Nelle foto, da sinistra, lo scrittore viennese Arthur Schnitzler e il regista newyorkese Stanley Kubrick.
La rivisitazione dei miti è un esercizio tipico dei grandi artisti d’ogni tempo, sia perché per affettività e modo di guardare l’universo mondo essi ne son stati la spiante toppa e la chiave, sia perché il mito non calza piú con le necessità loro. La rivisitazione, oltre che un tributo, s’offre come un tradimento di grande fedeltà che rende col tramando linfa novella alla tradizione. Un tale omaggio è tipico del cinema, che abbisogna di soggetti che la letteratura non ha smesso di apportare. Eyes Wide Shut (1999) non è nato dalla penuria di soggetti, né da una conversione allo psicologismo schnitzleriano, che in Kubrick v’è sempre stato.
La psicologia dello scrittore viennese tratteggia con minuto rigore lo Shining (1980), benché l’omonimo romanzo di Stephen King ne sia il soggetto: qui si trattava di tessere l’azione a partire dall’immaginario dei suoi caratteri, per render giustizia all’importanza che il vissuto riveste nelle umane cose. Ne era metafora la ‘guerra’, tema caro al regista newyorkese, in seno a una famiglia con pochi contatti o punto col mondo esterno. V’era poi un gioco con gli spettatori, nel fargli credere che Jack Torrance fosse la fonte d’ogni male, irretendoli nei loro luoghi comuni. L’horror, poi, veniva nobilitato all’estrema potenza da un rigore formale che metteva a tema la società americana, il razzismo e il ruolo del lavoro nella modernità.