Martedì 13 aprile, alle ore 13,00, si è svolto un incontro con Vincenzo Cerami nell’Aula I della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università «Tor Vergata». Alla presenza di circa 150 persone fra studenti e docenti, in un contesto sobrio e familiare, Cerami ha esposto alcuni motivi della scrittura creativa, a partire dai momenti che anticipano la comunicazione, come il trasdurre «in parole segni particolari determinati dalla memoria, sensazioni ecc.». Quando si vuole raccontare occorre portare i segni rapidi del pensiero in un nuovo codice, con «parole più acconce», come «un ordinatore, un computer», attraverso un «processo di pensiero in ralenti». In questo senso, bisogna «mentire per dire la verità», giacché il nostro pensiero non è fatto di frasi e parole ordinate secondo la lingua, ma di quei segni personali che ognuno di noi va costruendo nella propria mente, depositati, rielaborati e attinti dalla memoria. La lingua, da questo punto di vista, non è che una «prigione», nella quale lo scrittore (ma anche chi non lo è) si trova inevitabilmente costretto.
Tornando indietro negli anni, Cerami ha raccontato di quando, dopo un anno di cecità dovuta alla difterite, si trovò quale insegnante di lettere delle medie un professore «sdrucito» come lui e i suoi compagni, che li faceva giocare a pallone, molto scherzoso e sorridente: Pier Paolo Pasolini. A Ciampino, in quella scuola media di via Pignatelli, l’autore di Un borghese piccolo piccolo e Fattacci, e coautore con Roberto Benigni di sceneggiature come Il piccolo diavolo e La vita è bella, fece il suo primo incontro con la poesia. L’insegnante, senza dubbio eccezionale, se da un lato era familiare ai bambini nel contesto scolastico, dall’altro evocava nella loro mente una grandezza del tutto particolare, dato che potevano ascoltarlo leggere poesia non solo in classe, ma alla radio. Durante questo periodo Cerami comprese che il desiderio di mettersi in mostra fra i suoi coetanei e agli occhi del giovane professore poteva trovare soddisfazione nella scrittura, che gli permetteva di uscire da una sorta di isolamento interiore di cui sono spesso preda i bambini. Dovendo affrontare temi scolastici quali «L’indigestione» e «Le vacanze», il bambino, che mangiava quel poco che riusciva a trovare in tavola e che le vacanze le aveva vissute sì e no una sola volta con una gamba rotta guardando le montagne da un vetro d’ospedale, doveva per forza di cose ricorrere all’immaginazione, quasi arrampicandosi sugli specchi. Capiva che le sue storie non erano credibili, e che il professore lo avrebbe subito smascherato. Si mise allora all’opera, cercando di renderle più verosimili possibile. Questo si tradusse in una operazione che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita di scrittore: l’inveramento.