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23 marzo 2016

«Sulla recensione dei libri» di Nicola d’Ugo

V'è troppa fretta di recensire un libro appena uscito. Un libro serio non andrebbe mai recensito subito se non da persone che ne conoscano a fondo le tematiche, per via di precedenti meditazioni proprie. Questa smania di recensire un libro appena uscito o nei primissimi mesi dall'uscita costituisce un metodo fondamentalmente sbagliato, una concezione affatto distorta e povera della letteratura. La letteratura è un territorio di riflessione nel sociale tra esseri umani che scrivono, leggono e discutono. La smania della recensione è il frutto di una necessità meramente commerciale e pubblicitaria per cui un testo va consumato il prima possibile, ossia blaterato, acquistato e mandato al macero il più tardi possibile in tempi stretti per passare al tascabile e alla sua funzione anch'essa commerciale. Perché qualcosa sia commerciale essa deve essere ammiccata, stuzzichevole, perché l'usa e getta del suo uso proprio, ossia il beneficio pecuniario, impingui quanto possibile i bilanci, vengano pagati i salari, rinvestito il denaro o dirottato ad altri usi estranei all'editoria. Se in ciò consistesse la letteratura, probabilmente non me ne sarei mai occupato o me ne sarei allontanato presto.

Questi aspetti di mercato non rientrano per nulla nelle preoccupazioni della letteratura. La letteratura si occupa di questioni fondamentali per l'uomo, sulle quali un autore offre una prospettiva argomentativa complessa che faccia da espressione e critica della vita umana. Data la vastità delle tematiche fondamentali per l'uomo, dalle relazioni interpersonali alle percezioni del mondo interiore e ambientale, alla politica, alla tecnologia, alla natura di cui facciamo parte, alle figure metafisiche e alle incarnazioni celesti fino al traffico delle armi, degli esseri umani, agli uteri in affitto, alla tratta delle donne, alla soppressione dei malati e dei neonati e via dicendo, viene da sé che recensire un testo letterario richieda non minore meditazione sul tema di quello che vi ha posto un autore. Viene da sé che la smania del recensire rapido non abbia ragion d'essere seria, tranne i rari casi di recensori che abbiano lungamente affrontato per proprio conto i temi trattati in un libro.

Lo scorso anno ho espresso il mio desiderio di recensire Sottomissione di Houellebecq, cui è seguito il mio fallimento dell'immediata iniziativa. Non che non conosca per decenni di studi molti dei temi affrontati da Houellebecq in quel romanzo, ma mi sfuggivano, e ancora mi sfuggono, molte delle sfaccettature e alcuni temi del mondo islamico cui fa riferimento, per cui una rapida recensione avrebbe significato offrire al lettore impressioni, parziali letture di questo o quell'aspetto del romanzo, osservazioni stilistiche e altre questioni che non avrebbero fatto un buon servizio culturale, e dunque sociale, alle riflessioni di Houellebecq, ai lettori della mia recensione, né a me come autore della stessa. Fare letteratura significa entrare in un dibattito molto sottile che offra un contributo gnoseologico, ossia di conoscenze, agli altri. Le recensioni in fretta e furia dirette ad un testo letterario lo sviliscono e distorcono, lo banalizzano, banalizzano il grado di riflessione che esso merita ed il grado di riflessione collettiva sugli argomenti trattati. In altri termini, tradiscono l'essenza stessa della letteratura come una delle attività più longeve dell'umanità e la punta di diamante del pensiero e delle sue ricadute sociali in ciascuna congiuntura epocale.

Come chiunque può notare da sé con un minimo di studi delle vicende umane, tra i primi atti di una svolta politica v'è la soppressione di due entità: gli oppositori armati e gli scrittori, nonché la censura dei testi di epoche coeve e precedenti. Tale soppressione avviene con mezzi coercitivi attraverso forme di censura o di emarginazione di oppositori, autori e testi, oppure con la reclusione di tutti e tre o, in terza istanza, con la soppressione fisica di uomini e testi. Questo in quanto la letteratura non è una forma di intontimento delle masse, al quale pensa invece o un altro tipo di pubblicistica di regime oppure il discredito della letteratura e l'introduzione di forme di piacere quale la droga «soma» raffigurata da Huxley ne Il mondo nuovo, per cui ti fai, stai bene, sei produttivo, non sconfini da una classe sociale all'altra, copuli alla grande e, soprattutto, non ti vengono idee strane come quelle di pensare e aver dubbi sulle cose. Il che funzionerebbe anche bene, se non fosse che la natura è molto complessa e tutt’oggi imperscrutabile, per cui se non pensi e non dubiti il genere umano va incontro all'estinzione prodotta da qualsiasi nuovo fenomeno naturale, e dunque anche psichico, che tu abbia dato per scontato: dall'avvento di una nuova forma virale ad una minaccia cosmica, all'insorgere di reazioni psichiche non previste nella popolazione, all'improvvisa inefficacia della «soma» stessa o della sua improvvisa impossibilità di esser prodotta o sostituita da altra droga consimile.

2 giugno 2014

«Crisi editoriale e crisi letteraria», di Nicola d'Ugo







Credo che il problema della crisi editoriale di cui si parla non sia tanto individuabile nei libri in quanto tali, ma nel crollo del romanzo come modalità espressiva, il quale ha perlopiù smesso di parlare di temi seri, ossia militanti e ideologicamente forti, qual esso era per i grandi narratori dell’Ottocento (Stendhal, Byron, Balzac, Puškin, Hugo, Dickens, Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj, Zola, France, d’Annunzio, ecc. ecc.). Oggi il suo ruolo lo hanno preso la televisione e il cinema, senza colpo ferire. Ma tranne Zamjatin, Tanizaki, Platonov, Orwell, Sartre, Moravia, Camus, Solženicyn, Pasolini, García Márquez, Ōe, Smiley, Murakami e altri che hanno continuato a pensare il romanzo e la saggistica con finalità militanti ottocentesche pur in nuova e originale veste, gli scrittori si sono perlopiù adagiati a fare contratti coi grossi gruppi editoriali, perdendo la propria autonomia necessaria e fondamentale e utile per affiancarsi ai soli autori impegnati umanamente. Il che gli si è rivoltato contro in termini di pubblicità, per cui ogni cosa che essi scrivono, anche seria e impegnata, finisce per esser pubblicizzata come forma di intrattenimento.

Questo andamento editoriale antistorico, che fa della letteratura intrattenimento e dell’intrattenimento letteratura, come tutte le forzature mercantili non funziona più. Gli uomini amano quella forma espressiva che si chiama letteratura, da che mondo è mondo, e per gli intrattenimenti cambiano ad libitum prendendo questo e quello a seconda delle proposte che gli si parano davanti.

L’era digitale e del print on demand sta mettendo a dura prova meccanismi editoriali come il nostro, che non ha neppure un secolo di vita, nel senso che i tantissimi editori di cui in pochi si sono comprati i marchi avevano una logica editoriale indipendente e non volta al profitto ab origine. Sta agli autori assumersi le proprie responsabilità, come facevano i romanzieri dell’Ottocento, e scegliere e imporre i mezzi più adatti alla circolazione delle proprie opere, anziché accettare ciecamente quelli che gli vengono proposti dai portatori di marchi e, forse, di profitti economici.

Sono contento che in America abbiano compreso questo problema, e che stiano assegnando sempre più i Premi Pulitzer, negli ultimi anni, a opere di editori indipendenti e di editori non a scopo di lucro, spesso facendo conoscere autori per nulla pubblicizzati dal sistema editoriale made in USA, ma, a giudizio della Fondazione Pulitzer, più importanti di quelli famosi. È una delle poche funzioni che ancora rivestono i premi letterari, il pubblicizzare i meritevoli trascurati. Per il resto, l’invenzione dei premi non è mai servita a nulla che a far cassetta e propaganda.

Ovviamente, chi vince il Pulitzer diventa famoso dal giorno alla notte. La struttura del Pulitzer e il testamento del suo fondadore hanno l’orgoglio di basarsi ben poco sulle interferenze esterne e sul denaro, e di attenersi a principi fortemente imbevuti di un’America che non c’è più nelle sue istituzioni nazionali, ossia quell’America libertaria tesa a difendere i diritti civili in modo progressista, e che ha avuto purtroppo a che fare, nell’ultimo mezzo secoli, coi falchi liberticidi o cogli assassini planetari che vanno da Truman a Obama con colpo ferire e ferite profondissime da portare.

Il secondo più importante premio di narrativa americano, il National Book Award, ha ammesso da alcuni anni la partecipazione anche delle opere pubblicate in ebook, in modo da rendere più visibili le edizioni indipendenti, valutarle ed eventualmente premiarle al posto di quelle che escono in cartaceo. Questo per rilanciare la letteratura a fronte di un incremento epocale della gamma di formati e materiali fisici in cui essa viene pubblicata.



10 luglio 2012

«L’editoria non è la letteratura» di Nicola D'Ugo


Literature by James Koehnline (2007)
In un articolo intitolato «Non tutto è perduto» uscito sul suo blog lo scorso 13 maggio, Roberto Cotroneo, riferendosi al calo di vendite annunciato al Salone del Libro di Torino, lamenta «dati poco incoraggianti». E, prosegue: «In Italia c’è stato quasi un crollo del mercato editoriale, e la cosa ancora più preoccupante è che stanno diminuendo i lettori forti, ovvero coloro che leggono più di 12 libri all’anno.»

Condivido il senso dell'articolo, e lo apprezzo molto, tranne per alcuni passaggi dai quali prendo qui spunto. Non condivido affatto l'affermazione secondo la quale i «lettori sono di gran lunga migliori degli editori, degli scrittori, dei librai e dei critici», anche se intuisco l'amarezza che ne ha dettato la falciante enunciazione e l'iperbole provocatoria: se lo fossero troverebbero da sé le vie che menano ai libri di qualità.