29 dicembre 2014

«Psicoanalisi della vita quotidiana. Conversazione con Antonio Alberto Semi» di Doriano Fasoli













Antonio Alberto Semi è membro ordinario con funzioni di training della Società psicoanalitica italiana ed è stato direttore della Rivista di Psicoanalisi. Tra i suoi lavori, ricordiamo La coscienza in psicoanalisi (2003) e Il metodo delle libere associazioni (2011), editi da Raffaello Cortina, così come il suo libro più recente, dal quale prende le mosse la presente conversazione.

Doriano Fasoli: Come è nata l’idea di quest’ultimo suo lavoro, Psicoanalisi della vita quotidiana?

Antonio Alberto Semi: Questa è una domanda difficile per uno psicoanalista. Come nascono le idee? Da dove vengono? Come si formano? Ma non voglio sfuggire, voglio solo dire che la risposta è inevitabilmente incompleta. Se sto a come me la ricordo io, l'idea è nata a poco a poco, forse proprio dalla difficoltà di mettere a fuoco un qualcosa che mi accorgevo girare per la testa e che ritornava in mille modi, ma, anche, in modi apparentemente scollegati. Mi accorgevo che scrivevo degli articoli quasi per fissare degli appunti per un futuro lavoro, che però restava sempre lì. Intendo dire che c'era qualcosa dentro di me che lottava contro la prospettiva, effettivamente poco allegra, di mettere a fuoco un concetto inquietante: quello della attuale intollerabilità della soggettività, con tutto quel che essa implica sul piano della diversità, della singolarità e, però, anche dell'eguaglianza; siamo davvero tutti diversi uno dall'altro. E naturalmente c'era anche la resistenza ad accorgermi quanto la cultura, Kultur, attuale mi condizionasse. Uno pensa sempre di pensare con la propria testa, e invece… Così ho pensato, in definitiva, di costruire un libro che mostrasse almeno in parte questo lavorio.

Può spiegare perché, come suona il sottotitolo, «L’umanità è in pericolo»?

Il sottotitolo è molto etnocentrico. Ma per ragioni di sintesi non poteva essere altrimenti. Quello che intendevo indicare è il pericolo che il progetto nobile della nostra cultura, dal Rinascimento in poi, subisca o stia subendo una brusca svolta regressiva. Come del resto capita nella storia: lo sappiamo purtroppo bene. Ovvio, poi, che si trattava solo di una parte delle tendenze della nostra cultura, ma Dio solo sa quanto importante. In fondo, per dirla in termini antropomorfici, l'Europa ha puntato tutto sull'individuo, sul suo sviluppo, sulle sue potenzialità e, soprattutto, sulla sua capacità di sviluppare la soggettività. Da un affare di pochi, questo è diventato un affare di molti; e poi perfino (la Rivoluzione francese) un diritto di tutti. Con alti e bassi, con crisi spaventose, ma con anche vertici meravigliosi, siamo giunti fino a vedere, ahinoi, la cosiddetta crisi del soggetto e, soprattutto, la rivolta sociale e politica contro il progetto di sviluppo della soggettività. La Shoah è stata il suggello di questa reazione, con la negazione dell'esistenza dell'individuo-soggetto e lo schiacciamento dell'individuo su un'identità di gruppo. I tedeschi mandavano al lager «gli ebrei», non il Tizio o il Caio: che questi avessero una loro storia o vicenda personale era del tutto irrilevante.

Beh, quel che mi chiedo io – e non solo io, naturalmente – è se la reazione anti-soggetto non abbia continuato a svilupparsi in Occidente, benché sotto altre forme. Il tutto è complicato dal fatto per cui lo sviluppo dell'Occidente (e ora anche del resto del mondo) è legato moltissimo allo sviluppo delle capacità psichiche dell'individuo. Se nel Medio Evo le capacità di pensare anche in termini astratti potevano essere limitate o richieste specificamente ai pochi monaci e intellettuali, a qualche mercante, perfino a qualche nobile, oggi è necessario che le capacità di ragionamento e di problem solving siano estese a moltissimi e i ‘moduli’ di ragionamento che passano attraverso i mezzi di comunicazione sono spesso molto complessi ed elaborati. In questo senso, un cognitivismo piatto può essere solo uno strumento conformista della tendenza culturale in atto. Sennonché, il problema che si pone alle forze della repressione è subito questo: come fare a sviluppare le capacità di pensiero e a inibire contemporaneamente lo sviluppo della soggettività, la quale rompe le regole, non si conforma, non si adatta, crea sì qualcosa di nuovo, ma a spese del ‘già noto’ e del ‘già dato’? Il pericolo non è che il computer la vinca sull'essere umano, ma che l'essere umano divenga un computer, pena l'esclusione. Il grande assente, in questa dinamica repressiva, è il desiderio. Perché il desiderio è sempre anche, perlomeno, sessuale; e rompe, come tale, gli schemi, le regole. Se poi si pensa che oggi, contrariamente ai tempi di Freud, l'individuo sta diventando pleonastico anche dal punto di vista riproduttivo…

9 dicembre 2014

«Il senso equoreo», un racconto di Romana Petri

Romana Petri

 

Qui, nessuno obbliga nessuno a fare nulla. Solo che casa mia è piena di libri. È per via del lavoro che faccio. E le biblioteche vengono sistemate con un ordine preciso, anche se ognuno ha il suo. Voglio dire che puoi decidere in molti modi, in ogni caso se la Letteratura sta da una parte, la Saggistica starà da un'altra, e così per i libri d’Arte, quelli di Storia, di Musica. A quel punto devi decidere se catalogare tutto per ordine alfabetico e per Paese. Io lo faccio per Paese e gli scaffali della letteratura americana sono proprio a portata di mano di un bambino. Cominciano dal terzo a sinistra e proseguono giù, fino a terra. Calcolando che gli scaffali sono quattro per fila, la letteratura americana, a casa mia, occupa dodici scaffali.

Una volta, mia moglie ed io ce lo siamo detti:

Prima o poi dovremo rimetterci le mani.

Quando?, ho domandato io.

Quando i bambini cominceranno a crescere. Non vorrai mica lasciare qualsiasi cosa alla loro portata, vero?

I libri come le medicine?, ho chiesto io facendo dello spirito.

Piantala, Giuseppe, ha risposto lei. Hai capito benissimo quello che voglio dire. Sì, in un certo senso i libri proprio come le medicine. Almeno fino a una certa età.

E poi il discorso è finito lì, ce ne siamo dimenticati. Il nostro figlio maggiore è arrivato all’età di 11 anni e tutti i libri sono rimasti al posto loro. Non lo so nemmeno se è stata casualità. In fondo, sono un tipo rigoroso, non certo di quelli che accumulano. Ho avuto sempre la passione di far fuori i libri non necessari. Non necessari per me. È una questione di spazi. Le biblioteche non mi sono mai piaciute affollate. Con il mestiere che faccio, poi, se lasciassi ai libri che arrivano l’agio di fare i comodacci loro, di piazzarsi in casa mia ad libitum… Nisba, qui da me, i libri hanno lo sfratto facile. Si chiama "quel numero" (con mia moglie diciamo così) e arriva un omino, si carica i cartoni che abbiamo messo davanti alla porta di casa, e certi volumi se ne vanno, escono di scena, vanno a fare i libri a metà prezzo da qualche altra parte.