27 ottobre 2009

«Dickinson, una donna vissuta a metà dell'Ottocento» di Nicola D'Ugo


La letteratura ha una tendenza all’accordo: mobilitandosi dalle urgenze dell’individuo, va a ricercare un linguaggio comune. Spesso si tratta di un’urgenza dell'autore, di un suo umore individuale, che viene convogliato in un’azione (lo scrivere), l’esercizio della quale evoca nell'autore stesso, attraverso ciò che comunemente chiamiamo formazione e sensibilità, un’espressione fatta di scenari linguistici, di modi di dire, di luoghi interiori che subito vengono acciuffati dall’autore nella propria mente.

Questi acciuffamenti interiori possono essere in qualche modo rispettosi di un discorso comune, tesi a una dizione che si integri con uno scenario regolato da altri e con gli altri, che tenga conto della propria collocazione ambientale, della tendenza della letteratura contemporanea, assumendo una forma efficace per accedere a pieno titolo in quello che viene chiamato «agone letterario», ossia il luogo di confronto e di scontro delle scritture di una determinata epoca.

La scrittura di Emily Dickinson, una donna vissuta a metà dell’Ottocento, è particolarmente affascinante per due motivi: innanzitutto perché la sua opera appare meno inquinata dalle mode letterarie, dall'agone che caratterizza in genere le preoccupazioni dei poeti; poi per la stretta tangenza del suono e dell’idea, dell’immagine e della sua espressione in parole, al punto che, nei suoi riguardi, si è parlato di charm e riddle (incantesimo e indovinello) a un tale grado che torna inadeguato qualsiasi tentativo di traduzione.

«'Poesie e racconti' di Dylan Thomas» di Nicola D'Ugo





 Poesie e racconti
 Dylan Thomas 
 Einaudi
 Torino 1996
 A cura di Ariodante Marianni
 EUR 36,15
 XLIV-844 pp.
 ISBN: 88-06-14257-5




Goffi, esilaranti, lamentosi, sensuali, ma specialmente traboccanti dalla pagina e come usciti dai quadri di Brueghel con quel senso critico della comunità locale, i personaggi dei racconti di Thomas si aggirano con le sembianze delle cose che circondano il protagonista delle vicende. Fa da sfondo il mondo cittadino e campagnolo del Galles, con le sue pecore, le sue volpi, le felci, i cappellini e la trementina, nell'abbraccio paonazzo di un'umanità corale che la penna di Thomas fissa fedelmente come nessun altro.

In questo la nota comune dei racconti con la poesia bardica, struggente e biblica (più profetica nel tono che non, come invece è stato detto, apocalittica) della prima parte del ricchissimo volume Poesie e racconti, che contiene, come evidenzia il curatore, «di gran lunga la più vasta raccolta di poesie thomasiane mai tradotta» in una lingua altra dall'originale inglese; ma, anche, l'amore che suscita il tributo dei gallesi di oggi per il loro poeta nazionale e –come amano dire– del mondo.

L'occhio caleidoscopico del bambino protagonista delle vicende ci rivela la follia delle scelte e dei comportamenti umani, si dimostra impietoso per difetto di quei filtri che la società, non la natura, detiene. Tacito, il bambino sa che in fondo, nel mondo degli adulti, egli non ha diritto di parola, che il pensiero esternato nella parola gli procurerà solo guai, che gli adulti vogliono determinare e decidere i suoi comportamenti.

«Il primo e l'ultimo Heidegger» di Luciano Albanese


Martin Heidegger nasce nel 1889 a Messkirch, nel Baden. Compie gli studi universitari a Friburgo, dove diventa libero docente e poi assistente di Husserl (1916). Nel 1923 è nominato professore a Marburgo. Nel 1927, dopo la pubblicazione di Essere e tempo, è richiamato a Friburgo per succedere a Husserl. Nel 1933 è nominato rettore della stessa Università. Aderisce al nazionalsocialismo e pronuncia la celebre prolusione rettorale sull’Autoaffermazione dell’università tedesca. Tuttavia l’anno successivo si dimette, continuando in silenzio e senza pubblicare nulla l’attività accademica. Tale vicenda dai lati ancora oscuri ha dato origine alla questione dei rapporti fra Heidegger e il nazismo, oggetto di interpretazioni molto divergenti fra di loro, ed ha procurato a Heidegger non pochi fastidi. Dopo la fine della guerra, infatti, gli Alleati gli impedirono di continuare l’insegnamento, e Heidegger si dedicò alla pubblicazione delle opere inedite successive ad Essere e tempo, opere che manifestano quella che viene definita comunemente una «svolta» rispetto all’opera del 1927. Nel 1951 gli viene concesso di riprendere l’attività accademica, che dura fino al 1958. Muore nel 1976 a Messkirch.

Il clima filosofico nel quale si colloca la produzione di Heidegger è caratterizzato, in linea generale, da quello che viene chiamato il «ritorno a Kant», successivo alla decadenza dell’hegelismo. Tale ritorno si era manifestato soprattutto nella teoria della conoscenza, con la Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer), e nella filosofia della storia, soprattutto con Dilthey (1833-1911) e poi con autori come Rickert (1863-1936), Meinecke e Weber. All’interno del «ritorno a Kant» bisogna anche tener conto, tuttavia, di un sottoinsieme che compie un ulteriore passo indietro, operando una sorta di «ritorno a Hume». Si tratta di autori come Lipps e Meinong, che, insieme alla psicologia di Bolzano, avranno un ruolo non secondario nello sviluppo del pensiero di Husserl.

«'Mosca felice' di Andrej Platonov» di Nicola D'Ugo




Mosca Felice
Andrej Platonov
Adelphi
Milano 1996
Trad. di Serena Vitale e Ornella Discacciati
EUR 14,00
159 pp.
Isbn: 88-459-12426






Poetico e ricco di metafore ardimentose, tenero nel descrivere i moti del cuore e crudo nel registrare quelli dei sensi, Mosca felice (Sčastlìvaja Moskvà) di Andrej Platonov colpisce anzitutto per la svelta fluidità del linguaggio, l’agile snocciolarsi delle scene e una certa distaccata familiarità con cui ci trascina nelle dimore trasandate e nei campi ventilati a perdita d’occhio in cui si muovono i personaggi, con le loro intime riflessioni su quel mito culturale che fu l’uomo nuovo (novyj čelovék) nella Russia staliniana degli anni trenta. Scritto in quegli anni e pubblicato postumo dopo decenni di censura nel 1991, questo romanzo incompiuto ha il pregio di raccontare una gioventù diversa da quelle cui ci ha abituati la letteratura occidentale, da Woolf a Queneau, da Döblin a García Márquez, da Moravia a Oates, una gioventù che non è nata nel mito capitalista o nella sua opposizione, ma è cresciuta totalmente nella società sovietica, imbevuta dei sui miti, che si trova a confrontarli con le necessità della maturazione individuale.

Mosca Čestnova, una diciottenne cresciuta in orfanotrofio, è la congeniale protagonista della vicenda. Il primo ricordo infantile, che l’accompagnerà nella vita, risale alla rivoluzione d’Ottobre: un bolscevico inseguito e ucciso, quando lei aveva quattro anni. Tale ricordo, in una donna la cui situazione familiare qualifica come sradicata dal passato storico, senza alcun legame con i parenti, si dimostrerà, nel corso della vicenda, anch’esso un’illusione, un’interpretazione fantastica della bambina.

Lo scarto fra immaginazione e realtà è espresso da Platonov attraverso frasi lunghe e morbide, che, come piani differenziati, la sua abile penna inclina sapientemente, per far scivolare il reale nell’immaginario, l’immaginario nel metafisico, finché il metafisico si apre sul dubbio, al punto che una situazione non si impiglia o ingarbuglia nella successiva, ma si estende ad ampie pennellate, temperandosi in sensazioni, emozioni, sentimenti, come un composto chimico di passione e d’amore. Un tale processo della scrittura riflette il processo psicologico dei personaggi, di cui lo scrittore di Vorodež ci avverte fin dall’inizio, quando dice che il ricordo del bolscevico è come dimenticato dalla bambina, ma, in certi momenti, le riaffiora alla memoria, riflettendosi in un gesto condizionato, nell’interruzione di un’attività, in una sua più alacre esecuzione.

Mosca è una ragazza determinata, che ama le situazioni limite, come lanciarsi da un paracadute accendendosi una sigaretta. In ambito sentimentale, fa l’amore senza impegni secondo la propria interpretazione della vita comunista (per lei «l’amore non è il comunism»”, in quanto quest’ultimo è più duraturo e meno deludente), mettendo in crisi una serie di personaggi maschili, i quali, nella forma incompiuta del romanzo, assurgono a protagonisti, con il loro pensiero rivolto a una donna immaginaria, una sorta di emblema, un’illusione ossessiva e memorabile, né più e né meno della città che li ospita e che le ha dato il nome, con i suoi milioni di uomini, in cui un volto nella folla appare perfettamente irriconoscibile.

«Ted Hughes: "Guerra tra vitalità e morte"» di Nicola D'Ugo







Nella foto da sinistra, Stephen Spender, W. H. Auden, Ted Hughes, T. S. Eliot e Louis MacNeice nella sede londinese di Faber and Faber nel 1960. 





Per decenni, Ted Hughes ha dominato la poesia inglese come da una sorta di retroscena privilegiato, tanto da essere talvolta escluso – poiché era già stato tradotto in singole opere – da antologie significative italiane, come il nutrito volume Giovani poeti inglesi, curato da Renato Oliva ed edito da Einaudi nel lontano 1976. In quell'anno, molti dei poeti che avevano segnato i tratti più significativi di questo secolo erano scomparsi: si può dire che rimanevano ancora in vita solo Graves, Gascoyne e, dei Trentisti, Spender. Giovani poeti stavano dando volto alla nuova poesia inglese, come Larkin e Gunn. E gli irlandesi cominciavano a riconoscersi in un'altra letteratura, scaturita da un'altra terra, motivata da qualcosa di troppo recente per dirsi già Storia.

Nato nel 1930 a Mytholmroyd, nella valle del fiume Calder, nel sud dell'Inghilterra, Edward James Hughes esordì con la raccolta poetica The Hawk in the Rain (Il falco nella pioggia, 1957). Una foto di Mark Gerson del 1960 ce lo ritrae, bicchiere nella mano, con Eliot, Auden, Spender e MacNeice, durante un party della casa editrice londinese Faber & Faber. Una foto che segnalava il passaggio di staffetta, quanto mai corrisposto, di tre generazioni della poesia inglese, quella che ha dominato e segnato profondamente questo secolo letterario: un secolo che, con la morte del poeta inglese, pare ora chiudersi nel 1998, a poco più di un anno dalla fine del millennio.

La poesia di Hughes ha costituito uno dei momenti essenziali dell'incontro fra un mondo tecnologico che mutava rapidamente e una letteratura che aveva percorso le vie di uno sperimentalismo che, al più, si era rifatto al superamento delle tecniche intrinseche della scrittura letteraria e dell'arte. Da quel lontano 1957 ad oggi si sono andate diffondendo, a partire dai paesi anglosassoni, alcune delle tecnologie di comunicazione e di concezione dell'ambiente più rilevanti per la vita dell'uomo contemporaneo: dalla diffusione della televisione al lancio dei primi satelliti orbitali, dallo sbarco sulla Luna alla telecopia (il precursore degli odierni telefax), dalla diffusione delle videocamere a quella dei computer, dalla corsa al nucleare alle biotecnologie, dalla globalizzazione a Internet, dalla Guerra Fredda alla quella 'chirurgica' del Golfo.

«La poesia rurale di Consonni. Tra poesia in lingua e grammelot» di Nicola D'Ugo






 Vûs/Voci
 Giancarlo Consonni
 Einaudi
 Torino 1997
 EUR 9,30
 153 pp.
 ISBN: 88-06-14497-9





Vûs/Voci di Giancarlo Consonni (Einaudi, Torino 1997, lire 18.000) è un libro di poesie scritte –come tiene a precisare l’autore– in «una delle innumerevoli versioni rurali del milanese». Non trattandosi di un milanese letterario, ma giunto in forma orale, ha il vantaggio della corposità schietta di una lingua tenuta viva nella necessità di dire, a differenza delle grandi lingue letterarie, il cui lessico è per lo più ignoto ai parlanti delle stesse. È la lingua che parlano e parlavano i nostri nonni, attraverso cui passano miriadi di leggende che non adergono allo statuto di Storia: appartengono a quel mondo del «sentito dire» così minuziosamente riportato da Hawthorne ne La lettera scarlatta. 

Questo aspetto «orale» della scelta di Consonni gli dà modo di ricostruire un mondo linguistico e tenere in vita le voci, altrimenti destinate all’oblio, delle persone del luogo. La lingua adoperata, infatti, esorbita dall’ufficialità delle lingue letterarie, poiché queste hanno una loro tradizione tramandata in una scrittura, e sono codificate in una grammatica più controllata. Inoltre, esse hanno spesso un carattere istituzionale, che aggiunge all’elemento culturale di una lingua dei vivi la regolamentazione di un pensiero ufficiale, una canonizzazione istituzionale, una normativa, quindi, sia grammaticale che giuridica. Le lingue istituzionali tendono, in genere, più a imporre un freno alle innovazioni che a essere creative e aperte ai nuovi stimoli. Non pare un caso a nessuno che l’inglese non britannico (l’americano, l’irlandese, il gallese, il caraibico, il nigeriano ecc.) abbiano offerto il miglior contributo letterario di questo secolo, con i loro neologismi e le numerose importazioni di parole indigene o comunque contaminanti, a fronte di una compattezza espressiva  che non ha indebolito il carattere proprio di quelle letterature.

«Tra prosodia e immagine: Ezra Pound» di Nicola D'Ugo


In questo secolo la poesia, spronata dai grandi maestri dell’Ottocento, a partire dai simbolisti francesi, ha dato luogo alle più diverse manifestazioni espressive. Al di là dei responsi dei vari periodi circa le influenze sull’arte e sulla letteratura esercitate da un singolo autore –si pensi alla tardissima riesumazione dell’opera della poeta americana Emily Dickinson – è opportuno segnalare una tendenza fortemente motoria della poesia, ottenuta con mezzi prevalentemente a base fonica, e una statica, ottenuta anzitutto tramite immagini.

Se i calligrammi, le parole in libertà e la poesia concreta in genere hanno portato a un incontro più deciso di immagine iconica, suono e concetto, la letteratura in versi che si è avvalsa solo del mezzo linguistico –che è poi la più considerevole– si è diversificata puntando o sulle modalità prosodiche o sulle modalità di rimando iconico.

Motoria è da dirsi la scrittura timbrica o ritmica, fortemente improntata su occorrenze e ricorrenze temporalmente esibite, una scrittura già tradizionale ma che l’introduzione del vers libre ha fortemente riformato. Attenta a quest’aspetto, ma decisamente formata sull’altro versante, la poetica dell’immagine, o Imagismo, seppure abbia avuto esiti che si allontanarono molto dal loro intento iniziale, ci offre un limpido spaccato dell’attività poetica del Novecento riguardo ai propri propositi.

L’incontro di un iniziatore del movimento come Ezra Pound con la poesia cinese, di cui ci restano le splendide e libere traduzioni di Cathay, si incrociava se non altro con il Medioevo nostrano, di cui Pound era un appassionato conoscitore. Rileggere oggi Cathay ci permette intanto di avvicinarci a una mentalità della scrittura poetica non esclusivamente occidentale, ma che già nell’Occidente medievale dello Stilnovo trovava una formulazione risolutamente caratterizzata.

«'Girotondo' di Arthur Schnitzler al Teatro Eliseo» di Nicola D'Ugo


La versione di Girotondo (tit. or. Reigen, 1900) di Arthur Schnitzler, messa in scena da Pietro Carriglio in questi giorni al Teatro Eliseo di Roma, si presenta adorna, fin dal sipario ancora calato, di una veste klimtiana. Le betulle di Gustav Klimt, che velano la scena, affiorando e svanendo per l’intera rappresentazione, suggeriscono la doppia natura austro-ungarica di diletto e riservatezza, racchiudendo in un muro permeabile di tronchi verticali l’improvvisa lucentezza che macchia di chiarore il centro del dipinto: gioia, ma riservata, attorniata da un ammiccante separé arboreo, che nega accesso allo sguardo, ma non all’intrusione della carne. Gioia dei sensi e riservatezza, ossia quella mediocrità tutta particolare della Vienna di inizio Novecento, della cui pelle culturale ci restano le indimenticabili pagine de La marcia di Radetzky di Joseph Roth.

L’accostamento di Schnitzler e Klimt, due autori coevi, caratterizza questa versione di Girotondo. Il Klimt pseudo-paesaggista, qui scelto come leitmotiv scenografico, pulsa di una passionalità vitale, di pura energia, apparentemente conchiuso in una razionalità degli spazi; se non fosse che la passione, venendo prima e dopo ogni regolazione cosciente dell’uomo, ingloba la razionalità stessa, implodendo. In Klimt la vita è memoria di colori, non di linee. In termini classici, la scena rappresentata da Klimt è un’incessante sottomissione dell’apollineo al dionisiaco (e questo vale anche per Schnitzler). L’uso che si fa di Klimt in questa versione di Pietro Carriglio è decorativa, retaggio della nostra produzione di massa: oggetti floreali che conferiscono cromatismo a una scena del resto scabra. La scelta è rischiosa, anche se va indubbiamente incontro a un tentativo di rendere meno vieta l’ambientazione viennese del dramma schnitzleriano, privandolo dell’aura di più di un secolo fa. Eppure, per far questo, non sarebbero mancati esperiti espedienti: si sarebbe potuta utilizzare l’ambientazione anacronistica e contemporanea dell’Edoardo II di Derek Jarman; o insaporire il dramma di un colorito locale, come nel film La Ronde di Max Ophüls, versione francofona di Girotondo, così ricca di gastronomia e impressionismo pittorico.

«W. H. Auden: 'In Memory of W. B. Yeats.' L'uomo, la natura, la memoria della scienza e dell'arte» di Nicola D'Ugo








Non era interesse precipuo di W. H. Auden la morte in quanto tale. Ma ne richiamava spesso il tema [1]. Al di là o al di sotto della vita, o dentro come un’ombra che passi sul viso una volta e penetri ineludibilmente attraverso gli occhi fino al fondo dell’anima, la morte non era l’altra faccia della vita, la croce dietro la testa. Né la croce nascondeva una testa. L’uomo vivo e l’uomo morto non rappresentavano una variazione connotativa, ma due entità risolutamente diverse, di cui alcuni punti prendono a riflettersi le loro proprietà a distanza, così come tra due uomini vivi si possono ravvisare proprietà comuni senza che le entità siano identiche.

Questa visione è possibile secondo uno scarto fra la massa e gli individui che la compongono, segnalando diligentemente una mente che sostiene una memoria collettiva, che dai molti è resa possibile, ma la cui essenza non è partecipata appieno da nessuno. Ed è anche dalla memoria collettiva che la memoria di un uomo può prendere forma, senza che la persona di questi sia mai stata direttamente conosciuta. Al di là dei raggiri del problema della morte, senza cioè scansare l’ostacolo con la facile conseguenza di rifarsi ai luoghi comuni, rispettando o la tradizione o le istanze intellettualistiche di uno sperimentalismo letterario, Auden ha preferito prendere una via diversa, percorrendo una serie di tematiche contemporanee ispirate dalla morte di una grande figura del panorama non solo letterario, ma storico.

In questo modo, ci ha indicato che la morte di un uomo è il momento preciso in cui due entità, prima unite sotto un qualche aspetto, prendono a seguire due destini sempre meno condivisibili, come per uno strappo, una frattura incalcificabile di un frammento d’osso che resta e di uno che se ne va e non si unirà più al corpo. Un uomo che muore è, per definizione, ancora vivo. La frattura della morte, invece, nel suo lascito, genera due forme, una aperta ai quattro venti, rilocabile, che tende entropicamente a mutarsi, e un’altra che può mutarsi per modalità affatto diverse. La prima è la fisicità del defunto e dei luoghi su cui egli, da vivo, aveva esercitato la propria influenza, generando, muovendo, commuovendo, suggerendo, consigliando, ordinando: penetrando, insomma, nella memoria singola e dinamica dei vivi e delle cose, secondo le sue manifestazioni biologiche e culturali. La seconda, che più poggiando su supporti fisici indifferenti maggiore ne risulta l’integrità formale, sempre salva nella concretezza di una sua integrità formale preunitaria e più generale (preunitaria in quanto la forma generale precede qualunque particolarità interpretativa, che diremo di volta in volta unitaria, e resta nel suo genere fuori da un’unità di comprensione estetica), non fa parte della fisicità dell’uomo che le ha dato origine.