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12 ottobre 2023

«"Prefazione" (da ‘Alla curva della vita’ di Doriano Fasoli)» di Luciano Albanese



Risulta dalle testimonianze che gli Stoici antichi, soprattutto Crisippo, avevano analizzato a fondo alcuni classici paradossi, in particolare quello del sorite (il mucchio)Quando uno diventa calvo? Quando cade il primo capello o quando cadono tutti? Analogamente potremmo chiederci – e molti in effetti se lo sono già chiesto – quando si comincia a morire, appena nasci o quando finisci di vivere? Montaigne, ricorda Fasoli, diceva che la morte è solo il momento in cui il morire ha termine. Ma, già, agli albori del pensiero occidentale, Aristotele, nel Protrettico, fr. 10 b Ross, diceva che, come i pirati tirreni (gli Etruschi) legavano i vivi ai morti (la tortura inflitta da Mezenzio ai prigionieri nell’Eneide virgiliana), così la nostra anima è legata a un corpo in perpetuo disfacimento fin dall’inizio (un tema, questo, ripreso in lungo e in largo dalla letteratura manichea).

 

Ognuno di noi avverte la costanza del disfacimento del nostro corpo, ma l’istinto di sopravvivenza è forte, e siamo riluttanti ad ammetterlo. Perduti nel gorgo delle incombenze quotidiane, abbiamo inventato, come scrive Heidegger, un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del «si dice». In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui si commentano gli ultimi, lontani avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché il Si è nessuno.

 

Non è questa la strada imboccata da Fasoli nel suo ultimo, breve, ma densissimo lavoro. Fasoli sembra voler passare attraverso la morte, quella vera, per poi venircela a raccontare. La curva della vita di cui si parla qui non è quella dell’epistrophè plotiniana, in cui l’anima, staccata dal corpo, ritorna alla sua vera patria, quella celeste. No, qui parliamo di una curva senza ritorno, in cui il singolo, nato dalla polvere, polvere ridiventa. E gli ultimi tratti di questa curva sono i più dolorosi, perché mentre percepiamo malinconicamente di essere diventati un corpo che non risponde più ai nostri comandi, assistiamo impotenti alla morte di amici e parenti meno fortunati – ma è poi una fortuna continuare a vivere così? – che hanno lasciato questo mondo. Percorrendo questa curva, scrive Fasoli, ci ritroviamo a sfogliare i morti, ad uno ad uno. Ma non ci arrendiamo alla loro scomparsa, preludio alla nostra, e continuiamo ansiosamente a pianificare il futuro, illudendoci ancora, forse, che l’avvenire teorizzato dalla Sinistra hegeliana – la Filosofia dell’avvenire di Feuerbach, ecc. – sia qualcosa in grado di sconfiggere il vero avvenire a cui siamo destinati fin dalla nascita, quello della morte.

29 giugno 2016

«Orme poetiche. Intervista a Cinzia Baldazzi» di Doriano Fasoli

Undici poeti contemporanei, di differente età, estrazione e provenienza geografica, ciascuno presente con dieci poesie, introdotti da un lungo saggio critico. Questa la formula di Orme poetiche, l’antologia da poco pubblicata da Intermedia e già presentata al Salone Internazionale del Libro a Torino, oltre che in varie parti d’Italia (tra cui Paliano, Samone, prossimamente il Salento). Ne parliamo con Cinzia Baldazzi, che ne ha scritto l'introduzione. Autrice di saggi e articoli di carattere letterario, per molti anni collaboratrice fissa di quotidiani e periodici per rubriche di critica teatrale e cinematografica, è vice-direttore della rivista online di teatro, cultura e politica Scenario. Collabora da oltre vent’anni con la Rai nei programmi di intrattenimento. Vive e lavora a Roma.

Doriano Fasoli: Un’antologia di centodieci poesie di autori contemporanei poco conosciuti al grande pubblico. Perché vengono definiti «leopardisti» e non «leopardiani»?

Cinzia Baldazzi: Nessuno alla morte del poeta romantico è stato mai ritenuto o ha inteso essere «leopardiano», né avrebbe potuto accadere, come si determina in tutti i poeti che non siano semplicemente – si fa per dire – elementi di una scuola poetica globale, come ad esempio gli «ermetici» Alfonso Gatto e Piero Bigongiari. Nessuno, ovviamente, ha più scritto come Gatto e Bigongiari, per motivi che riguardano l’irripetibilità dello spazio-tempo nei campi del pensiero e della comunicazione umana. Tuttavia, il filo rosso della poesia ermetica, che unisce, ad esempio, questi due grandi autori, può far sì che di costoro esistano più o meno diretti successori, prosecutori. Ma per poeti che sono il Romanticismo, come Leopardi, o il Decadentismo, come D’Annunzio (ambedue considerati slancio creativo nato in Italia), ispirarsi a loro coincide con un’affinità subliminale o espressa che necessariamente corre per altre strade. Così il dannunzianesimo è stato forte nel Novecento, ma né Ungaretti né Montale, nella loro alternativa condizionata, possono essere considerati dannunziani.

Cosa intendiamo allora per «leopardisti»?

Partiamo dal capofila della prima generazione, ovvero Giuseppe Ungaretti, che in Orme poetiche viene ‘riproposto’, sempre con le mediazione leopardiana, dalla poesia «Saro» di Salvatore Armando Santoro. Si è parlato di molte affinità tra l’infinito leopardiano e quello ungarettiano. Leopardi ha còlto, ha intuito l'infinito spaziale, visto nella negazione della realtà fisica a cui era da sempre abituato: spazi interminati, silenzi sovrumani, quiete profondissima. Una dimensione impossibile da paragonare con quella ‘solita’, ‘abituale’. Per Ungaretti, l’assoluto cui l'uomo tende è per definizione indicibile, inesprimibile, in quanto trascende la capacità umana di espressione. Però, l’essenzialità della parola risponde all’esigenza di dare voce al mistero dell'assoluto nascosto in ogni uomo.

Dunque nel Novecento facciamo un passo avanti.

Il fluire del tempo nello spazio romantico apre la strada a quello ungarettiano e ne esce configurato in forma non misurabile, ma propria dell’uomo. Le «orme poetiche» lasciate da Ungaretti evocano un infinito una volta leopardiano, oggi leopardista: suo alle origini, ieri ungarettiano, oggi nostro. Come nella già citata «Saro» di Santoro, storia davvero leopardiana, con la chiusa dedicata a coloro i quali «aspettano ancora il dì di festa», ma con l’emblema umano dell’assenza, delle passate stagioni che tornano nel ricordo vivo, ineffabile ma adesso misurabile, perché il giovanissimo Saro sedeva con lui, con gli amici, accanto alla chiesa, e le sue siepi le aveva già valicate.

Nella tua lunga introduzione, la parte dedicata a ciascun poeta è avviata da un brano di prosa leopardiana che poi, continuando nella lettura, fa da guida, da traccia all’analisi del singolo autore.

È indubbio come esista, e la critica lo ha rilevato da tempo, una sorta di affinità elettiva in atto tra il pensiero di Giacomo Leopardi e molti poeti del nostro Novecento: Ungaretti, Montale, Bigongiari, Zanzotto, Sergio Solmi. È la cosiddetta «prima generazione» di leopardisti. Nel mio saggio introduttivo ho preso le mosse da questo «lascito» del secolo appena concluso, per leggere sotto una simile luce i poeti degli anni Duemila e identificare gli undici autori di Orme poetiche in una «seconda generazione» di leopardisti.