Aghios Nikolaos6
siamo stati bambini.
I cigni, l’uccello paradiso
filavano sott’acqua nello stagno
di Artemide o Afrodite, gerani
o anemoni spalancavano
bocche ridenti. Si abbattevano con tonfi sordi
le statue dalla riva, a una a una,
robot di marmo al segno stabilito
da qualche micidiale slot machine».
* * *
«I giorni sono lievi, noi più lievi
non ne udiamo il passo
veloce. Con settembre
tutto diventa lucido, ragiono
soltanto sul finire dell’estate,» dicevi dischiudendo
le labbra di corallo a un sorriso
tagliente (la morte gira sulle piazze
di tutte le città, segretamente:
meglio restare chiusi tra le mura
già zitti e sbigottiti in precedenza,
per tirarla più in lungo: è questo il ritornello che ripetono
le madri alle bambine, quando fuori
il temporale spara lampi e tuoni
sui muretti tirati a secco,
sui gufi appollaiati in mezzo ai rami,
sui comignoli che fumano, su tutto).
C’è una grande città sotto la terra
di gesso bianco, tutta traforata,
luminosa nei suoi viali di vetro.
Lì passeggiano i morti e non conoscono
parole, ma soltanto
uno scivolare lento di penombre, l’intrico
di iridescenze vuote. La leggenda
racconta che nelle notti di luna
riemergono i defunti
e gli gnomi e le fate e le creature
non reali, che non saranno mai
tali. (Le moriture
fragili scivolanti siamo noi
che non scorgiamo la linea che si accende nel folto a indicare
la via precipitante rapida in sentieri
di ombra tra le cose, la Via Opaca
Velata o Lattescente, come disse
il vecchio riempiendoci il bicchiere.
Ci ritornammo a stento in piena neve
spezzando trame fitte di ginepri,
inciampando nelle colonne frantumate
del tempio di Athena, nei petali
delle giunchiglie; stanze vuote,
drappeggi impolverati, voci rare
ridenti da ogni angolo, fiammelle
accese e presto spente: di tesori
nessuna traccia, solo la soffitta
che brulica di topi, due monete
coniate di recente, carta straccia.
Uscimmo alla radura. «Lì le Perle
compaiono e spariscono,» dicevano,
«formando statue effimere di blande
divinità notturne di entroterra.»
«Nel folto non tornare, ribisbigliano
disfacendosi in puntini iridescenti,
continua verso destra, non tentare
i morbidi segreti delle fronde.»)
È questa la mia agarttha7, senza luce
ma fitta di ricordi, brevi strie
di attimi guizzanti, come vanno
le faville nel buio della notte
chiara di San Giovanni e, culminando,
sprofondano in silenzi cupi e assorti.
A non parlarne, a tenderle le palme
e ancora a disperarne, a non vederla
nel giorno, comparisse, nella notte,
nel traffico, nel centro delle cose,
tra noi la dea febbrile, vegetale
ergendosi felice, gigantesca,
che stilla giorni nuovi, a piena musica.
* * *
La fiamma della candela tremolava
proiettando ombre lunghe
sulla pagina bianca, la più bella
pagina bianca, l’ultima perfetta
di autentico destino. Vento freddo
filtrava dalla finestra aperta.
Riverso sul candore della pagina,
giaceva Mallarmé, il foglio bianco
in silenzio tramandava il suo èpos garrulo.
Il pensiero del poeta è un filo tra le cose
non dette, da non ridire mai,
di impalpabile presenza, ponte
di seta tra il rigoglio e l’appassire…
E c’ è una complicità quasi di infanzia
tra tutti noi viventi, qualcosa
di mansueto e triste di cui ci vergogniamo, come quei momenti
di abbandono, dietro il banco di scuola.
Ma Rimbaud
percorreva a grandi passi il lungomare di Marsiglia
con un pugno di lucciole in mano
e le scagliava in corsa contro il sole
come una bomba al napalm, devastante.
Poi si accovacciava nel vestito buono
della prima comunione e sognava di vendere armi
a sceicchi e sultani.
Rimbaud non è mai morto, si racconta
tuttora nei corridoi del sanatorio
con un bisbiglio forte, sempre più forte
che copre la risacca, e il traffico della sera.
Accovacciati restiamoci anche noi
che l’ora si fa tarda, che rimbomba
già l’eco, da lontano, non di tuoni
ma di colpi secchi di cannone.
La giovinezza ride, tra due guerre
sepolta. L’angoscia,
sepolta anch’essa, mesce vino e noia
nel banchetto dal dio
non baciato. In agonia
smarrita tra due secoli sorride
la giovinezza bionda. Esplode
in chiome lucenti Cassiopea. Il Cane abbaia
memorie contro Sirio. Tra due termini
netti di sacrificio, la gioventù
affranta ride
petali d’oro nella notte scura (ma tu
intonavi un girotondo e raccontavi
di rare bacche rosse, di regioni
coperte dal ghiaccio tutto l’anno,
di un sole che non sorge mai. Ridevi
e correvi verso il pergolato di glicine che il primo vento di ottobre
diradava a foglia a foglia.
E poi?)
Quando ero bambino
spiavo i gradi del termometro nei momenti di febbre
per riguardarlo poi sul pavimento
caduto e infranto
in migliaia di perline impazzite
tintinnanti parole argentate. Compariva
la vecchia con la testa di vetro
percorsa da reticoli contorti
di vene e arterie colme di mercurio e mi fissava
sfogliando all’impazzata crisantemi.
Ma nei giorni di luglio
quando il mare brulica di rondini e farfalle e le sardine
assetate di brezza rimbalzano
sulla coda a cielo aperto e i delfini
siedono in cravatta e doppiopetto sui ponti delle navi
la Madonna del Basilico, mai nata,
galleggia tra le alghe, verso sera,
se è vera la storia che raccontano
i pescatori di Capo Passero
ai nipoti, quando ritirano le reti gettando pesci d’oro
su mucchi di garofani e gerani.
La Madonna ha gote di arancio
e compare vicino alle pozzanghere
e ai nidi delle gazze. Vive sola
in fondali di perla e di corallo.
«Ho visto in sogno
una grande spiaggia, tutta di sale,
e un fiume che stentava a farsi largo
tra i papaveri e il mare.
E io, più che correre, arrancavo
tra papaveri e sale e acqua di mare.
Poi una nube densa come miele
sorgeva dal fondale e mi avvolgeva.
Morivo. Sorrideva da lontano
qualche rovina ellenica, e tutto il paese
sorrideva. Ma la spiaggia di Sète8
non nominarla mai.»
* * *
L’estate è già finita, quella vera
e quella dei vent’anni. Già l’autunno
ci spia dai viali d’oro e dalle fonti
di Granada e Versailles.
Il re ritorna
avvolto nel mantello di velluto, giallo come le fronde
se il sole di settembre le percorre.
Ma la nostra compiutezza è il fiorire
profondo della carne, il dilatarsi
del cuore e delle labbra. È l’armonia
dei corpi che si intrecciano, lo spasimo
leggero, il battito di ciglia.
La nostra compiutezza è racchiudere
in noi tutto il tripudio dei colori
e le ombre, come fa il canto breve
ma sempre più ostinato, più sicuro
dei passeri nel folto, verso sera.
* * *
«Ottobre ci seduce a occhi tersi,
elettrico, lucente, per scintille
di acini che esplodono allo squillo
di rare biciclette in viali spogli
di umani ma ricchi di una folla
di pampini e giuncaie scompigliate
dal vento. Se ne colmano le corti
dei castelli in abbandono. I rampicanti
si staccano in rigoglio dalla terra.
È un istinto, il salire
nella maturità del giorno, a ora a ora,
verso una qualche meta da animali
svezzati finalmente. A pelo lucido
come il naso dei cani in pieno inverno
il mondo sale ebbro, poi trabocca.
Così il grappolo straripa dalle botti
se la mano di un vecchio non lo stempera,»
diceva a piena gola il vendemmiante
dai baffi folti, dai capelli neri, e correva ansimando
tra balconi azzurri, case bianche
stracolme di lenticchie e uva passa
dove il vino governa le sorti
di uomini fulgenti nell’ebbrezza
perpetua di giorni tutti uguali.
* * *
«I vecchi hanno mani feconde
per tenere ogni cosa
in equilibrio elegante
lungo gli orli del tempo.»
Ma guardali d’ inverno, quando un lampo
di invidia li attraversa a ogni guizzo
di giovinezza, e guarda
l’improvviso incupirsi dello sguardo
che rabbuia ogni cosa nei paraggi.
Eppure nei paesi di montagna,
ad Aghios Vianos, a Mithi e a Kritsà9,
ai loro sguardi sgorgavano polle d’acqua,
fiorivano i bucaneve, l’erba scintillava;
dal giro delle carte, dalle volute
lente del fumo dipendeva
il silenzio incerto tra pioggia e neve,
l’immobile rispecchiarsi delle cime
nel lago, la vertigine pacata
della parete Nord. E il tepore delle piume.
* * *
Tra di noi regna l’ombra. Febbraio
è il mese della morte. Sua la forza
ottusa del sangue, sue le perle
sepolte nella polvere.
I gabbiani
sono in pace con gli uomini,
ne disperdono le memorie all’orizzonte
scagliandole in grida acute contro il sole,
maturano stagioni tra le ali
scivolando sulle acque. Il mare
è desiderio senza fine
e pausa al desiderio, è tempo
e fuga dal tempo. Chiaro oblìo.
* * *
Combray è ancora intatta, rare luci
ribrillano nel buio e già spariscono
veloci tra le foglie inumidite
dall’ultimo acquazzone giù in giardino.
Ma le madeleinettes sanno di sale,
di miele di Siviglia e Siracusa,
di mandorle di piume di vaniglia
e fieno, di città che si aggrovigliano
nel sole. Il Dio del Grano
volge distrattamente verso Sud.
(settembre-novembre 1983)
Note:
- È il porto di Atene, frenetico, squallido e assolato crocevia per le isole e per il Mediterraneo.
- Tipica bevanda cretese, a base di erbe.
- Vento di mare che soffia nel mezzogiorno, e corrisponde al nostro maestrale.
- È l’isolotto davanti a Capo Passero, nell’estremo sud della Sicilia. Mi ci condusse, in barca, il matto del paese, che cantava sempre poiché glielo aveva consigliato il dottore.
- Un pescatore di Capo Passero dai modi decisi e guasconi.
- Cittadina di Creta, il primo centro che raggiunsi una volta sbarcato a Heraklion; vicino al lungomare c’è un laghetto di acqua dolce.
- Mitica città sotterranea degli zingari o degli esoterici.
- Città della Francia meridionale.
- Paesini nell’isola di Creta.
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