27 ottobre 2009

«Dickinson, una donna vissuta a metà dell'Ottocento» di Nicola D'Ugo


La letteratura ha una tendenza all’accordo: mobilitandosi dalle urgenze dell’individuo, va a ricercare un linguaggio comune. Spesso si tratta di un’urgenza dell'autore, di un suo umore individuale, che viene convogliato in un’azione (lo scrivere), l’esercizio della quale evoca nell'autore stesso, attraverso ciò che comunemente chiamiamo formazione e sensibilità, un’espressione fatta di scenari linguistici, di modi di dire, di luoghi interiori che subito vengono acciuffati dall’autore nella propria mente.

Questi acciuffamenti interiori possono essere in qualche modo rispettosi di un discorso comune, tesi a una dizione che si integri con uno scenario regolato da altri e con gli altri, che tenga conto della propria collocazione ambientale, della tendenza della letteratura contemporanea, assumendo una forma efficace per accedere a pieno titolo in quello che viene chiamato «agone letterario», ossia il luogo di confronto e di scontro delle scritture di una determinata epoca.

La scrittura di Emily Dickinson, una donna vissuta a metà dell’Ottocento, è particolarmente affascinante per due motivi: innanzitutto perché la sua opera appare meno inquinata dalle mode letterarie, dall'agone che caratterizza in genere le preoccupazioni dei poeti; poi per la stretta tangenza del suono e dell’idea, dell’immagine e della sua espressione in parole, al punto che, nei suoi riguardi, si è parlato di charm e riddle (incantesimo e indovinello) a un tale grado che torna inadeguato qualsiasi tentativo di traduzione.

Tutto ciò che è entrato a far parte della memoria individuale di Dickinson può quindi fuoriuscire come un magma proprio, che ha una sua consistenza non nell’ampio disegno delle opere poetiche di ampio respiro, come le epiche (costruite, quali sono, secondo l'ordine delle parti di un progetto), ma nell’esercizio di una espressività che cerca di essere rispondente alle proprie sensazioni: il che in letteratura è una rarità. In genere, si tende a ricalcare i modelli dei grandi autori (ovviamente, quelli che vengono considerati tali dall'epigono), a ridefinirli o a contrastarli attraverso una scrittura «nuova», che introduca un segno inedito, declinabile in «forma», nella socialità linguistica, a scapito sia della propria soggettività che della propria unità spirituale.

La fortuna di Dickinson è tale da far scuola ormai da più di mezzo secolo, quasi il tempo che ci ha messo per essere pubblicata nella sua integrità: non secondo i canoni editoriali del proprio tempo e dei decenni successivi, ma secondo la scrittura originale ritrovata solo dopo la sua morte.

Nel momento in cui si è andati riconoscendo la portata del linguaggio poetico di Dickinson, si è potuta superare nell’animo dei curatori qualsiasi anomalia grafica e grammaticale della sua scrittura. Si è potuta mettere da parte quella socializzazione linguistica, quella omologazione a modelli vigenti con cui deve scontrarsi – in necessità della artificiosa compattezza culturale dei sistemi editoriali e culturali – qualsiasi opera originale non vi appartenga per costituzione. Società e arte trovano in questo un perenne scontro, non solo sul terreno tecnico della scrittura, ma anche su quello delle innovazioni che la società non sa raccogliere in sé.

Questo è un problema che riguarda la critica, prima ancora di qualsiasi applicazione dei propri strumenti critici: prima ancora di qualsiasi consapevolezza del critico rispetto al materiale di cui cominci a occuparsi. È, anche in questo caso, un atto umorale che suscita nel critico una repulsione o un accostamento ulteriore all’opera che si trova tra le mani. Dopo la lettura di poche sillabe, egli può ritenere di trovarsi di fronte ad un autore incolto, dilettantesco, oppure un parolaio, o anche uno spericolato sperimentatore, il seguace di una scuola e così via. In questo caso, il rischio del critico è quello di una repulsione dell’opera prima ancora di averla letta, o una catalogazione dell’autore entro un ordine mentale del critico che farà torto all'articolato tessuto estetico dell'opera criticata.

Il critico può ritenere una tediosa perdita di tempo la prosecuzione della lettura di un autore ignoto, non meno di quando da ragazzino apprendeva con fatica le nozioni che il sistema culturale vigente gli presentava come i modelli di «letteratura». Le anomalie formali della punteggiatura e degli a-capo, di una o più parole «scritte male», sono alcuni dei metri di giudizio del critico, quali spie improprie del valore artistico di un autore. È bene allora osservare con cautela quelle anomalie umorali che sono in noi, nel momento in cui siamo disposti a criticare un’opera letteraria.

Riconoscere oggi che Emily Dickinson sia una grande poeta è una prassi diffusa, dovuta all’autorevolezza che circonda l'autrice, all’influenza che il suo straordinario lascito poetico ha esercitato su quella che ci hanno detto essere la «letteratura». Più difficile è applicarsi all’altra letteratura, quella che viene formandosi nel nostro tempo o riaffiora da un trascurato passato: una letteratura ignota, per la quale dobbiamo saper aggiornare le nostre configurazioni mentali, senza dimenticarci della loro costituzione. Il rischio, non facendolo, è quello di rimanere ancorati a un passato che sentivamo come nuovo, o di trattare come vecchia la novità, la freschezza e l’urgenza espressiva non solo del presente, ma anche del passato.

[pubblicato in: Notizie in... Controluce, n. IX/1, gennaio 2000, p. 13.]



Bibliografia: 
  • Dickinson, Emily, Lettere, Einaudi, Torino 2006.
  • --. Silenzi, Feltrinelli, Milano 1999. Trad. di Barbara Lanati.
  •  --, The Manuscript Books of Emily Dickinson, The Belknap Press of Harvard UP, Cambridge 1981, 2 voll. A cura di R. W. Franklin.
  • --, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997. A cura di Marisa Bulgheroni. 
  • Fusini, Nadia, «Emily Dickinson, l'ellissi», in Id., Nomi. Dieci scritture femminili, Donzelli, Roma 1996, pp.31-58.
  • Lanati, Barbara, Vita di Emily Dickinson. L'alfabeto dell'estasi, Feltrinelli, Milano 1999.
  • Rich, Adrienne, «Il Vesuvio fra quattro mura: la forza di Emily Dickinson», in Id., Segreti, silenzi, bugie, La Tartaruga, Milano 1989, pp. 99-130.
  • Scacchi, Anna, «Susanna e i vecchioni: la poesia delle donne e il disagio del critico», Praz! - Quaderno di poesia straniera, nn. 4/5, agosto 1996, pp. 34-36.
Su internet:

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