20 novembre 2012

«Conversazione con Renzo Paris» di Doriano Fasoli


Renzo Paris
L'opera di Renzo Paris spazia di genere in genere, dalla narrativa alla poesia, dalla saggistica alla biografia, alla traduzione. Tra i suoi tanti romanzi se ne ricordano qui alcuni: Cani sciolti (Guaraldi, 1973); Frecce avvelenate (Bompiani, 1974); Filo da torcere (Feltrinelli, 1982); Ultimi dispacci della notte (Fazi, 1999), La croce tatuata (Fazi, 2005); I ballatroni (Avagliano, 2007). Ha pubblicato diversi libri di poesia, tra cui, Album di famiglia (Guanda 1990) e Creature (Fermetti, 2003). Ha tradotto e commentato, tra l'altro, l'edizione integrale de Gli amori gialli di Tristan Corbière, edito negli Oscar Mondadori. Nell'ambito biografico vale la pena ricordare i suoi libri su Alberto Moravia, del quale è stato, come anche affiora nella conversazione che segue, un più giovane amico. Il suo ultimo libro, uscito lo scorso anno per i tipi Hacca, è anch'esso una biografia, dedicata ad uno dei più poliedrici ed influenti poeti del Novecento: La banda Apollinaire. Questa preziosa conversazione di Doriano Fasoli con Renzo Paris, qui edita per la prima volta, ha avuto luogo lo scorso ottobre a Roma.

Doriano Fasoli: Paris, se dovessi definirti, come ti definiresti?

Renzo Paris: Un poeta che, a un certo punto, per sciogliere il nodo, ha scritto romanzi, biografie, libri di critica. Sono stato definito da Filippo La Porta «il padre dell'autofiction». Quando l'ho riferito al mio amico Walter Siti, ha esclamato: «Papà!» Scherzo… Sono un marsicano emigrato a Roma all'età di tredici anni e ancora innamorato di questa città.

Sei al passo con l'attuale produzione poetica?

Se l'attuale produzione poetica è la neo-neo-avanguardia, sono lontanissimo. Ma non mi ritrovo nemmeno con le tendenze neoermetiche. Sono un solitario. Ho appena pubblicato La banda Apollinaire, la mia banda.

«Introduzione alla polifonia di Michail Bachtin» di Nicola D'Ugo


Copertina della terza edizione russa
del Dostoevskij di Michail Bachtin.









Il concetto di polifonia (polifonija) è stato sviluppato da Bachtin in modo più compiuto nel suo studio su Fëdor Dostoevskij: Problemy poètiki Dostoevskogo (‘Le problematiche della poetica di Dostoevskij’), uscito nel 1963 quale edizione notevolmente ampliata del suo precedente studio del 1929 Problemy tvorčestva Dostoevskogo (‘Le problematiche dell’opera di Dostoevskij’), arricchito quindi di ulteriori riflessioni maturate da Bachtin a seguito del dibattito sovietico tra il 1929 e il 1963, tenendo conto in particolare degli interventi di Viktor Šklovskij, Leonid Grossman, Valerij Kirpotin e Anatolij Lunačarskij.

L’edizione italiana reca un titolo diverso, e fors’anche fuorviante rispetto al contributo metodologico e all’intento bachtiniano: Dostoevskij. Poetica e stilistica (Einaudi, Torino 1968). Di là dalla presentazione ed analisi delle opere del romanziere russo (dalla sua poetica e stilistica), il libro si propone, da un lato, di esaminare le forme strutturali del romanzo originate dal linguaggio e, dall’altro, di esporre lo sviluppo storico del romanzo dai suoi albori greci dei dialoghi platonici e delle menippee per giungere, attraverso il fondersi dei due filoni, al suo culmine con la polifonia dei quattro romanzi maggiori dell’autore russo (Delitto e castigo; L’idiota; I demoni; I fratelli Karamazov). Con una tale impostazione, che nasce appunto dai ‘problemi’ che pone l’opera narrativa di Dostoevskij, Bachtin prende spunto per raccontare come siano fatti i romanzi e confrontare le modalità e gli orientamenti semantici di alcuni di essi con quelli dostoevskiani. In questo senso, il suo libro è un punto di riferimento di notevole importanza per chi voglia avventurarsi a comprendere i problemi che pongono romanzi altri rispetto a quelli di cui ha scritto Bachtin.

Per spiegare cosa intenda per polifonia, Bachtin ricorre al concetto di dialogicità. Nel romanzo polifonico c’è quello che egli chiama «grande dialogo» (bol’šoj dialog). La novità di Dostoevskij sta nell’aver fatto del romanzo una struttura tutta dialogica, in cui i personaggi dialogano con altri personaggi, i diversi episodi dialogano con altri episodi e le idee raffigurate nel romanzo dialogano con le idee fuori del romanzo. La dominante del romanzo polifonico è l’interazione, su uno stesso piano semantico, delle raffigurazioni delle idee della propria epoca espresse dai personaggi. Per realizzare il «grande dialogo» che dà luogo al romanzo polifonico è necessaria la più totale eliminazione dell’intenzione dell’autore in quanto autore, il quale non può indirizzare in alcun modo l’orizzonte semantico dell’opera letteraria. Scrive Bachtin in Dostoevskij:

Il romanzo polifonico è tutto dialogico. Fra tutti gli elementi della struttura del romanzo sussistono rapporti dialogici. (p. 58)

Per comprendere questo principio occorre riallacciarsi al meccanismo della parola bivoca nella teoria bachtiniana, che costituisce lo sfondo discrezionale di dialogità e polifonia.

La questione è posta da Bachtin nei termini di una risoluzione del problema della raffigurazione della realtà e dell’immaginazione: egli ridimensiona ma non sottovaluta gli importantissimi risultati dello strutturalismo e del formalismo, utilizzandoli piuttosto per dar conto dell’effettivo meccanismo linguistico dei parlanti e delle sue conseguenze diacroniche nello sviluppo delle lingue e dei generi letterari.

Superando il nesso con il reale (in Russia per problemi anche politici) e con l’immaginario, che hanno costituito i due poli su cui si era imperniato il pensiero moderno (dal razionalismo cartesiano all’empirismo, da Leibniz a Kant, a Hegel), lo strutturalismo ha aperto la via a un terzo ordine, che ha pretesa di avocare a sé sia le aspirazioni della realtà che quelle dell’immaginazione. Questa concezione è stata espressa con chiarezza, dieci anni dopo Dostoevskij, dal filosofo francese Gilles Deleuze nell’articolo «À quoi reconnaît-on le structuralisme?» (pubblicato per la prima volta in Histoire de la philosophie, Idées, Doctrines. Tome 8: Le XXe siècle, Hachette, Paris 1973, pp. 299-335, a cura di François Châtelet). Ne cito un passo dalla traduzione italiana (Gilles Deleuze, Lo strutturalismo, SE, Milano 2004):

[I]l primo criterio dello strutturalismo è la scoperta e il riconoscimento di un terzo regno: quello del simbolico. Il rifiuto di confondere il simbolico con l’immaginario, come con il reale, costituisce la prima dimensione dello strutturalismo. (pp. 13-14)