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15 novembre 2009

«Riprendere la differenza: 'Doppio sogno' di Schnitzler e 'Eyes Wide Shut' di Kubrick» di Nicola D'Ugo





Nelle foto, da sinistra, lo scrittore viennese Arthur Schnitzler e il regista newyorkese Stanley Kubrick.



La rivisitazione dei miti è un esercizio tipico dei grandi artisti d’ogni tempo, sia perché per affettività e modo di guardare l’universo mondo essi ne son stati la spiante toppa e la chiave, sia perché il mito non calza piú con le necessità loro. La rivisitazione, oltre che un tributo, s’offre come un tradimento di grande fedeltà che rende col tramando linfa novella alla tradizione. Un tale omaggio è tipico del cinema, che abbisogna di soggetti che la letteratura non ha smesso di apportare. Eyes Wide Shut (1999) non è nato dalla penuria di soggetti, né da una conversione allo psicologismo schnitzleriano, che in Kubrick v’è sempre stato.

La psicologia dello scrittore viennese tratteggia con minuto rigore lo Shining (1980), benché l’omonimo romanzo di Stephen King ne sia il soggetto: qui si trattava di tessere l’azione a partire dall’immaginario dei suoi caratteri, per render giustizia all’importanza che il vissuto riveste nelle umane cose. Ne era metafora la ‘guerra’, tema caro al regista newyorkese, in seno a una famiglia con pochi contatti o punto col mondo esterno. V’era poi un gioco con gli spettatori, nel fargli credere che Jack Torrance fosse la fonte d’ogni male, irretendoli nei loro luoghi comuni. L’horror, poi, veniva nobilitato all’estrema potenza da un rigore formale che metteva a tema la società americana, il razzismo e il ruolo del lavoro nella modernità.

27 ottobre 2009

«'Girotondo' di Arthur Schnitzler al Teatro Eliseo» di Nicola D'Ugo


La versione di Girotondo (tit. or. Reigen, 1900) di Arthur Schnitzler, messa in scena da Pietro Carriglio in questi giorni al Teatro Eliseo di Roma, si presenta adorna, fin dal sipario ancora calato, di una veste klimtiana. Le betulle di Gustav Klimt, che velano la scena, affiorando e svanendo per l’intera rappresentazione, suggeriscono la doppia natura austro-ungarica di diletto e riservatezza, racchiudendo in un muro permeabile di tronchi verticali l’improvvisa lucentezza che macchia di chiarore il centro del dipinto: gioia, ma riservata, attorniata da un ammiccante separé arboreo, che nega accesso allo sguardo, ma non all’intrusione della carne. Gioia dei sensi e riservatezza, ossia quella mediocrità tutta particolare della Vienna di inizio Novecento, della cui pelle culturale ci restano le indimenticabili pagine de La marcia di Radetzky di Joseph Roth.

L’accostamento di Schnitzler e Klimt, due autori coevi, caratterizza questa versione di Girotondo. Il Klimt pseudo-paesaggista, qui scelto come leitmotiv scenografico, pulsa di una passionalità vitale, di pura energia, apparentemente conchiuso in una razionalità degli spazi; se non fosse che la passione, venendo prima e dopo ogni regolazione cosciente dell’uomo, ingloba la razionalità stessa, implodendo. In Klimt la vita è memoria di colori, non di linee. In termini classici, la scena rappresentata da Klimt è un’incessante sottomissione dell’apollineo al dionisiaco (e questo vale anche per Schnitzler). L’uso che si fa di Klimt in questa versione di Pietro Carriglio è decorativa, retaggio della nostra produzione di massa: oggetti floreali che conferiscono cromatismo a una scena del resto scabra. La scelta è rischiosa, anche se va indubbiamente incontro a un tentativo di rendere meno vieta l’ambientazione viennese del dramma schnitzleriano, privandolo dell’aura di più di un secolo fa. Eppure, per far questo, non sarebbero mancati esperiti espedienti: si sarebbe potuta utilizzare l’ambientazione anacronistica e contemporanea dell’Edoardo II di Derek Jarman; o insaporire il dramma di un colorito locale, come nel film La Ronde di Max Ophüls, versione francofona di Girotondo, così ricca di gastronomia e impressionismo pittorico.

9 settembre 2009

«Arthur Schnitzler e l'insostenibile insicurezza dell'immaginazione. 'Doppio sogno'» di Nicola D'Ugo


Arthur Schnitzler,
Doppio sogno,
Adelphi, Milano 1998.
A cura di di Giuseppe Farese.
131 pp. EUR 8,00

«Non si può ipotecare il futuro.»
Arthur Schnitzler, Doppio sogno

Traumnovelle di Arthur Schnitzler, ovvero Doppio sogno, è un romanzo in bilico fra il sogno e la realtà, nell’avventura immaginativa del protagonista, il medico trentacinquenne Fridolin, sospinto verso situazioni nuove, e sempre insondate fino in fondo, da un impellente desiderio di riscattarsi.

A partire dalle «due maschere in domino rosso» incontrate la sera prima a una festa, il protagonista recupera nella memoria la «ragazza giovanissima» della spiaggia in Danimarca, già annunciando il carattere più simbolico che reale che lo porterà a una rassegna di incontri amorosi con la figlia di un paziente, Marianne, «seduta ai piedi del letto» del padre appena deceduto, con la «passeggiatrice» Mizzi, con la «pazza» Pierrette, con la donna mascherata che si sarebbe «sacrificata» per lui in una segreta villa libertina. Sono per lo più, lo si noti, figure giovani. La bagnante pare al protagonista «giovanissima, forse quindicenne.» Mizzi è «una creatura graziosa, ancora molto giovane, pallidissima, le labbra tinte di rossetto» e ha «diciassette» anni. Pierrette è una «ragazza graziosa e giovanissima, quasi una bambina.» Marianne «tre o quattro anni fa, aveva ventitré anni», mentre la donna mascherata resta anonimamente senza volto e senza età: «ombra fra le ombre» simile «a una diciottenne come a una trentottenne.»