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16 febbraio 2018

«Quattro morti e un funerale: “L’uomo dal fiore in bocca… e altre storie”» di Cinzia Baldazzi





L’uomo dal fiore in bocca… e altri strani casi
di Luigi Pirandello

(Dalle novelle «La tragedia di un personaggio»,
«Piuma», «Pubertà», «Da sé»,
«L’uomo dal fiore in bocca»
e con le poesie «Notte insonne», «Andando»,
«Io sono così»)

Adattamento e regia: Patrick Rossi Gastaldi
Interpreti: Edoardo Siravo, Gabriella Casali,
Stefania Masala, Carlo Di Maio
Scene: Lisa Dori De Benedittis
Costumi: Teresa Acone
Luogo: Teatro Ghione, Roma.
Data: 22 novembre – 3 dicembre 2017
Produzione: GHIONE produzioni



«… Un morto, che pure è un morto, caro mio, vuole anche lui la sua casa. E se è un morto per bene, bella la vuole». A parte i puntini sospensivi, incipit della novella di Luigi Pirandello «La vita nuda» (1907), di per sé misteriosi (magari era accaduto qualcosa prima: ma dove, se è l’inizio della voce narrante?), l’affermare «un morto […] è un morto», oltre a sottolineare di voler concedere credibilità, con quell’elusivo «pure», a un’evidente tautologia, non mostra, forse, di contenere un enigma insolubile? Scendiamo in campo aperto, quindi, assistendo alla pièce pirandelliana L’uomo dal fiore in bocca… e altri strani casi, con Edoardo Siravo, allestita dal regista e adattatore Patrick Rossi Gastaldi. La mise en scène è dedicata a quattro insigni «novelle per un anno» sviluppate intorno al pauroso Thánatos (θάνατος), addio estremo dell’umanità, figlio della Notte (o di Astrea) per partenogenesi (o da Erebo), nonché fratello gemello di Ipno (Ὕπνος), dio del Sonno, e in alcuni documenti appellato «Legione Suprema».

Ormai vicina al Teatro Ghione di Roma, sono carica di aspettative e pronta a varcare, con ragione e fantasia, ripetuti orizzonti dell’ovvio e dello scontato, per cogliere chissà quale messaggio morale e pragmatico. Collocato in uno spazio centrale del pressbook, leggo:

Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina… Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi e morire.

A parlare è la figura principale de «La carriola» (1917), commendatore, professore e avvocato di successo, valido esempio – offerto in termini simbolici – di coscienza civile e sociale: è opinione diffusa quanto l’amore per gli animali sia sempre tipico degli uomini evoluti – pre-animalisti o non – al pari del rinomato giurista.

Tuttavia, l’egregio personaggio-creatura, a causa di controversie esistenziali, per evadere così per un attimo dalla prigione della forma vuota della routine quotidiana, a un tratto decide di vendicarsi degli schemi razionali ed etici imposti, per mezzo della vecchia cagna, lupetta di famiglia «bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja». Senza percosse o sevizie, per carità, bensì afferrandole con garbo «le due zampine di dietro» e costringendola a «fare la carriola». Confessa, difatti, con candore:

«[L]e faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro». Concludendo a sorpresa sulla povera bestiola: «Comprende […] la terribilità dell’atto che compio […]; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita».

Trascorso un anno dal racconto, nel Messaggero della Domenica del 30 luglio 1918 – nel periodo di uscita, con la Treves, della raccolta delle opere teatrali intitolata Maschere nude – Pirandello firmò un curioso saggio di natura non conciliatoria sui rapporti intrecciati o meno dai drammaturghi con la letteratura, supponendo che costoro, se interpellati, avrebbero gradito rimanere distanti da un simile contesto. Eccetto l’Enrico IV, le commedie dell’Autore nascono ognuna da una traccia narrativa: nell’articolo, appunto, si domanda: «Resta però da vedere – non essendo letteratura – come e sotto qual nuova specie debbano essere considerati quei loro drammi e quelle loro commedie, quando da copioni diventano libri, quando dalla buca del suggeritore passano nella vetrina d’un librajo, non più scritti a macchina ma stampati da un editore».

5 febbraio 2017

«Su Freud e Pirandello. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli


Gabriele Pulli è autore di diversi libri, che hanno toccato temi anche molto diversi fra loro ma con un unico filo conduttore che è la sua personale ricerca, con un’impronta specifica molto marcata. Da diversi anni insegna Psicologia filosofica e Psicologia dell’arte e della letteratura nei corsi di laurea triennale e magistrale di Filosofia all’Università di Salerno. E a queste discipline si possono ricondurre due suoi brevi ma intensi libri usciti recentemente: Il brivido dell’eterno. Su Pirandello e Freud (Clinamen, Firenze 2016) e Freud e l’enigma della negazione (Alpes, Roma 2017).

Doriano Fasoli: Partiamo dal primo: Perché questo titolo? E perché questo libro?

Gabriele Pulli: Mi è sembrato che nei Sei personaggi in cerca d’autore fosse racchiuso qualcosa di più profondo di quel dramma dell’identità che viene generalmente rilevato, quello per cui non siamo uno ma tanti, e diversi, «diversissimi», a seconda delle diverse persone con cui entriamo in rapporto, «“uno” con questo, “uno” con quello», dice Pirandello. Mi è sembrato persino che ciò in se stesso non fosse neanche un dramma e che lo diventasse solo alla luce di questa dimensione più profonda. Pirandello definisce l’opera d’arte come qualcosa che «vive per sempre» e definisce la fantasia che dà luogo all’opera d’arte come ciò di cui si serve la natura «per proseguire, più alta, la sua opera di creazione». Per la fantasia dunque, intesa appunto come un più elevato ordine di realtà, tutto è eterno. Ma se tutto è eterno è eterno anche il dolore. I sei personaggi infatti incarnano ciascuno una variazione sul tema del dolore. Dal testo emerge dunque come il percorso verso un’eternità che possa essere solo desiderata, in quanto salvezza dall’angoscia dell’annullamento, s’imbatta nell’ostacolo di un’eternità che può essere solo temuta, in quanto eternità del dolore. Dunque una cupa negatività su un cammino luminoso. Mi è sembrato che la vita più intima del dramma pirandelliano fosse qui. E la scelta del titolo – per rispondere alla prima parte della sua domanda – è derivata appunto da quest’idea. Rivolgendosi al capocomico, il padre osserva come la realtà dei sei personaggi sia immutabile e come a causa di ciò l’accostarsi a loro dovrebbe provocare un brivido. Se il capocomico avesse veramente capito, se avesse intuito la natura dei sei personaggi, dinanzi a loro avrebbe avuto un brivido: appunto il brivido dell’eterno.

Lei dice che nei Sei personaggi si può individuare qualcosa di più profondo del dramma dell’identità, ma il nesso fra l’opera di Pirandello e quella di Freud viene individuato in genere nella comune percezione della complessità del problema dell’identità. Come si presenta il nesso fra i due autori nel suo libro? 

Mi è sembrato che nell’opera di Freud ci fosse una tensione analoga a quella che ho appena cercato di descrivere a proposito dell’opera di Pirandello. Se in Pirandello per la fantasia tutto è eterno, in Freud per l’inconscio tutto è eterno. E se per Pirandello la fantasia dà luogo a un più elevato ordine di realtà, per Freud l’inconscio è la «vera realtà psichica». Ma questa eternità e atemporalità dell’inconscio è anche, soprattutto, la causa della patologia psichica. Ora, secondo la mia ricostruzione, ciò avviene in ultima analisi perché, anche in questo caso, se tutto è eterno è eterno anche il dolore. In tal modo mi è sembrato che si potesse comprendere qualcosa in più dell’enigmatico fenomeno della coazione a ripetere le esperienze spiacevoli, ma anche del fenomeno, che dev’essere considerato altrettanto enigmatico, della rimozione. 

Tutto questo percorso a quali conclusioni l’ha portato?

Nella conclusione del libro mi sono chiesto appunto cosa si possa fare: se sia preferibile rinunciare alla sfera dell’atemporalità per liberarsi dal dolore o rinunciare a liberarsi dal dolore per accedere alla sfera dell’atemporalità. E mi è sembrato di poter rispondere che queste due opposte prospettive si danno insieme contemporaneamente, al punto che ciascuna può avere un’efficacia e un valore – fino a corrispondere a una possibilità di cura della sofferenza psichica – in virtù della sua capacità di attivare contemporaneamente l’altra. Mi dispiace di non riuscire a essere più chiaro, ma mi è difficile rispondere sinteticamente.

L’altro, ancor più recente, libro Freud e l’enigma della negazione fa parte di uno stesso percorso. In che modo vi si inserisce? 

La coazione a ripetere e la stessa rimozione, che ho appena ricordato, implicano il tema del negativo, dunque della negazione. È un tema su cui mi sono soffermato in diverse circostanze. In questo libro lo faccio in un modo diverso, cioè dedicando l’intero testo al breve scritto freudiano del 1925 «La negazione». È uno scritto che è stato molto autorevolmente studiato, e definito di volta in volta oscuro, vertiginoso, stupefacente, enigmatico. Mi è sembrato che nonostante i contributi importanti acquisiti sin qui, ci fossero ancora dei nodi da sciogliere: che l’enigma fosse ancora lì. E ho cercato di proporne una soluzione. 

6 ottobre 2013

«Il mancato suicidio di Luigi Pirandello. Conversazione con Marcello Turno», di Doriano Fasoli

Marcello Turno è medico psichiatra e psicoanalista, membro della International Psychoanalitic Association e della European Federation for Psychoanalytic Psychotherapy in the Public Sector. Insegna nel corso di laurea triennale e della laurea magistrale di Psicologia del Dipartimento di Scienze Umane della Lumsa di Roma.
Autore di numerosi saggi e curatele, ha recentemente pubblicato Una notte senza luna. Manuale di base per l'orientamento degli operatori psicogeriatrici per i tipi La Biblioteca by ASPPI. Vive e lavora a Roma.
Il mancato suicidio di Luigi Pirandello (pubblicato da Alpes a dicembre) è un riuscito tentativo di coniugare il saggio con la finzione. Un componimento che grazie a una scrittura veloce, pur facendo ricorso a concetti che rimandano a Sigmund Freud, a Melanie Klein e a Ignacio Matte Blanco, si concede solo parzialmente al linguaggio complesso della psicoanalisi.
Come scrive nella prefazione Fiorangela Oneroso, la scioltezza, la gradevolezza, la felice leggibilità di questo denso saggio sta nel fatto che Turno affronta il tema dello sdoppiamento, o della duplicità, procedendo sempre in modo scientificamente rigoroso ma con un'agile scrittura letteraria.

Doriano Fasoli: Pirandello in treatment: qualche lettore, sull'onda di questo popolare serial sulla psicoanalisi, ha così definito questo suo saggio/finzione. Lo possiamo affermare?

Marcello Turno: In un certo qual modo è vero, anzi lo si dice nel libro stesso: se Pirandello in un momento particolare della sua vita si fosse rivolto a uno psicoanalista cosa avrebbe potuto raccontargli? Certamente la sua storia, ma attraverso la finzione letteraria de Il fu Mattia Pascal.

Ma Pirandello e Turno come si sono incontrati?

Alcuni decenni fa… I Sei personaggi in cerca d'autore, per intenderci. Una rivelazione, una violazione della logica teatrale e del pensiero razionale. Un sogno, una pura espressione dell'inconscio, su cui Matte Blanco molto ha scritto. Ma quello fu un incontro fugace e perturbante. Poi, a metà degli anni Ottanta mi occupai di una messa in scena per teatro-danza sulla vita di Pirandello. Fu in quella circostanza che, seguendo le sue tracce ancora visibili, incontrai persone che avevano conosciuto sia lui che sua moglie, potei acquisire particolari sulla loro vita, lessi molte opere, ma, soprattutto notizie sulla sua vita. E fu così che capii che Il fu Mattia Pascal era il romanzo più autobiografico della sua vita. E nella veste di Mattia Pascal, Pirandello è andato in analisi, svelando i suoi desideri più profondi e allo stesso tempo irrealizzabili.