20 novembre 2012

«Introduzione alla polifonia di Michail Bachtin» di Nicola D'Ugo


Copertina della terza edizione russa
del Dostoevskij di Michail Bachtin.









Il concetto di polifonia (polifonija) è stato sviluppato da Bachtin in modo più compiuto nel suo studio su Fëdor Dostoevskij: Problemy poètiki Dostoevskogo (‘Le problematiche della poetica di Dostoevskij’), uscito nel 1963 quale edizione notevolmente ampliata del suo precedente studio del 1929 Problemy tvorčestva Dostoevskogo (‘Le problematiche dell’opera di Dostoevskij’), arricchito quindi di ulteriori riflessioni maturate da Bachtin a seguito del dibattito sovietico tra il 1929 e il 1963, tenendo conto in particolare degli interventi di Viktor Šklovskij, Leonid Grossman, Valerij Kirpotin e Anatolij Lunačarskij.

L’edizione italiana reca un titolo diverso, e fors’anche fuorviante rispetto al contributo metodologico e all’intento bachtiniano: Dostoevskij. Poetica e stilistica (Einaudi, Torino 1968). Di là dalla presentazione ed analisi delle opere del romanziere russo (dalla sua poetica e stilistica), il libro si propone, da un lato, di esaminare le forme strutturali del romanzo originate dal linguaggio e, dall’altro, di esporre lo sviluppo storico del romanzo dai suoi albori greci dei dialoghi platonici e delle menippee per giungere, attraverso il fondersi dei due filoni, al suo culmine con la polifonia dei quattro romanzi maggiori dell’autore russo (Delitto e castigo; L’idiota; I demoni; I fratelli Karamazov). Con una tale impostazione, che nasce appunto dai ‘problemi’ che pone l’opera narrativa di Dostoevskij, Bachtin prende spunto per raccontare come siano fatti i romanzi e confrontare le modalità e gli orientamenti semantici di alcuni di essi con quelli dostoevskiani. In questo senso, il suo libro è un punto di riferimento di notevole importanza per chi voglia avventurarsi a comprendere i problemi che pongono romanzi altri rispetto a quelli di cui ha scritto Bachtin.

Per spiegare cosa intenda per polifonia, Bachtin ricorre al concetto di dialogicità. Nel romanzo polifonico c’è quello che egli chiama «grande dialogo» (bol’šoj dialog). La novità di Dostoevskij sta nell’aver fatto del romanzo una struttura tutta dialogica, in cui i personaggi dialogano con altri personaggi, i diversi episodi dialogano con altri episodi e le idee raffigurate nel romanzo dialogano con le idee fuori del romanzo. La dominante del romanzo polifonico è l’interazione, su uno stesso piano semantico, delle raffigurazioni delle idee della propria epoca espresse dai personaggi. Per realizzare il «grande dialogo» che dà luogo al romanzo polifonico è necessaria la più totale eliminazione dell’intenzione dell’autore in quanto autore, il quale non può indirizzare in alcun modo l’orizzonte semantico dell’opera letteraria. Scrive Bachtin in Dostoevskij:

Il romanzo polifonico è tutto dialogico. Fra tutti gli elementi della struttura del romanzo sussistono rapporti dialogici. (p. 58)

Per comprendere questo principio occorre riallacciarsi al meccanismo della parola bivoca nella teoria bachtiniana, che costituisce lo sfondo discrezionale di dialogità e polifonia.

La questione è posta da Bachtin nei termini di una risoluzione del problema della raffigurazione della realtà e dell’immaginazione: egli ridimensiona ma non sottovaluta gli importantissimi risultati dello strutturalismo e del formalismo, utilizzandoli piuttosto per dar conto dell’effettivo meccanismo linguistico dei parlanti e delle sue conseguenze diacroniche nello sviluppo delle lingue e dei generi letterari.

Superando il nesso con il reale (in Russia per problemi anche politici) e con l’immaginario, che hanno costituito i due poli su cui si era imperniato il pensiero moderno (dal razionalismo cartesiano all’empirismo, da Leibniz a Kant, a Hegel), lo strutturalismo ha aperto la via a un terzo ordine, che ha pretesa di avocare a sé sia le aspirazioni della realtà che quelle dell’immaginazione. Questa concezione è stata espressa con chiarezza, dieci anni dopo Dostoevskij, dal filosofo francese Gilles Deleuze nell’articolo «À quoi reconnaît-on le structuralisme?» (pubblicato per la prima volta in Histoire de la philosophie, Idées, Doctrines. Tome 8: Le XXe siècle, Hachette, Paris 1973, pp. 299-335, a cura di François Châtelet). Ne cito un passo dalla traduzione italiana (Gilles Deleuze, Lo strutturalismo, SE, Milano 2004):

[I]l primo criterio dello strutturalismo è la scoperta e il riconoscimento di un terzo regno: quello del simbolico. Il rifiuto di confondere il simbolico con l’immaginario, come con il reale, costituisce la prima dimensione dello strutturalismo. (pp. 13-14)

Questo «rifiuto di confondere il simbolico con l’immaginario, come con il reale,» ha conseguenze decisive per la raffigurazione delle idee, sulla quale è incentrata la polifonia. Per Bachtin, le impostazioni strutturalista e formalista non tengono in debito conto l’interazione di parola e idea e il loro conseguente sviluppo. Continua Deleuze:

Possiamo almeno dire che la struttura [simbolica] non ha alcun rapporto con la forma sensibile, né con una figura dell’immaginazione, né con un’essenza intelligibile. Niente a che vedere con una forma: infatti la struttura non si definisce affatto con un’autonomia del tutto, con una pregnanza del tutto sulle parti, con una Gestalt che si eserciterebbe nel reale e nella percezione; la struttura si definisce al contrario per la natura di certi elementi atomici che pretendono di render conto a un tempo della formazione del tutto e della variazione delle parti. Nulla a che vedere con le figure dell’immaginazione. (p. 16)

In luogo della parola neutra, diretta e astratta della linguistica strutturale e della stilistica formalista, le quali per Bachtin offrono strumenti euristici inadeguati sia per interpretare il genere romanzesco e sia per comprendere i meccanismi ideativo-verbali dei parlanti, egli propone il concetto di parola viva, concreta e dialogica, in quanto più corretto sotto il profilo della linguistica, come spiega più diffusamente nel saggio «Slovo v romane» (trad. it., «La parola nel romanzo», contenuto in: Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001, pp. 83-108). Che cos’è una parola viva? La parola viva è una parola già vissuta e che continua a vivere, che contiene, nella percezione del parlante, memoria dei suoi usi, sensazioni particolari per l’enunciatore e per gli occasionali enunciatari, e che, una volta pronunciata, può recare traccia della propria impostazione culturale, provenienza sociale, concezione ideologica etc. (quelle che Bachtin chiama stratificazioni). Questa parola è intrinsecamente sdoppiata, a due voci: mentre evoca l’oggetto dell’enunciazione, essa è ostacolata dalla «parola altrui», ossia dall’altrui giudizio sull’enunciato pensato come possibile dall’enunciatore. La parola è a due voci, bivoca, nella sua aspettativa (ossia dell’enunciatore) di una «replica», di una enunciazione ostacolante, anche qualora tale replica sia solo percepita come possibile nell’orizzonte immaginativo dell’enunciatore («La parola nel romanzo», pp. 87-88).

L’esistenza della parola bivoca ha conseguenze sul genere romanzesco (in sé fortemente dialogico) e sulla forma polifonica. Mentre la parola oggettiva (parola diretta di un personaggio) può solo imitare, la parola bivoca può stilizzare, parodizzare, polemizzare, poiché, in quanto «parola con orientamento sulla parola estranea», permette gradi maggiori o minori di allontanamento dall’intenzionalità dell’autore. La «parola neutra», immediatamente indirizzata sul suo oggetto come espressione dell’ultima istanza semantica di chi parla, e la «parola oggettiva» del personaggio raffigurato non possono produrre alcuna stilizzazione, ossia evocazione di un rapporto fra la parola espressa in un testo e la parola, simile o modificata, dell’orizzonte di esperienze linguistiche dell’enunciatario (Dostoevskij, pp. 258-259).

Nel romanzo polifonico è necessario il più totale allontanamento dell’intenzionalità dell’autore dalla parola espressa nel romanzo. Non basta che la parola sia bivoca. La parola bivoca può essere, infatti, monodirezionale (nel racconto, nella Icherzählung etc.), multidirezionale (nelle varie forme di parodia) e attiva (nelle polemiche e dialoghi nascosti, in cui la parola estranea è riflessa): ognuno di questi orientamenti della parola bivoca determina un maggiore o minore avvicinamento delle intenzioni del personaggio alle intenzioni dell’autore, con la conseguente elisione di dialogicità nel punto di coincidenza delle intenzioni. Nel primo caso la parola è esemplificativa di una problematica, così come la storia raffigurata; nel secondo caso è critica; nel terzo caso è in lotta con un discorso non presente, non raffigurato, e ha difficoltà a far prevalere la propria ideologia (quindi è una parola fortemente instabile). Quest’ultima parola di tipo attivo dispone di un altissimo gradiente dialogico, poiché la voce esterna (non espressa nel testo) non è plasmata dall’autore a suo uso e consumo né in senso esemplificativo (come, aggiungo io, in Mansfield Park di Jane Austen, che diventa una storia emblematica di come i valori tradizionali britannici possano essere preservati attraverso una donna di classe subalterna sullo sfondo di mutati orizzonti storici e culturali), né in senso critico (come è, invece, nella Icherzählung parodistica di Barry Lyndon di William M. Thackeray, in cui la voce del narratore è resa volutamente antipatica dall’autore).

La determinazione del tipo di parola bivoca presenta aspetti insidiosi, uno dei quali è costituito dal fatto che una singola enunciazione del narratore può spezzettarsi in voci differenziate, in opinioni altrui conflittuali e non immediatamente gerarchizzate dall’autore (con la conseguenza, per esempio, che può produrre ironia). La dialogicità della polifonia, rispetto a quella del romanzo monologico, richiede una serie di particolarità concomitanti, che danno vita al «grande dialogo». Le riassumo.

  1. L’autore è posto allo stesso livello dei suoi personaggi, e il suo giudizio non può avere alcuna posizione di privilegio rispetto al loro giudizio.
  2. I personaggi sanno tutto, conoscono gli altri personaggi e i loro giudizi nella stessa misura in cui li conosce l’autore. 
  3. Devono essere raffigurati intimamente più personaggi.
  4. Nessuno, nemmeno l’autore, conosce il personaggio più a fondo di quanto il personaggio conosca se stesso.
  5. Il personaggio è un «ideologo», che esprime le proprie idee su di sé e sul mondo, ricercandone le ragioni ultime.
  6. Il personaggio ha autocoscienza di sé (e l’autore ha autocoscienza di sé). Questa autocoscienza si figura il giudizio degli altri su di sé, sa guardarsi dall’esterno e conosce il limiti dei punti di vista altrui.
  7. Il personaggio sa di avere (ed effettivamente ha) l’«ultima parola su di sé», una parola che lo modifica intimamente e gli fa raggiungere l’unica verità possibile: la verità della propria autocoscienza. (Dostoevskij, p. 72)
  8. L’autocoscienza del personaggio «vive della propria indefinitezza, del proprio essere non chiusa e non risolta». (Dostoevskij, p. 72)
  9. Il personaggio è raffigurato attraverso l’idea; l’idea è raffigurata attraverso il personaggio.
  10. L’idea del personaggio è dialogica come la parola bivoca, capace di immaginarsi le repliche.
  11. La voce del personaggio è raffigurata come suo modo di essere: non è stilizzata in modo convenzionale (non è emblematica o esemplificativa di un tipo d’uomo).
  12. Ciascun personaggio principale esprime il proprio giudizio sulle idee degli altri personaggi principali (microdialogo) e, qualora venga espresso un giudizio dall’autore, il personaggio esprime il proprio giudizio sull’autore stesso (quella che Bachtin chiama «polemica letteraria»). (Dostoevskij, p. 80)
  13. La contrapposizione dialogica delle idee è sincronica.
  14. Passato, presente e futuro si incontrano sul piano della contemporaneità, anche come prototipi (voci di autori attestabili).
  15. Le idee raffigurate nel romanzo costituiscono l’interazione dialogica di idee dell’epoca dell’autore che nello stato del mondo risultano reciprocamente isolate.

La compresenza di queste particolarità costituisce il necessario fondamento del «grande dialogo», attraverso il quale è realizzato il romanzo polifonico.

Spesso romanzi nei quali sono presenti molte di queste particolarità (ma non tutte) vengono chiamati polifonici, per una certa influenza esercitata da Michail Bachtin sulla teoria del romanzo: questo dà luogo a non pochi fraintendimenti, nel momento in cui non si sia letto Dostoesvkij. Poetica e stilistica, con tutti i ‘problemi’ che esso pone; molti autori parlano apertamente di polifonia bachtiniana, senza tener conto però dei principi che ho sopra indicato, di fatto attribuendo a Bachtin contenuti avulsi dalla sua teoria e vanificando la cogenza stessa delle problematiche sul romanzo proposte da Bachtin.

Questo è forse dovuto al fatto che un alto tasso di dialogicità produce una sorta di effetto di distorsione percettiva, che fa passare per «idee altrui» l’uso delle idee altrui fatte da uno scrittore sostanzialmente monologico. È il caso del raffinatissimo Franco Moretti, il quale, nel suo intelligente e suggestivo Opere mondo, applica il termine polifonia al Faust di Goethe, all’Ulisse di Joyce e ad opere diverse dal genere romanzesco, come Foglie d'erba di Whitman e La terra desolata di Eliot. Moretti si richiama encomiasticamente a Bachtin, ma lo critica per quello che, secondo lui, il teorico russo avrebbe scritto sulla polifonia, ma che in effetti ha scritto sul genere romanzesco, il quale, senz’essere polifonico, può essere fortemente dialogico rimanendo pur sempre monologico (cfr. Franco Moretti, Opere mondo, Einaudi, Torino 2003, p. 53). In questo e in tal’altri giudizi dialogicità e polifonia vengono intese come sinonimi, mentre nella teoria bachtiniana sono fondamentalmente distinte, al punto da produrre (a seconda delle particolarità che ne costituiscono i momenti strutturali e semantici) il genere romanzesco e la relativa forma monologica o polifonica.

Nel saggio del 1941 «Èpos i roman» (trad. it. «Epos e romanzo», in: Michail Bachtin, Estetica e romanzo, cit.), Michail Bachtin ha fornito tre fondamentali particolarità innovative del romanzo, la cui compresenza lo rende diverso dagli altri generi letterari: tridimensionalità stilistica resa dalla coscienza plurilinguistica; tempo relazionato al tempo del lettore; raffigurazione familiare del personaggio («Epos e romanzo», p. 453). Questo punto è importante, poiché il romanzo è per Bachtin l’unico genere che possa essere polifonico.

Per dar luogo al «grande dialogo» polifonico non è sufficiente che nei pensieri dei personaggi sia espresso il giudizio degli altri su di loro. Oltre a interpretare il giudizio degli altri su di sé, un altro elemento tipico della polifonia qual essa è teorizzata da Bachtin è costituito dal fatto che i personaggi hanno la consapevolezza di avere «l’ultima parola su di sé», un elemento questo di fondamentale importanza nelle raffigurazioni contenute soprattutto nei romanzi maggiori di Dostoevskij. Per Bachtin, ciascun singolo elemento che contribuisce a realizzare la polifonia è in sé insufficiente, salvo forse l’autocoscienza del personaggio:

L'autocoscienza, come dominante artistica nella costruzione del personaggio, è già di per sé sufficiente a disgregare l'unità monologica del mondo artistico, a condizione però che il personaggio, come autocoscienza, sia effettivamente raffigurato, e non espresso, cioè non si confonda con l'autore, non divenga il suo portavoce, a condizione, quindi, che gli accenti dell'autocoscienza del personaggio siano effettivamente oggettivati e che nell'opera stessa sia data una distanza fra il personaggio e l'autore. (Dostoevskij, p. 70)

È quindi un elemento necessario del romanzo polifonico, come ho detto sopra, la presa di distanza delle idee dell’autore rispetto alla raffigurazione. Il che non vuol dire che le idee dell’autore siano omesse dal testo: tutt’altro. Ciò significa invece che le idee dell’autore debbono esser contenute nel testo in quanto idee che circolano nel mondo contemporaneo (l’autore stesso, non meno dei personaggi, deve compiere un grande sforzo di autocoscienza per scrivere un «grande dialogo»), ma senza che esse prevarichino o assumano una posizione privilegiata rispetto alle idee dei personaggi raffigurati. Si pensi al finale aperto de I demoni (1871-72), in cui l’autore non sovrappone la propria idea a quella dei personaggi, esprimendola direttamente o usando le parole dei personaggi per esprimerla, ma segnala la difficoltà di comprendere perché il protagonista Stavrogin si sia ucciso e che senso abbiano per lui le questioni ultime del mondo.

Varvara Petrovna [la madre di Stavrogin] si slanciò su per la scaletta; Daša la seguì; ma non appena ella entrò nello stanzino, gettò un grido e cadde priva di sensi.
Il cittadino del cantone di Uri penzolava lì, dietro la porticina. Su un tavolino c’era un pezzetto di carta con queste parole a lapis: «Non s’incolpi nessuno, sono io». Pure sul tavolino c’erano anche un martello, un pezzetto di sapone e un grosso chiodo, evidentemente preparato come riserva. Il solido cordone di seta, evidentemente preparato e scelto in precedenza, con cui s’era impiccato Nikolàj Vsévolodovič, era copiosamente insaponato. Tutto indicava la premeditazione e la coscienza conservata fino all’ultimo momento.
I nostri medici, fatta l’autopsia del cadavere, negarono in modo assoluto e reciso l’alienazione mentale.

Sono le ultime parole del romanzo. L’asettica voce del narratore prende le distanze dall’io del personaggio, finché l’io riaffiora con forza nelle parole del bigliettino, e la verità ultima viene spartita in due mondi, con l’inserimento dell’ultima parola dell’autorità, che ripropone un differenziale fra individuo e collettività («nostri»). Come scrive Bachtin in Dostoevskij:

[L]a cosa principale nella polifonia di Dostoevskij è invece proprio ciò che si compie tra diverse coscienze, cioè la loro interazione e interdipendenza. (Dostoevskij, p. 52)

Per Bachtin, «raffigurare l’idea» significa infatti farla vivere di vita propria, non sottoposta a un orizzonte di giudizio estrinseco di grado superiore:

Dostoevskij sa appunto raffigurare l’idea altrui conservandone tutto intero il significato, come idea, ma al tempo stesso conservando anche la distanza, senza affermare né confondere questa idea con la propria espressa ideologia. (Dostoevskij, p. 111)

Uno dei principi bachtiniani è riassunto dal motto «dove comincia la coscienza, là comincia il dialogo». Senza entrare nel merito di certi epiteti sovietici rivolti agli scrittori occidentali (in particolare a Proust e Joyce), è interessante leggere quanto ha scritto Valerij Kirpotin, citato da Bachtin in Dostoevskij:

A differenza del degenerato psicologismo decadentistico di un Proust o di un Joyce, che segna il tramonto e la morte della letteratura borghese, lo psicologismo di Dostoevskij nelle sue creazioni positive non è soggettivo, ma realistico. Il suo psicologismo è un particolare metodo artistico di penetrazione nell’essenza obiettiva della contraddittoria collettività umana, nel cuore stesso dei rapporti sociali che preoccupano lo scrittore, e un particolare metodo artistico di riprodurli nell’arte della parola. […] Dostoevskij pensò mediante immagini elaborate psicologicamente, ma pensò socialmente. (p. 54)

Lo psicologismo joyciano non è sociale, né realistico come lo intendeva Kirpotin. È uno psicologismo molto raffinato, espresso attraverso molteplici espedienti, ma sostanzialmente legato a una concezione mitica della letteratura. Una concezione mitica che è espressa con vistose forme di carnevalizzazione. Al tempo stesso, è proprio un romanzo come Ulisse di James Joyce (1922), e con esso romanzi più recenti quali Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami (2002) e L’anno del diluvio di Margaret Atwood (2009), a porre problemi al tentativo bachtiniano di limitare l’ambito di applicazione dei «grandi dialoghi» a certi romanzi ritenuti un tempo meramente psicologisti, e dunque intesi come proiezioni delle idee intime di uno o più personaggi a scapito della dialettica, in campo neutro, di tali idee con le idee del mondo contemporaneo che formano il concerto polifonico bachtiniano. L’uso degli oggetti parlanti nell’episodio «Circe» di Ulisse indica senz’altro, nell’approccio di Bachtin al grande dialogismo raffigurato dai personaggi ‘umani’, che non siano prototopi umani, che Ulisse non è un romanzo polifonico. Ma se, per converso, dico io, la percezione onirica del personaggio e il conflitto inconscio tra le idee vengono raffigurati, in Ulisse, così come in Kafka sulla spiaggia, attraverso espedienti onirici dell’incoscio, ed essi si ridispongono attraverso forme di censure psichiche, o comunque di rielaborazioni personali del vissuto, di fronte a quale tipo di romanzo ci troviamo? È difficile, in questo caso, sostenere che romanzi fortemente caratterizzati dai miti umani e dalle loro conflittualità – quali, appunto, Ulisse, Kafka sulla spiaggia e lo speculativo L'anno del diluvio – possano esser contenuti nella formula bachtiniana di romanzo monologico, pur non essendo strettamente etichettabili come romanzi polifonici.

Per Bachtin, La divina commedia di Dante è la prima opera moderna in cui sia stata raffigurata l’autocoscienza del personaggio, ossia quell’elemento fondamentale, e quasi autonomo, tramite il quale può prender corpo il grande dialogo. Quel che manca, a mio avviso, nell’importantissimo contributo dell’autore di Dostoevskij è, da un lato, una maggiore attenzione allo sviluppo moderno del poema narrativo, il quale non reca seco le stesse caratteristiche di assolutezza del punto di vista della poesia lirica, le quali, per Bachtin, costituiscono un limite invalicabile per la raffigurazione dialogica romanzesca. Dall’altro, proprio poggiando la polifonia sulla coscienza, la teoria bachtiniana lascia scoperto il territorio di un tipo di romanzo ulteriore che è andato affermandosi sempre più nell’ultimo secolo: un romanzo in cui non solo la parola bivoca è attiva, ma la percezione degli oggetti si fa bivoca nella mente dei personaggi, in quella dell’autore e nelle interpretazioni incerte del lettore. Un tipo di romanzo che non è né monologico, né polifonico nei termini stretti del modello bachtiniano, anche se, a seconda dei casi e dei limiti esposti con straordinaria efficacia da Michail Bachtin, possono esser, per comodità e finché non vi sia una terminologia più adeguata, annoverati tra i monologici e i polifonici, a seconda del prevalere dell’intenzionalità dell’autore sulle idee raffigurate.

Nicola d'Ugo



Bibliografia
  • Michail Bachtin, Problemy poètiki Dostoevskogo, Chudožestvennaja literatura, Moskva 1972 (trad. it. di G. Garritano, Id., Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968).
  • –, Problemy tvorčestva Dostoevskogo, Next, Kiev 1994.
  • –, Voprosy literatury i èstetiki. Issledovanija raznych let, Chudožestvennaja literatura, Moskva 1975 (ed. it. a cura di C. Strada Janovič, Id., Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001).
  • Gilles Deleuze, «À quoi reconnaît-on le structuralisme?», in François Châtelet (a cura di), Histoire de la philosophie. Idées, doctrines. Tome 8: «Le XXe siècle», Hachette, Paris 1972 (ed. it. a cura di S. Paolini, Id., Lo strutturalismo, SE, Milano 2004).
  • Franco Moretti, Opere mondo, Einaudi, Torino 2003.

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