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25 maggio 2018

«“Pastorale americana”. Un romanzo polifonico di Philip Roth» di Nicola d’Ugo



Elegiaco e tragico, umano e crudele, provocatorio e riflessivo, pervaso di quel mistero che fa di una storia interiore l'avventura di una vita ignota a chi la viva, il romanzo di Philip Roth Pastorale americana (American Pastoral, Houghton Mifflin, Boston 1997) l’ho trovato affascinate per l'intelligenza dell'autore, la sua duttilità espressiva, l'ampiezza delle tematiche trattate. Tematiche che sono incluse in atmosfere, in situazioni specifiche, dove emerge l'intensità delle convergenze di stati del mondo che sarebbero altrimenti tenuti separati, come in quella splendida sequenza del film di Robert Benton La macchia umana (2003), tratto dall'omonimo romanzo di Roth, in cui Coleman Silk (interpretato da Anthony Hopkins) e Nathan Zuckerman (Gary Sinise) ballano come innamorati, felici della vita che ritorna. È una scena limite, bella da riguardare, tratta da un film mal riuscito, ma tanto basta a ricordarci, nell'intreccio fra immagine filmica e musica jazz, la cruda contraddizione di chi, rinnegata la propria origine negra per il perduto amore di una donna bianca, non può fare a meno di gioire al ritmo della musica afroamericana, abbracciando un uomo scampato al cancro. 

I romanzi di Roth sono pieni di malattie, e Pastorale americana non è da meno. Il romanzo si apre con l'incontro di due uomini malati alla prostata, Nathan Zuckerman che sopravvive, Seymour Levov che muore qualche tempo dopo. La malattia attraversa il romanzo sotto forma di balbuzie della figlia di Seymour (AP, p. 90), di depressione di sua moglie Dawn (p. 177), di attacco cardiaco al padre di lei (p. 389) e via dicendo, fino all'evocazione dell'epidemia di vaiolo del 1777 (p. 303). Attraverso queste malattie Roth fa terra bruciata intorno all'individuo, nella misura i cui la vita non è solo pensiero e narrazione: di là dall'immaginazione dell'uomo c'è qualcosa di carnale che va per conto proprio, e che non può essere condiviso con un'altra persona. Pensa Seymour:

Yes, alone we are, deeply alone, and always, in store of us, a layer of loneliness even deeper. There is nothing we can do to dispose of that. No, loneliness shouldn't surprise us, as astonishing to experience as it may be. You can try turning yourself inside out, but all you are then is inside out and lonely instead of inside in and lonely. (225-226)
Sì, siamo soli, profondamente soli, e in serbo per noi, sempre, c’è uno strato di solitudine ancora più profondo. Non c’è nulla che possiamo fare per liberarcene. No, la solitudine non dovrebbe stupirci, per sorprendente che possa essere farne l’esperienza. Puoi cercare di tirar fuori tutto quello che hai dentro, ma allora non sarai altro che questo: vuoto e solo anziché pieno e solo.

Al tempo stesso il ventre molle della malattia evoca il destino individuale, oltre a denunciare disagi sociali, come nel caso della depressione di Dawn e di balbuzie, bulimia e anoressia ideative e ideologiche di Merry (pp. 243-244).

12 ottobre 2017

«"Ulisse" polifonico. L'irriducibile dialogismo di James Joyce» di Nicola d'Ugo




Ulisse. James Joyce. Già pronunciare i due nomi mette paura! Ma poi diventa motivo di orgoglio. Un'opera letteraria cosí importante, cosí complessa… Complessa, sí: difficile da seguire forse non proprio. Difficile piuttosto da ultimarne la lettura. Ma a lettura finita... Non si ricomincia da capo: ciò che conclude illumina l'inizio, ci dice che Stephen Dedalus, giunto a pochi passi da Molly proprio a casa sua in Eccles Street, rinuncia ad incontrarla. Mentre forse era tutto lí quel che cercava: la poesia, il senso della vita, l'ombelico del mondo, il tempio d'Apollo a Delfi.

Strana poesia però, cosí sensuale, cosí carnale che, trattandosi di Molly, «[y]our head it simply swirls», «la testa te la fa proprio girar» (U 4.438), direbbe Bloom. Sí, ti fa proprio girar la testa: piú dionisiaca che apollinea, non fosse per quella casa che la ospita, punto fermo del lungo inconcludente andare a zonzo di Leopold. O forse non è cosí, sono solo impressioni che vengono a galla a me lettore, come nell'inizio di «Sirene»: frasi smozzicate, zampilli della memoria, rigurgiti della frase. I «frammenti […] puntellati contro le mie rovine» di T. S. Eliot, le «inutili macerie del tuo abisso» montaliane, le «cascatelle trattenute da un dito» di Zanzotto.

Che poi non è la stessa cosa. Parlare di correlativi oggettivi è troppo facile. È una nozione estetica, non una poetica e ancor meno un linguaggio. Se Montale lavora sull'esperienza individuale, Zanzotto fa giochi con gli oggetti, evocando scenari impraticabili ma suggestivi. Ed Eliot? Lui lavora con le voci, gli stili, le brusche interruzioni: almeno ne La terra desolata (1922). Testimonia di un soggetto frantumato: né soggetto sconsolato, né oggetto pervasivo.

Voci, stili, brusche interruzioni… sembra di essere nell'Ulisse. Ma l'Ulisse ha un sostrato comune, una storia che fa da sfondo, un filo continuo che porta da un luogo a un altro i personaggi. Di interruzioni ce ne son molte, ma i personaggi non si sognano di apparire dal nulla, di essere in due posti diversi allo stesso momento, di saltellare in avventure di tre secoli, salve le stramberie di «Circe», che sono tutto un altro paio di maniche. I personaggi stanno buoni buoni al posto loro: chi nella Torre, chi nell'Ormond Bar, chi a portare a spasso i bambini sulla spiaggia. La giornata è solo una, il 16 giugno 1904. Il luogo è Dublino e non un altro. Terra desolata? No, qui c'è un romanzo bell'e buono, fatto di fabula ed intreccio classici.

Quello che colpisce qualsiasi lettore di Ulisse sono tre caratteristiche: il velo d'oscurità che avvolge le situazioni, l'erudizione dell'autore e il cambiamento di stile in cui sono scritti gli episodi. Se c'è qualcosa che rende familiare un testo, nel prosieguo di una lettura lunga come l'Ulisse, è la chiave interpretativa. Incontrato uno stile, per quanto arduo sia, la buona volontà di chi legge può pacificarsi almeno in questo: di questo libro apprezzo il suono o le immagini o qualche idea sul mondo. Paul Valéry avrebbe seguito la serie: se il testo suona bene allora le immagini, se queste funzionano cerchiamone un senso. 

20 novembre 2012

«Introduzione alla polifonia di Michail Bachtin» di Nicola D'Ugo


Copertina della terza edizione russa
del Dostoevskij di Michail Bachtin.









Il concetto di polifonia (polifonija) è stato sviluppato da Bachtin in modo più compiuto nel suo studio su Fëdor Dostoevskij: Problemy poètiki Dostoevskogo (‘Le problematiche della poetica di Dostoevskij’), uscito nel 1963 quale edizione notevolmente ampliata del suo precedente studio del 1929 Problemy tvorčestva Dostoevskogo (‘Le problematiche dell’opera di Dostoevskij’), arricchito quindi di ulteriori riflessioni maturate da Bachtin a seguito del dibattito sovietico tra il 1929 e il 1963, tenendo conto in particolare degli interventi di Viktor Šklovskij, Leonid Grossman, Valerij Kirpotin e Anatolij Lunačarskij.

L’edizione italiana reca un titolo diverso, e fors’anche fuorviante rispetto al contributo metodologico e all’intento bachtiniano: Dostoevskij. Poetica e stilistica (Einaudi, Torino 1968). Di là dalla presentazione ed analisi delle opere del romanziere russo (dalla sua poetica e stilistica), il libro si propone, da un lato, di esaminare le forme strutturali del romanzo originate dal linguaggio e, dall’altro, di esporre lo sviluppo storico del romanzo dai suoi albori greci dei dialoghi platonici e delle menippee per giungere, attraverso il fondersi dei due filoni, al suo culmine con la polifonia dei quattro romanzi maggiori dell’autore russo (Delitto e castigo; L’idiota; I demoni; I fratelli Karamazov). Con una tale impostazione, che nasce appunto dai ‘problemi’ che pone l’opera narrativa di Dostoevskij, Bachtin prende spunto per raccontare come siano fatti i romanzi e confrontare le modalità e gli orientamenti semantici di alcuni di essi con quelli dostoevskiani. In questo senso, il suo libro è un punto di riferimento di notevole importanza per chi voglia avventurarsi a comprendere i problemi che pongono romanzi altri rispetto a quelli di cui ha scritto Bachtin.

Per spiegare cosa intenda per polifonia, Bachtin ricorre al concetto di dialogicità. Nel romanzo polifonico c’è quello che egli chiama «grande dialogo» (bol’šoj dialog). La novità di Dostoevskij sta nell’aver fatto del romanzo una struttura tutta dialogica, in cui i personaggi dialogano con altri personaggi, i diversi episodi dialogano con altri episodi e le idee raffigurate nel romanzo dialogano con le idee fuori del romanzo. La dominante del romanzo polifonico è l’interazione, su uno stesso piano semantico, delle raffigurazioni delle idee della propria epoca espresse dai personaggi. Per realizzare il «grande dialogo» che dà luogo al romanzo polifonico è necessaria la più totale eliminazione dell’intenzione dell’autore in quanto autore, il quale non può indirizzare in alcun modo l’orizzonte semantico dell’opera letteraria. Scrive Bachtin in Dostoevskij:

Il romanzo polifonico è tutto dialogico. Fra tutti gli elementi della struttura del romanzo sussistono rapporti dialogici. (p. 58)

Per comprendere questo principio occorre riallacciarsi al meccanismo della parola bivoca nella teoria bachtiniana, che costituisce lo sfondo discrezionale di dialogità e polifonia.

La questione è posta da Bachtin nei termini di una risoluzione del problema della raffigurazione della realtà e dell’immaginazione: egli ridimensiona ma non sottovaluta gli importantissimi risultati dello strutturalismo e del formalismo, utilizzandoli piuttosto per dar conto dell’effettivo meccanismo linguistico dei parlanti e delle sue conseguenze diacroniche nello sviluppo delle lingue e dei generi letterari.

Superando il nesso con il reale (in Russia per problemi anche politici) e con l’immaginario, che hanno costituito i due poli su cui si era imperniato il pensiero moderno (dal razionalismo cartesiano all’empirismo, da Leibniz a Kant, a Hegel), lo strutturalismo ha aperto la via a un terzo ordine, che ha pretesa di avocare a sé sia le aspirazioni della realtà che quelle dell’immaginazione. Questa concezione è stata espressa con chiarezza, dieci anni dopo Dostoevskij, dal filosofo francese Gilles Deleuze nell’articolo «À quoi reconnaît-on le structuralisme?» (pubblicato per la prima volta in Histoire de la philosophie, Idées, Doctrines. Tome 8: Le XXe siècle, Hachette, Paris 1973, pp. 299-335, a cura di François Châtelet). Ne cito un passo dalla traduzione italiana (Gilles Deleuze, Lo strutturalismo, SE, Milano 2004):

[I]l primo criterio dello strutturalismo è la scoperta e il riconoscimento di un terzo regno: quello del simbolico. Il rifiuto di confondere il simbolico con l’immaginario, come con il reale, costituisce la prima dimensione dello strutturalismo. (pp. 13-14)