Luigi Malerba |
Malerba è scomparso a Roma l’8 maggio 2008. Con affetto vogliamo ricordarlo pubblicando questa intervista quasi interamente inedita.
Doriano Fasoli: Malerba, quando e perché decise di trasferirsi da Parma a Roma?
Luigi Malerba: Nel gennaio del 1950 sono scappato da Parma, una città civilissima ma con un clima insopportabile, caldo torrido d’estate e freddo glaciale d’inverno, e sono sbarcato nella Capitale. Una migrazione, la mia, come quella degli uccelli che vanno in cerca di condizioni di clima favorevoli. Fra parentesi dirigevo allora Sequenze, una rivista cinematografica alla quale collaboravano qualificati studiosi di cinema e letterati, da Guido Aristarco a Mario Verdone, da Mino Maccari a Ennio Flaiano: un ottimo biglietto da visita per l’ambiente cinematografico romano. Il clima, il cinema: due buoni motivi per trasferirmi a Roma. Intorno ai fasti e alle miserie della vita cinematografica ho scritto su Cinema Nuovo negli anni Cinquanta Le lettere di Ottavia, che ho ripescato nel 2004 e pubblicato con questo stesso titolo in un librino per l’editrice Archinto.
Le sembrò subito una città accogliente? Quali furono le sue prime impressioni?
Una città accogliente, braccia aperte! Qualche mese dopo il mio arrivo prendemmo in affitto io e Attilio Bertolucci la casa di Roberto Longhi. Un bell’appartamento in via del Tritone, quasi all’angolo con via Sistina, al quinto piano, con una grande vetrata dalla quale si vedeva un giardino interno di pini altissimi, insospettabile in quella strada. Mobili antichi, due Morandi in camera da letto e nel soggiorno un grande quadro di Cavaglieri, un pittore molto amato da Longhi. Negli anni Cinquanta una Roma con poco traffico: si poteva ancora attraversare la città in automobile senza ingorghi, passeggiare nelle strade del Centro, e greggi di pecore di prima mattina percorrevano piazza del Popolo passando fra i tavoli del Caffè Rosati. Al pomeriggio, anche nelle estati più calde, aleggiava il Ponentino: un fresco venticello marino che venne poi bloccato dalla barriera dei grattacieli dell’Eur. In via Bissolati Il California ci faceva scoprire per la prima volta gli hamburger all’americana che però, esaurita la novità, ci indussero a preferire la pizzeria La Capricciosa, su un lato di piazza Augusto Imperatore, frequentata da ragazze capricciosissime.
Con chi stabilì presto rapporti d’amicizia?
Conobbi fra le prime persone Luigi Bartolini, autore del libro Ladri di biciclette e di bellissime acqueforti. Nacque una simpatia immediata. Mi regalò alcune acqueforti che conservo alle pareti della mia casa e un disegno con inchiostro rosso e verde degli Dèi incazzati che lanciano fulmini contro il nostro pianeta. Bartolini mi presentò ad Alberto Lattuada, che mi presentò a Ennio Flaiano, con il quale collaborai alla sceneggiatura di un film intitolato Servizio sensazionale, che però non venne mai realizzato. Poi Lattuada mi fece fare un piccolo contratto per la sceneggiatura di un film tratto da «Il cappotto» di Gogol’, e in quella occasione conobbi Zavattini con il quale lavorai in seguito ad altri progetti. La mia collaborazione a Il cappotto ebbe molto successo, al punto che mi venne offerto uno stipendio per lavorare come soggettista-sceneggiatore alla Ponti-De Laurentiis. Con un gesto di assurda presunzione preferii restare indipendente, libero come un uccello. Da allora collaborai a molte sceneggiature per Lattuada, Ferreri, Allégret, Fassbinder, Eriprando Visconti, Festa Campanile, Monicelli, Fabio Carpi; e fui tra i primi scrittori a collaborare con la televisione sceneggiando, insieme a Fabio Carpi, una serie su Petrosino. Feci molte altre amicizie in quegli anni nei due ristoranti di via della Croce: Otello, frequentato soprattutto da gente del cinema, da Antonioni a Monicelli (ma lì ho incontrato anche Curzio Malaparte e Tristan Tzara), e Cesaretto, frequentato da letterati che diventarono subito amici: Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Giambattista Vicari, Mino Maccari, Antonio Delfini e Ennio Flaiano, che mi presentò poi a Bompiani per il mio primo libro. Insomma posso dire che il mio arrivo a Roma avvenne all’insegna della fortuna e degli dèi ospitali. Per sopravvivere non dovetti vendere i giornali per le strade, né fare il manovale, né scaricare le cassette di verdura nei mercati, né attaccare manifesti a cottimo, né tantomeno tirare di boxe come raccontano le colorite biografie degli scrittori americani. Con i miei primi modesti guadagni comprai una Morris di seconda mano, con la quale esplorai i dintorni di Roma: Villa Adriana, il Lago di Bracciano, i Castelli, la foresta di Manziana o il paesino di Calcata, in compagnia di qualche ragazza gentile.
C’è chi ha definito Roma una città impossibile, sconvolta, repellente, una giungla che riduce la vita sociale e toglie qualsiasi desiderio di partecipazione; ma c’è anche chi l’ha vista come un serbatoio infinito di emozioni, un palcoscenico di situazioni che invitano allo sguardo e al pensiero, una fonte non esaurita di magica luce, una città ancora avvolta in certe ore del giorno da un’atmosfera di perfezione e bellezza. Dal suo osservatorio, lei come vede Roma?
Nei momenti negativi della vita che piovono ogni tanto dal cielo sugli umani, è un motivo di conforto abitare in questa città fantastica dove si incontrano ad ogni passo le opere di oltre due millenni di storia. Non opere qualsiasi, ma grandiosi monumenti come il Colosseo, il Pantheon, la più grande collezione di obelischi egizi, le basiliche e le chiese barocche, opere di grandi architetti come Bernini e Borromini, di grandi pittori come Michelangelo e Caravaggio, luoghi pieni di magia come piazza Navona, piazza di Spagna o luoghi meno vistosi come la piazzetta delle Tartarughe o di San Francesco a Ripa in Trastevere. In un negozietto di antiquario all’inizio di via dei Coronari, la volta è sostenuta da quattro rare colonne egizie. Certo fa senso che a piazza di Spagna e a piazza del Pantheon abbiano preso dimora due McDonald’s in rappresentanza della peggiore volgarità americana, eredi del primo simpatico California. Ho abitato con la famiglia per quattro decenni in via Tor Millina, a un passo da piazza Navona, e devo dire purtroppo che a partire dagli anni Ottanta il luogo aveva cominciato a deteriorarsi. Al posto dei vecchi negozietti di alimentari e delle botteghe artigiane sono nate volgarissime paninerie, spaghetterie, similpub, crêperie, gelaterie che espongono enormi gelati di plastica, birrerie e rosticcerie che hanno completamente stravolto l’ambiente più simile ormai a una periferia di Marsiglia che a un quartiere della nobile vecchia Roma. Le strade lì intorno alla Chiesa della Pace sono occupate dai venditori di cianfrusaglie e dai tavolini abusivi dei ristoranti, per cui alla mattina il selciato è pieno di bicchieri di plastica e di cartacce. Un comitato di quartiere che protestava contro il degrado e le licenze concesse dal Comune ai locali notturni si è sentito rispondere dal sindaco Rutelli: «Se non vi sta bene, andate ad abitare all’Olgiata!». Ancora qualche mese fa una famosa giornalista americana che abita lì vicino a piazza Navona ricordava l’arroganza di un sindaco che ha fatto anche qualcosa di buono, soprattutto l’inversione di tendenza dopo i decenni democristiani (fra l’altro l’impostazione dell’Auditorium), ma che ha molte responsabilità nel degrado del Centro Storico. Il mio trasloco dalla Roma dei Papi alla Roma degli Imperatori, da piazza Navona a via della Domus Aurea in cima al Colle Oppio, è avvenuto in direzione di un’area immune dagli ingorghi, dai rumori e dagli spifferi delle stradine intorno al glorioso Caffè della Pace. Qui in alto si respira un’aria più pulita, filtrata dalla fitta vegetazione del Parco di Traiano, dove si trova la Domus Aurea, e rallegrata dal gracchiare dei gabbiani e delle cornacchie.
Le sembra che la gente si rifugi sempre di più nel proprio quartiere come in un paesino, riducendo via via la propria vita sociale, inibita da un terrore quasi fisico per una città che non accoglie, che respinge, che è causa continua di infelicità?
La congestione del traffico che rallenta e condiziona gli spostamenti all’interno della Capitale ha finito per creare una nuova sedentarietà. Per molti mesi i romani (più giusto dire gli «abitanti di Roma», ché spesse volte in origine non sono affatto romani) si spostano per andare al lavoro: ma la loro vita sociale si svolge nel quartiere dove abitano e, se esiste, ha come punto di riferimento la piazza del quartiere. La piazza ha assunto una nuova importanza nella vita delle città, e ha condizionato anche l’architettura e l’urbanistica più avanzata che, finalmente, da La Défence parigina alla Potsdamer Platz, il nuovo quartiere berlinese, ha concentrato in una piazza i servizi essenziali dalle poste alle banche, ai caffè e ristoranti (dispiace che anche al centro del nuovissimo quartiere di Berlino si sia insinuato un altro McDonald’s). In una grande città come Roma la vita circoscritta in un quartiere non va vista come un fenomeno negativo, ma un incentivo a migliorare le periferie, a dotarle di tutti quei servizi che possono rendere più gradevole la vita degli abitanti. Una impresa di immensa difficoltà, se si pensa che nei decenni democristiani Roma è cresciuta a dismisura secondo un unico indirizzo speculativo, per cui interi quartieri composti di palazzi di sette o otto piani (per esempio tutto il Quartiere Africano, l’Appia Nuova, la Tuscolana fino a Cinecittà ecc.), non hanno nemmeno un garage pubblico o un grande spazio disponibile: per cui le macchine vengono posteggiate in seconda fila e sui marciapiedi, creando seri problemi agli abitanti e al traffico. Insomma, un problema di parcheggi sotterranei che da solo potrebbe assorbire una notevole parte delle risorse del Comune. Non so come Veltroni e gli assessori al traffico riusciranno a risolvere il problema. Certo, è un discorso che si morde la coda, ma se i mezzi pubblici fossero più efficienti forse i Romani imparerebbero a servirsene e perderebbero il vizio di prendere la macchina anche per andare a comprare le sigarette dal tabaccaio dietro l’angolo.
Lei come riesce a ritagliarsi, nel ritmo convulso di una città in continua trasformazione, il tempo prezioso della scrittura?
Ho traslocato in una casa in cima al Colle Oppio, una zona bellissima con intere strade di splendide palazzine Liberty come via Ruggero Bonghi (il solito raccomandato che non meritava di avere intitolata al suo nome una strada così elegante). Ricordiamo che questo complesso Liberty è riuscito fortunosamente a sfuggire ai geometri piemontesi calati a Roma subito dopo l’Unità per costruire quei tetri palazzoni che hanno imbruttito tutta la zona intorno alla Stazione Termini e sono diventati modello speculativo anche per i palazzi intorno a via Veneto, dove hanno preso il posto delle splendide ville con giardino di cui lamenta la scomparsa Gregorovius nei suoi Diari romani (unica sopravvissuta con uno spizzico di giardino è la Villa dell’Istituto Svizzero e, protetto opportunamente da alte mura, il grande giardino dove sorge la Casa Madre dei Gesuiti a fianco di Porta Pinciana). Nei due anni che abito sul Colle Oppio ho visto aumentare anche qui le automobili in quantità esponenziale per cui non c’è mai un metro libero dentro le linee blu, e sono sempre occupati abusivamente anche i pochi spazi riservati agli handicappati (salvo il villino della Digos di via Mecenate che, oltre al garage interno, si è riservati ben dieci posti a righe gialle). Nonostante le troppe automobili che inquinano la vista, qui riesco a scrivere e ho finito un romanzo, fra l’altro ambientato a Roma, che uscirà più o meno fra un anno sempre da Mondadori. Ma devo dire che divido il mio spazio-tempo con la casa di campagna vicino a Orvieto, quando voglio sottrarmi all’antropofagia di questa città meravigliosa e invadente.
Dario Bellezza sosteneva, negli anni Novanta, che «Roma è invivibile non solo per gli scrittori, ma per tutti i cittadini e anche per i cani, i gatti e persino per i topi. Non si vive, infatti, di soli monumenti, ma anche e soprattutto di aria pulita.» La situazione da allora le sembra mutata?
«Andate a vivere all’Olgiata!», aveva detto il sindaco Rutelli ai cittadini esasperati per le licenze concesse ai locali dislocati in stradine strette dove rimbombano le musiche notturne ai massimi decibel, in aggiunta al rombo delle motociclette di grossa cilindrata e ai motori dei fuoristrada (che non si capisce perché debbano entrare nel fragilissimo Centro Storico). Una offesa che ricordano tutti a distanza di tanti anni. Mi sembra invece che finalmente in Comune si è capito che i ragazzi che frequentano i ristoranti o i locali notturni del Centro Storico possono lasciare la macchina, per esempio, sul Lungotevere, e fare qualche centinaio di metri con le proprie gambe. Dario Bellezza certamente esagerava, ma è anche vero che Roma è una città difficile, con una pesante eredità di speculazione edilizia. Bisogna riconoscere che gli sforzi di Veltroni e dei suoi assessori, purtroppo non sempre aiutati dalla popolazione, stanno già ottenendo risultati consistenti.
È favorevole alle imprese di architettura fantastica (ma utile nella pratica), come ad esempio l’Auditorium?
Direi proprio di sì. Mentre ho qualche incertezza sull’Ara Pacis di Richard Meier e sul progetto della Nuvola di Fuksas all’Eur. Bisogna, secondo me, fare attenzione a quelle opere che hanno soprattutto lo scopo di creare un alone di interesse mediatico intorno al nome dell’architetto, ma che possono prosciugare, senza riscontri pratici, consistenti risorse del Comune. Va messo in conto, però, che a Parigi le opere dei grandi architetti (da Bofill a Perrault, da Piano a Rogers, da Pei a Nouvel: un ampio repertorio) sono un’attrazione per i turisti, nonostante che alcune di queste – come la Grande Bibliothèque o la spettrale Défence – siano assai discutibili. In una metropoli come Roma non servono soltanto le grandi opere spettacolari, ma tanti interventi di qualità per fabbricare nuovi complessi di abitazioni, per riqualificare fabbricati, giardini e piazze nelle periferie lasciate in abbandono o manomesse malamente nei peggiori anni della nostra città. Ci sono a Roma almeno cinque o sei studi di architetti giovani di grande qualità innovativa e professionalità che vengono chiamati a realizzare i loro progetti a Nizza o a Orvieto, a Campobasso o in Sicilia, ma che non vengono mai chiamati dal Comune di Roma. Perché?
Ha mai girovagato per la città a bordo di un tram o di un autobus?
C’è un tram, il numero 3, che fa un percorso stupendo dal Colosseo all’Arco di Costantino, al Circo Massimo, alla Passeggiata Archeologica, alla Piramide e al Tevere fino a Porta Portese. Peccato che i vetri siano stati oscurati dal reticolo della pubblicità togliendo ai passeggeri il piacere di un percorso di una bellezza unica al mondo.
Pur rifiutando posizioni apocalittiche e profezie di irrisolvibilità, quando sarà pensabile una Roma tranquilla, senza siringhe per strada e febbri del sabato sera? Meglio: quali sono i problemi principali, a suo giudizio, e sui quali vorrebbe s’intervenisse urgentemente?
Ci sono priorità di vari gradi. Al numero uno metterei il problema della casa, poi quello del traffico collegato ai problemi dell’inquinamento e dei trasporti pubblici, in secondo luogo l’inquinamento acustico legato sia al traffico che ai locali notturni, poi la pulizia della città. Roma purtroppo è una città sporca. Dopo tutti i tentativi di persuasione direi che è arrivato il momento della repressione: nelle strade che attraversano i boschi della California, vistosi cartelli informano che l’ammenda per chi getta rifiuti è di mille dollari. Naturalmente i boschi sono pulitissimi. Nelle città della costa californiana le multe sono molto salate anche per chi getta a terra un pezzo di carta. In Giappone, e perfino a Singapore, viene multato chi non rispetta la pulizia delle strade e dei giardini. Purtroppo la sporcizia induce alla sporcizia: ho visto turisti svizzeri, così puliti a casa loro, gettare dalla automobile bicchieri di plastica e bucce di arancia. Nella strada di fianco all’ingresso alto del Parco di Traiano, in fondo a via Mecenate, c’è una vecchia automobile con una svastica disegnata sul vetro che serve come dormitorio di vagabondi. Gli abitanti della zona hanno ripetutamente telefonato ai Vigili Urbani, alla Polizia, all’Ama; hanno raccolto e spedite al Comune centinaia di firme: ma la macchina è ancora lì, diventata un simbolo negativo per tutto il quartiere, una vergogna sotto gli occhi dei genitori che ogni pomeriggio accompagnano i bambini nel Parco. E finalmente si è deciso di chiudere di notte il Parco di Traiano diventato da un po’ di tempo un luogo molto pericoloso: i giornali hanno parlato del tentativo di rapimento di una bambina di otto anni con l’arresto del rapitore, e della giovane donna violentata da sette extracomunitari. Non soltanto un luogo pericoloso, ma anche un bivacco indecente di vagabondi che si lavano nelle fontane, stendono i panni ad asciugare sulle siepi e lasciano sui prati piatti di plastica e cartacce, ma, anche, siringhe e preservativi. Insomma un luogo non proprio adatto ai bambini, anche per gli escrementi dei cani ai quali si aggiungono gli escrementi grandiosi dei due cavalli del vigile e della vigilessa che ogni tanto si esibiscono con elegante noncuranza nei viali del Parco. La scalinata che mette in comunicazione le fermate di autobus e tram di via Labicana con il quartiere del Colle Oppio è al buio, perché non solo mancano quasi tutte le luci, ma è stato divelto perfino uno dei supporti di ghisa che reggono i lampioni. È un vero peccato che zone bellissime frequentate dai turisti di tutto il mondo siano così trascurate. Ci dimentichiamo troppo spesso che il turismo è la prima industria sempre in attivo della nostra ormai povera Italia.
Come vede il rilancio culturale, considerato uno dei punti di forza del programma del sindaco Veltroni?
Il rilancio culturale di Roma, i grandi concerti di livello internazionale, le eccellenti mostre d’arte, le Notti Bianche e infinite altre iniziative culturali sono grandi risultati di questa Amministrazione e bisogna darne atto a Veltroni che ha preso con coraggio iniziative grandiose realizzate con grande competenza e bravura da Gianni Borgna. Ma vorrei che Veltroni non si adagiasse su questi innegabili grandi successi per trascurare i gravissimi problemi di Roma. Caro Walter, ascolta i giusti complimenti ma anche, ti prego, i cittadini che mettono sul tavolo i tanti problemi che affliggono Roma. Lo sai anche tu che a Berlino gli autobus sono puntuali e trovi sempre posto a sedere, che a Parigi tutte le strade all’alba vengono lavate con l’acqua pompata dalla Senna, che nelle allegre e pulitissime strade di Barcellona, di Vienna o di Strasburgo vengono protetti come monumenti d’arte i vecchi negozi Liberty e stile Secessione, mentre via del Corso (per la verità già da molti anni) è stata trasformata in un mercatino di mediocri jeanserie. Ahimè, è difficile lodare la pulizia della metropolitana londinese dopo quello che è successo, ma Roma non può cedere il passo a nessuna delle grandi città europee, perché, nonostante tutto, non ha eguali in Europa e nel mondo! Essere Sindaco di Roma è un impegno grandioso, un onore, ma anche una scommessa.
Si dice: chi lascia Roma, perde Roma… Lei la lascerebbe mai? E se sì, per quale altro luogo?
Io amo Roma e credo di averlo dimostrato in più di una occasione. Non mi sogno di lasciarla dopo che vi abito felicemente da più di mezzo secolo. Quando incontro l’ossido di carbonio o le polveri sottili, cambio strada. Le mie critiche sono la espressione del mio amore e nascondono l’ottimismo e la fiducia nei nostri Amministratori e nell’amico Veltroni che conosco da molti anni come persona di grande entusiasmo e intelligenza.
Quando nel 1961 uscì presso Rusconi e Paolazzi l'antologia eretica dei Novissimi curata da Alfredo Giuliani, risuonarono lamenti e si misero in allarme anche i poeti laureati, ebbe occasione di dirmi qualche tempo fa. Vogliamo ricordare, «con leggerezza postuma», chi furono i primi ed accaniti oppositori ad ogni novità, allora e negli anni che seguirono?
Effettivamente l’antologia dei Novissimi (1961) mise subito in allarme i «poeti laureati», i quali capirono che dietro l’antologia di Alfredo Giuliani si stava formando un gruppo di scrittori decisi a rovesciare il tavolo sul quale si giocavano le vecchie partite letterarie. L’allarme iniziale si tramutò in rabbiosa opposizione quando si attivò la neoavanguardia con la formazione del Gruppo 63. Il primo a soffrire fu Pasolini, il quale da uomo di punta si trovò di colpo collocato nelle retroguardie (su Nuovi Argomenti definì «giovanotti cretini e petulanti» i componenti del Gruppo 63). Altrettanto ostili alla nuova letteratura che stava entrando in scena furono Attilio Bertolucci e Giorgio Bassani, che in vario modo, insieme a Pasolini, avevano voce in capitolo nelle case editrici Feltrinelli, Garzanti, Einaudi, Guanda e nelle riviste Nuovi Argomenti, Palatina, Botteghe oscure. Vennero rifiutati in quegli anni libri di Arbasino, Pagliarani, Malerba e di altri scrittori e poeti che appartenevano alla neoavanguardia e che, nonostante tanta ostilità, proseguirono allegramente e con successo per la loro strada.
Ha ancora una sua ragion d’essere, oggi, la figura del critico militante?
Qualche tempo fa in una intervista su La Stampa: Tuttolibri ho diviso i critici di letteratura in due categorie: i Caproni dialettici e le Pecore dogmatiche. Confermo quella intervista, ricordando che nella prima categoria comprendo quei critici che analizzano, interpretano, discutono, smembrano e ricompongono un testo letterario con appassionata partecipazione. Non di rado i Caproni dialettici sono aggressivi e umorali, e i loro giudizi perentori e inappellabili lasciano un segno, o una ferita. Potrei fare una buona dozzina di nomi. Molte volte sono rimasto sorpreso e lusingato da quanti significati possano scaturire da un romanzo o da un racconto, e confesso che quasi sempre mi sono trovato d’accordo, anche quando questi significati travalicavano le mie intenzioni. L’intervento della critica consente a uno scrittore di farsi arbitro di se stesso, di osservare vantaggiosa-mente i propri libri con distacco, dal di fuori, come se si trattasse di una ‘cosa’ estranea.
Una funzione non secondaria della critica dialettica è quella di sollecitare lo scrittore all’autocoscienza, a mettere in chiaro il proprio repertorio di retorica personale. La dissoluzione del personaggio uomo, l’uso improprio delle strutture del giallo, l’adozione di retoriche antiche come l’invettiva, l’introduzione delle tecniche della digressione, l’operare sulla sintassi oltre che sul lessico, l’uso della dialettica o del sofisma in funzione narrativa, le dissolvenze su linguaggi antichi, i paradossi e i paralogismi, il ‘monologo esteriore’: tutto questo fa parte di un mio progetto corrente di insinuare qualche libertà in una lingua pietrificata come l’italiano scritto della tradizione. Tanto più che l’italiano della nuova era elettrodomestica sta diventando una lingua impossibile, troppo rigida per tener dietro alla corsa tecnologica, troppo poco espressiva per l’uso letterario e perciò vittima designata di gerghi, dialetti, plurilinguismi, linguaggi settoriali o di gruppo. La scommessa della modernità sarà quella di sperimentare nuove forme senza rinunciare al piacere del testo e alla sua leggibilità. È su questo estensibile presupposto che la critica, quando non si lascia sedurre dalle sirene editoriali o non si abbandona alle enfasi stagionali, può contribuire a trasformare il libro in un oggetto dirompente, strumento di conoscenza, macchina per attingere nuovi orizzonti. Ma sì, forse ha qualche ragione Pound quando afferma che «la letteratura […] incita l’umanità,» nonostante tutto, «a vivere». Io non sono certo uno scrittore naïf, ma forse conservo qualche residuo candore che mi procura qualche disagio, ma mi mette al riparo da quel cinismo di stampo letterario contro la critica che viene periodicamente esibito come antidoto a laceranti e segrete frustrazioni.
Perfino le Pecore dogmatiche, descrittive e testimoniali, offrono generosamente il riflesso, volatile ma fedele, dello specchio dalla parte del lettore. E le loro recensioni sono gradevoli alla lettura, levigate, sonore e narrative. Il consenso o dissenso delle Pecore dogmatiche non sono mai sostenuti da argomenti, ma da aggettivi. E il più delle volte si dilungano a riassumere la trama del libro lasciando cadere distrattamente il loro verdetto nelle ultime quattro righe. La loro funzione è quella di appiattire le asperità, di sollecitare un uso indulgente del testo, di rendere commestibili anche i cibi insipidi o indigesti. È un bene, è un male? Così vanno le cose nella Repubblica delle Lettere.
L'informazione ragionata e intelligente, non importa a quale delle due categorie io la inscriva, oppone utilmente qualche barriera alla confusione editoriale: ma scarseggia, fatta eccezione per una decina di critici che, qualche volta nella civile provincia italiana, informano i lettori su ciò che succede nelle patrie lettere. Già che parliamo del Gruppo 63, un ruolo essenziale hanno avuto i suoi sostenitori esterni a diverso titolo, da Andrea Barbato a Giuliano Gramigna, da Maria Corti a Walter Pedullà e qualche altro.
Mallarmé esigeva che si depennasse dal dizionario la parola «come». Lei quale vorrebbe?
Stavo per dire la parola «sempre», poi mi sono ricordato che l’ho usata addirittura nel titolo di un mio libro (Itaca per sempre). Ma lì si trattava di un tempo mitico, quando si poteva tranquillamente ipotecare il futuro. Oggi le prospettive si sono ristrette al punto che la parola «sempre» è diventata presuntuosa, e in qualche caso addirittura disonesta. Vivere alla giornata non è soltanto un modo di dire. La televisione, il giornalismo, purtroppo anche la politica, si consumano nello spazio di un mattino. La parola «sempre» resiste imperterrita nelle canzonette.
Scriveva Cioran che «il prosatore deve evitare la poesia come la peste. La poesia deve restare per lui una tentazione da vincere a ogni costo. Che si avverta in lui la possibilità – o il rimpianto – della poesia. Altrimenti si diventa dei Voltaire». È d’accordo?
Il rischio di diventare dei Voltaire (magari!) proclamato da Cioran, il più scettico e negativo fra tutti gli scrittori, mi sembra grottesco. Comunque, se questo è il rischio, consiglio a tutti di non scrivere mai una poesia. Tra parentesi io non ho mai scritto poesie, ma sono sempre Luigi Malerba.
Rimbaud ha castrato la poesia per un secolo. Secondo lei il vero genio rende impotenti quelli che vengono dopo di lui?
Al contrario, io credo che avere davanti a sé l’esempio degli alti livelli che può raggiungere la poesia dovrebbe accrescere l’entusiasmo e l’impegno degli altri poeti.
Quali sono i poeti che rilegge più volentieri? Ce n’è stato qualcuno in grado di commuoverla fino alle lacrime?
La Divina Commedia e il Cantico dei Cantici, poesia sapienziale tenuta in gran conto dall’antichità fino a oggi, e per me occasione di grande commozione letteraria, senza lacrime.
Qual è la sua idea di vita spirituale?
Tutti i pensieri fanno parte della vita spirituale di una persona. Pensieri alti o bassi, severi o allegri, a seconda delle occasioni. Insomma la vita spirituale di una persona è mobile qual piuma al vento. E io parlo anche e soprattutto per me stesso.
Oggi quali sono i suoi rapporti con la poesia?
Spesso la poesia mi inquieta. Mi pare il segno di un rapporto vitale, anche se non è questo che normalmente si chiede alla poesia. Per la mia pace mi dico che ci sono altre cose nel mondo oltre la poesia. Al momento non me le ricordo, ma ci sono.
Attualmente a cosa si sta dedicando?
Alla prosa. Ho appena finito un romanzo e sto facendo un’ultima lettura prima di consegnarlo all’editore.
Con quale spirito sta vivendo questi tempi di oscurità e livori?
La situazione generale è pessima dopo gli anni di governo di una destra incapace e corrotta come questa. Quando vedo nei telegiornali la passerella dei nostri governanti, quelle facce soddisfatte delle loro poltrone e dei loro stipendi (più gli annessi e connessi), capisco che lo stato della cosa pubblica non poteva andare meglio di così. Ma lo sconforto peggiore sono gli italiani che hanno dato il voto a questi mammiferi.
Si considera un apocalittico?
Sono politicamente infelice. Non so definire in altro modo i miei rapporti con l’Italia maccheronica di questi anni.
Come considera il ‘successo’?
Dipende da come lo si ottiene, ma in ogni caso meglio dell'insuccesso. Un detto napoletano: se la ricchezza non procura la felicità, figuriamoci la miseria.
[parte dell'intervista è stata pubblicata nel volume: Luigi Malerba, Parole al vento, Manni, San Cesario di Lecce 2008. A cura di Giovanna Bonardi.]
Nessun commento:
Posta un commento