16 febbraio 2018

«Quattro morti e un funerale: “L’uomo dal fiore in bocca… e altre storie”» di Cinzia Baldazzi





L’uomo dal fiore in bocca… e altri strani casi
di Luigi Pirandello

(Dalle novelle «La tragedia di un personaggio»,
«Piuma», «Pubertà», «Da sé»,
«L’uomo dal fiore in bocca»
e con le poesie «Notte insonne», «Andando»,
«Io sono così»)

Adattamento e regia: Patrick Rossi Gastaldi
Interpreti: Edoardo Siravo, Gabriella Casali,
Stefania Masala, Carlo Di Maio
Scene: Lisa Dori De Benedittis
Costumi: Teresa Acone
Luogo: Teatro Ghione, Roma.
Data: 22 novembre – 3 dicembre 2017
Produzione: GHIONE produzioni



«… Un morto, che pure è un morto, caro mio, vuole anche lui la sua casa. E se è un morto per bene, bella la vuole». A parte i puntini sospensivi, incipit della novella di Luigi Pirandello «La vita nuda» (1907), di per sé misteriosi (magari era accaduto qualcosa prima: ma dove, se è l’inizio della voce narrante?), l’affermare «un morto […] è un morto», oltre a sottolineare di voler concedere credibilità, con quell’elusivo «pure», a un’evidente tautologia, non mostra, forse, di contenere un enigma insolubile? Scendiamo in campo aperto, quindi, assistendo alla pièce pirandelliana L’uomo dal fiore in bocca… e altri strani casi, con Edoardo Siravo, allestita dal regista e adattatore Patrick Rossi Gastaldi. La mise en scène è dedicata a quattro insigni «novelle per un anno» sviluppate intorno al pauroso Thánatos (θάνατος), addio estremo dell’umanità, figlio della Notte (o di Astrea) per partenogenesi (o da Erebo), nonché fratello gemello di Ipno (Ὕπνος), dio del Sonno, e in alcuni documenti appellato «Legione Suprema».

Ormai vicina al Teatro Ghione di Roma, sono carica di aspettative e pronta a varcare, con ragione e fantasia, ripetuti orizzonti dell’ovvio e dello scontato, per cogliere chissà quale messaggio morale e pragmatico. Collocato in uno spazio centrale del pressbook, leggo:

Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina… Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi e morire.

A parlare è la figura principale de «La carriola» (1917), commendatore, professore e avvocato di successo, valido esempio – offerto in termini simbolici – di coscienza civile e sociale: è opinione diffusa quanto l’amore per gli animali sia sempre tipico degli uomini evoluti – pre-animalisti o non – al pari del rinomato giurista.

Tuttavia, l’egregio personaggio-creatura, a causa di controversie esistenziali, per evadere così per un attimo dalla prigione della forma vuota della routine quotidiana, a un tratto decide di vendicarsi degli schemi razionali ed etici imposti, per mezzo della vecchia cagna, lupetta di famiglia «bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja». Senza percosse o sevizie, per carità, bensì afferrandole con garbo «le due zampine di dietro» e costringendola a «fare la carriola». Confessa, difatti, con candore:

«[L]e faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non piú, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro». Concludendo a sorpresa sulla povera bestiola: «Comprende […] la terribilità dell’atto che compio […]; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita».

Trascorso un anno dal racconto, nel Messaggero della Domenica del 30 luglio 1918 – nel periodo di uscita, con la Treves, della raccolta delle opere teatrali intitolata Maschere nude – Pirandello firmò un curioso saggio di natura non conciliatoria sui rapporti intrecciati o meno dai drammaturghi con la letteratura, supponendo che costoro, se interpellati, avrebbero gradito rimanere distanti da un simile contesto. Eccetto l’Enrico IV, le commedie dell’Autore nascono ognuna da una traccia narrativa: nell’articolo, appunto, si domanda: «Resta però da vedere – non essendo letteratura – come e sotto qual nuova specie debbano essere considerati quei loro drammi e quelle loro commedie, quando da copioni diventano libri, quando dalla buca del suggeritore passano nella vetrina d’un librajo, non più scritti a macchina ma stampati da un editore».

Il quesito viene esteso da Pirandello lungo tappe piuttosto sostanziose e sviluppa inoltre il meccanismo logico-intuitivo di concretizzazione tra le quinte della stesura di una pagina. Guido Davico Bonino osservava:

Come sanno i teatromani giramondo, a Mosca o a San Pietroburgo, in occasione di particolari allestimenti cechoviani, il pubblico viene omaggiato di plaquettes che raccolgono i racconti dello scrittore, da cui egli stesso trasse alcuni drammi.
Abbiamo citato questo caso anche perché riteniamo che Čechov, e prima di lui Maupassant, e dopo di lui Pirandello, costituiscono davvero la terna dei maestri del «narrar breve» dell’Otto-Novecento.

Dalle note di regia, scopro come vedrò elaborate e traslate sulla scena, dall’unità di lessico e messaggio originaria, «cinque novelle e alcune poesie incastrate una nell’altra dove lo stesso Pirandello, dopo aver analizzato alcuni personaggi dei suoi racconti, si immerge in prima persona in altri personaggi, compresa la novella La morte addosso (L’uomo dal fiore in bocca)». In quale procedura, però? A precisarlo è Rossi Gastaldi, tentando «disperatamente di capire la follia angosciosa che la vita stessa attanaglia, confonde, e altera il nostro breve percorso terreno. Con costante ironia e crudeltà, provoca così il desiderio irrefrenabile della morte e nello stesso tempo la paura di morire». I «folli e ossessivi personaggi… in cerca di un autore» saranno così Edoardo Siravo insieme a Carlo Di Maio, Stefania Masala e Gabriella Casali.

Entrando nell’elegante foyer del Ghione, riflettevo quanto sin dall’infanzia abbia molto amato i gioielli del repertorio novellistico mondiale, preferendoli alle pur eccezionali, inquietanti e inarrivabili sorelle tramutate in chiave rappresentativa: seduta in platea, difesa dal timore di svegliarmi “trasformata in asino”, per riecheggiare Collodi, il mio stato d’animo era da paragonare all’auspicio di godere per un paio d’ore «una vera cuccagna». Valutando ancora i consigli dell’articolo menzionato, Pirandello sosteneva:

I signori autori drammatici, professionisti del teatro, scrivono male, non solo perché non sanno o non si sono mai curati di scriver bene, ma perché credono in coscienza che lo scriver bene a teatro sia da letterati, e che bisogni invece scrivere in quel certo modo parlato come scrivon loro, che non sappia di letteratura, perché i personaggi dei loro drammi e delle loro commedie – dicono – non essendo letterati, non possono parlare sulla scena come tali, cioè bene; debbono parlar come si parla, senza letteratura. Così dicendo, non sospettano neppur lontanamente ch’essi confondono lo scriver bene con lo scriver bello, o piuttosto, non vedono di cadere in questo errore: che scriver bene significhi scriver bello; e non pensano che lo scriver bello di certi falsi letterati è, di fronte all’estimativa estetica, per un eccesso contrario, lo stesso vizio del loro scriver male.

In una siffatta struttura di pensiero, la letterarietà non collima a priori con l’arte autentica, in egual misura nella ‘bella scrittura’ e in chi, viceversa, ‘scrive male’: se non al patto di far «parlare i personaggi in una forma letteraria, cioè in un linguaggio non parlato e per se stesso letterario. Questo è scriver bello. Bisogna far parlare i personaggi come, dato il loro carattere, date le loro qualità e condizioni, nei vari momenti dell’azione, debbono parlare»: in analogia, è quanto succede nell’allestimento di Rossi Gastaldi e nella performance degli attori da lui messi in gioco e, per eccellenza, del generoso e dialettico Siravo-Pirandello. Ed eccolo, nei panni del Narratore della «Tragedia d’un personaggio», lamentarsi:

È mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle. Cinque ore, dalle otto alle tredici. M'accade quasi sempre di trovarmi in cattiva compagnia. Non so perché, di solito accorre a queste mie udienze la gente più scontenta del mondo, o afflitta da strani mali, o ingarbugliata in speciosissimi casi, con la quale è veramente una pena trattare.

E poi:

Ma bisogna anche aggiungere che per mia disgrazia non sono di facile contentatura. Sopportazione, buona grazia, sì; ma esser gabbato non mi piace. E voglio penetrare in fondo al loro animo con lunga e sottile indagine.

E già, proprio il mitico e geniale antagonista delle false illusioni, alleato sicuro in coraggiosa ironia, consapevolezza e proteste, è con il pubblico all’apertura del sipario: nonostante l’attore, in una precisa scelta di regia, rinunci a identificarsi con il drammaturgo, nella fisicità e nel timbro vocale interlocutorio (come parlasse l’Autore, nella cronaca, lo abbiamo appreso dai nastri audio relativi al Premio Nobel del 1934). Appare remota, quindi, l’operazione mimetica intrapresa negli anni ’80 – in uno spettacolo memorabile – dal triestino Mario Maranzana: ingobbito, in un raffinato idioma siciliano arrovellava giudizi di esperienza avvalorati da una gestualità esplicativa (cedendo poi spazio, con lentezza, al compaesano Italo Svevo).

Siravo è, au contraire, un Pirandello disposto a ragionare con e per noi nella storia, nei dolori, nei bersagli colpiti o mancati. Eccolo alto, robusto e con la barba, in un completo grigio sartoriale, a camminare intorno a un tavolo di legno di discreta classe: in un habitat parallelo, molte volte ho provato, con la massima energia della fantasia, a figurarmi il Maestro nella vita, nell’umanità e nella sfera creativa interpretata per sé e per gli altri. Dalla sua “postazione di lavoro”, scrutando cartelle e appunti, afferma:

Orbene, i personaggi delle mie novelle vanno sbandendo per il mondo che io sono uno scrittore crudelissimo e spietato. Ci vorrebbe un critico di buona volontà, che facesse vedere quanto compatimento sia sotto a quel riso. Ma dove sono oggi i critici di buona volontà?

Da parte mia, sorrido e risponderei: «Siamo tanti!». Poi, però, presumo sia meglio tacere, almeno per ora, e tentare di intuire cosa capita lì, dietro e nei pressi dell’attaccapanni con un cappello poggiato sopra, e in foreground, con suppellettili polifunzionali destinate nel procedere della serata ad assumere ruoli differenti: un prisma rettangolare foderato di tessuto scuro e una chaise longue senza braccioli terminata da un cuscino a volute rialzato. Avanzano dalla quinta di sinistra, sistemandosi in zone distinte del palco, un uomo in coordinato nero e due donne: sono fasciate da vestiti attillati con bustini stretti, copricapi piumati e acconciature barocche e vaporose. Dunque, nella «Tragedia d’un personaggio», in questa plurima «novella nella novella», non domina una pacifica coincidenza tra il racconto utilizzato e una sorta di meta-riflessione su di essa; l’obiettivo è piuttosto agevolare un taglio esegetico, provocatorio, sui fini e sui veicoli semiologici del narrare tradizionale.

L'inizio illustra un'udienza, tra le abituali, dedicata dallo scrittore alle proprie creature insoddisfatte, per discutere di sé e degli altri, del come desidererebbero agire: in misura assai felice, è sviluppato il discorso del ridere e del piangere fondamentale nell’indimenticabile L’umorismo. La ‘parola’ del genio della letteratura mondiale, incarnata da un personaggio in doppio petto dalla fisionomia vagamente familiare, è pronunciata in un atto dalla chiave semiotica confidenziale. Rivolta al lettore-ascoltatore, anticipa le tematiche di Remo Bodei:

La verità non consiste sempre nel mettere a posto subito tutti gli elementi del puzzle, ma nel sapersi fermare al frammentario, nel riconoscere opacità e lacune, nel sacrificare l’armonia, la coerenza e l’evidenza perfette in favore dell’acquisizione di qualche parziale e provvisoria conoscenza.

Non smarrire la strada del «frammentario», tra brani letterari e battute, è il nodo centrale de L’uomo dal fiore in bocca… e altri strani casi (ospitato al Teatro Ghione di Roma, adesso in tournée), rintracciando qua e là, nel sostare sul singolo frame del mosaico, una «qualche parziale e provvisoria conoscenza», locus privilegiato dei messaggi precari, e nondimeno totali, della poeticità di Pirandello.

Nella «Piuma», Amina Berardi (animata da un’intensa Gabriella Casali), discriminando «i patti chiari», i quali «non le concedevano il diritto di stare bene; le concedevano in cambio il diritto di tormentarsi con il suo male», chiede:

Non era troppo? Tormentarli, doveva tormentarli per forza; non dipendeva da lei. Che poi la lasciassero sola nei momenti di requie non solo non le importava nulla, ma le faceva anzi un gran piacere, perché sapeva che quei due [il marito e la cugina concubina con prole] non avrebbero potuto neppure lontanamente immaginare di cosa ella godesse, né di che vivesse.

Inefficace sarebbe azzardare a dipingere un quadro conoscitivo più parziale di quello di una donna trattenuta a letto e succhiata da un morbo inguaribile, capace, invece, di individuare il non visto e anticipare il non accaduto: per quanto, «lontano lontano, nel tempo suo lieto, col sole e l’aria di allora, quando era bella, sana e gaia», ora l’ammalata, nella sublime sensualità esibita dalla Casali, è divenuta, in una magia poetica, la leggerezza diafana, impalpabile, seppure paladina eccellente e vittoriosa del pensiero e di una giustizia non accecata dall’ipocrisia: sul divano sembra una giovane flessuosa, di arrogante charme, appena impedita nella gestualità, con lo scricchiolìo delle giunture a indicare la gravità del malanno.

Il fascino circospetto e fatale della figura femminile, sinuosa e dal trucco cinematografico, moderna nelle movenze, ammiccante nel tirare la calza e scoprire la gamba, dà spirito e forma corporea alla volontà, in conclusione della vicenda, a lato di un notaio e di testimoni, di sottoscrivere un prolisso documento notarile («di cui non comprese nulla»), e dunque di giudicare:

E le parve così buffo che si potesse credere che in quel rigo di scrittura lì ci fosse veramente lei, e che gli altri se ne potessero contentare, non solo, ma se ne beassero tanto, come d’un atto di grande generosità, che costituiva una vera fortuna per le due povere piccine vestite di nero, quella firma. Sì? E ancora, dunque! ancora... Amina Berardi del fu Francesco, vedova Vismara... Per lei era come uno scherzo, strascicare quel lungo nome goffo su per tutti quei fogli di carta bollata, come una bambina parata da grande, la lunga coda della veste di mamma.

Il demiurgo Siravo, nell’adattamento di Gastaldi, aziona un tale complesso immaginario, soprattutto promuovendo, nella prospettiva semantica e semiotica, dialoghi materializzati in virtù di segni e segnali comuni (né eterei o vaghi), adeguati a evitare degli alias “non letterari”: spaziando in un tessuto di langue e parole, mai comune o scaturita in una pertinenza banale, accidentale, vale a dire approssimativa. Infatti, nell’articolo citato, Pirandello chiariva:

Che significa «non letterario» se s’intende far opera d’arte? Il linguaggio non sarà mai comune; perché sarà proprio a quel dato personaggio in quella data scena, proprio del suo carattere, della sua passione o del suo giuoco.

E se i diversi protagonisti realizzeranno i ruoli in un singolare («lor proprio») paradigma di vocaboli e contenuto, il risultato sarà “scritto bene”, e «se anche ben concepita e ben condotta, è opera d’arte letteraria come un bel romanzo o una bella novella o una bella lirica».

In «Da sé», il dettaglio dei costi e degli impegni funebri inaugura il plot, in misura equa spartito in tre voci narranti (Casali, Di Maio, Masala), ciascuna con la calata tipica del dialetto romagnolo, sardo e romano:

Un carro di prima classe, con cavalli bardati e impennacchiati, cocchiere e staffieri in parrucca, i suoi parenti non lo avrebbero preso di certo, per lui. Ma uno di seconda, sì; almeno per gli occhi del mondo. Duecentocinquanta lire: prezzo di tariffa. La cassa, poi, se pure d’abete e non di noce o di faggio, nuda nuda non l’avrebbero certo lasciata (sempre per gli occhi del mondo). Coperta di velluto rosso, anche d’infima qualità, con borchie e maniglie dorate; a dir poco, quattrocento lire.

Le creature in questione siedono, dall’inizio, su un oggetto cupo dal perimetro profilato, infine riconoscibile: appartiene ai bordi di un feretro, coperto da un lugubre drappo. Su un fondale di luce dalle sfumature verdi, Matteo Sinagra, con spiccata solennità, indossa il cappotto grigio ornato di pelliccia nera al collo e ai polsi. Essendo caduto in rovina, e costretto a lavorare da “galoppino” per una piccola banca agraria, ha deliberato di suicidarsi. Per quale motivo, però, con simili tragici propositi, invece di assistere alla loro dinamica effettiva, già sono proiettata, con il protagonista, nella funesta cornice equivalente al “dopo” e al suo mesto plan? Se non incontrando, in mattinata, un amico assente dal paese da circa sei anni e all’oscuro del suo impoverimento, lo sfortunato impiegato aveva percepito la miseria della condizione toccata: il vecchio compagno non lo aveva riconosciuto e, peggio ancora, era arrivato a provarne pena, disgusto e infausto stupore.

Da quel preciso istante Matteo aveva captato quanto la vita fosse malvagia e indecorosa, stabilendo di interromperla sua sponte in modo da risparmiare alla famiglia le spese relative alle esequie: scegliendo di spirare, tra un sepolcro e l’altro, da già morto, cioè tra i morti, ossia in un cimitero. La decisione ironica e paradossale presto causa autentica pietà, e scorgo Sinagra appuntarsi sul bavero un bocciolo rosso, scelto tra la coppia di fiori adagiata sulla bara, per poi andare a uccidersi.

Dei “quattro funerali” celebrati in onore di Pirandello, deceduto di polmonite, nella villa romana in una traversa della Nomentana il 10 dicembre 1936 – alle 8 e 55 di mattina – abbiamo notizie del primo, sancito dalle volontà testamentarie: il rito si svolse avvolgendolo nudo, in analogia alle sue maschere, in un bianco sudario, assenti lumi e corone luttuose, la salma portata via dal carro mortuario degli umili, priva di corteo in processione. Un’assonanza elettiva, un presagio?

Condivido l’opinione di Marco Baliani sui meccanismi di apprensione da osservare nel “leggere per conto”, oppure “vedere in molti”, utilizzando il pensiero o recependo con le facoltà sensibili: sono le «modalità fondamentali che, nella modernità, hanno definito e nello stesso tempo distinto il lettore di libri e lo spettatore di teatro»:

In realtà, quando nella parola scritta o nel gesto di un attore, i suoni, i sapori, gli odori e le immagini evocati da una storia prendono forma sensibile nella memoria del corpo, allora il lettore di libri, come lo spettatore di teatro, vivono il medesimo incanto. Quell’incanto raro e stupito che si prova unicamente nel riconoscere, in una sensazione inaspettata, qualcosa che ci appartiene intimamente, che costituisce parte della nostra identità più profonda e della nostra storia più vera.

Un simile incanto, chissà, potrebbe aver trascinato la psiche, i sensi, le sfere dell’Ego, attinenti, oltre agli “interlocutori”, persino allo scrittore. Nell’incastro narrativo di Rossi Gastaldi, insomma, attorno al nucleo centrale, epico e trascritto, mito della collettività, emerge un vissuto nella mémoire, quasi fosse un’impronta generica individuale saldata al contesto.

In un abbigliamento perfetto (complimenti sinceri sono da rivolgere alla costumista Teresa Acona per ogni mise disegnata), giunge turbata ed eccitata l’adolescente Dreetta, dalle pagine della novella «Pubertà», protagonista di uno dei più agghiaccianti suicidi del microcosmo pirandelliano:

L’avvertimento della fragrante esuberanza del suo corpo, in certe ore, la congestionava. L’odore dei suoi capelli densi, neri, un po’ ricciuti e aridi, quando se li scioglieva per lavarseli; l’odore che le esalava da sotto le braccia nude quando le alzava per sollevare il soffocante volume di quei capelli; l’odore della cipria intrisa di sudore, le davano smanie più di nausea che d’ebbrezza: per le tante cose segrete e ingombranti che quell’improvvisa e violenta crescenza le aveva d’un tratto rivelate.

Interpretata da Stefania Masala, è dinanzi a noi a spiegare a “Pirandello” il peso dell’angoscia sofferta nel cliché quotidiano e dell’opprimente fervore suscitato in lei dal docente d’inglese Mr. Walston: d’un tratto costui «si sentì intronare le orecchie da un grido e, sollevando gli occhi dal libro, vide stolzare la sua alunna, come se qualche cosa le fosse passata per le carni all’improvviso, e precipitarsi fuori dal salotto, urlando frenetica con il viso nascosto tra le braccia». Allontanato subito a spintoni da un cameriere accorso, «ebbe appena il tempo d’alzare il capo a uno strillo che veniva dall’alto: “Professore, mi prenda!”. Intravide un corpo penzolante dal cornicione del villino». Con il fiato in gola, in platea si diffonde il rumore sordo di una pupazza di tela bianco-latte sbattuta a terra.

Gioiello della serata è «La morte addosso» (ospitata nelle Maschere nude con il titolo L’uomo dal fiore in bocca): in scena un Siravo da brivido nel ruolo del sarcastico e disperato malato, insieme a Carlo Di Maio con il quale è impossibile non identificarsi (è il signore in attesa del treno delle quattro antimeridiane, in un misero caffè notturno della stazione). L’attenzione è catturata dall’area sinistra del palco, dove l’uomo e l’avventore del bar parlano illuminati da una luce calda. A destra, nel rigido blu della penombra, rimangono il tavolo, la sedia, l’appendiabito, declassati a rango di attrezzeria in un frangente narrativo in cui l’individuo è indotto a una resa dei conti con se medesimo.

La parte dedicata dal protagonista alla descrizione di un commesso occupatissimo a confezionare un pacco, è tra i brani pregevoli della prosa pirandelliana, per lo straordinario spazio semantico, ingannevole come a pochi, apparendo in primis gratuito ed essendo invece veicolo di un messaggio basilare, ossia il rapporto di coesione tra la materialità dilagante e la vita interiore:

Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata... ch'è per se stessa un piacere vederla… così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza… La stendono sul banco e poi con garbo disinvolto vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l'altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più per amore dell'arte; poi ripiegano da un lato e dall'altro a triangolo e cacciano sotto le due punte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legare l'involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d'ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

Ma non è sufficiente:

Mi sembra d'essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta… quel bordatino… quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d'incartarlo. Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l'involto appeso al dito o in mano o sotto il braccio… Li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista… immaginando… – uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un'idea.

L’ignaro avventore chiede: «Le serve? Scusi... che cosa?». A disagio, in qualche modo spiazzata, condivido a pieno la risposta ottenuta:

Attaccarmi così – dico con l'immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d'una cancellata. Ah, non lasciarla mai posare un momento l'immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l'avvertiamo più, perché è l'alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…

Ebbene sì, un tale «uomo dal fiore in bocca» suppongo abbia trasmesso con enorme efficacia la pertinenza selezionata: e forse per afferrare, ancora meglio, il problema del vissuto espresso con la visione attuale e immediata dell’arte, radice di paradigmi notevoli non prefissati, Rossi Gastaldi nella messa in scena ha inserito anche tre liriche pirandelliane, recitate con il ritmo delle metafore evocate. In «Notte insonne»,

Io mi sento guardato da le stelle
e questa notte non posso dormire.
Mi par che qualche cosa esse, sorelle
maggiori, a questa terra voglian dire.
O sorgive di luci, la parola,
la parola tremenda del mistero
ditela a una vegliante anima sola
perduta in mezzo al vostro cielo nero.

Uscendo dal Ghione, rifletto inquieta sulla robusta area semantica di un allestimento capace di condurre ad analizzare il fenomeno drammaturgico in un fluire culturale di genesi letteraria: da un point of view incentrato proprio sulle modalità di nascita e formazione dal concreto effettivo, e dal rifiuto di compromessi vero-falso. Quando poi si frammenta nel reale, non privo di credibilità – in brani di prosa (o in versi) – rimane l’auspicio che il sipario non sia calato, per trovare un giorno posto sulla ribalta, accanto a esperti e fortunati interpreti di messaggi vitali.

Ormai in strada, in un angolo, però, è come se scorgessi di nuovo Siravo, a riprendere la parola di Pirandello, mentre suggerisce: «Il teatro non può morire. Forma della vita stessa, tutti ne siamo attori; e aboliti o abbandonati teatri, il teatro seguiterebbe nella vita, insopprimibile; e sarebbe sempre spettacolo la natura stessa delle cose».

(Dicembre 2017)




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