12 ottobre 2023

«"Prefazione" (da ‘Alla curva della vita’ di Doriano Fasoli)» di Luciano Albanese



Risulta dalle testimonianze che gli Stoici antichi, soprattutto Crisippo, avevano analizzato a fondo alcuni classici paradossi, in particolare quello del sorite (il mucchio)Quando uno diventa calvo? Quando cade il primo capello o quando cadono tutti? Analogamente potremmo chiederci – e molti in effetti se lo sono già chiesto – quando si comincia a morire, appena nasci o quando finisci di vivere? Montaigne, ricorda Fasoli, diceva che la morte è solo il momento in cui il morire ha termine. Ma, già, agli albori del pensiero occidentale, Aristotele, nel Protrettico, fr. 10 b Ross, diceva che, come i pirati tirreni (gli Etruschi) legavano i vivi ai morti (la tortura inflitta da Mezenzio ai prigionieri nell’Eneide virgiliana), così la nostra anima è legata a un corpo in perpetuo disfacimento fin dall’inizio (un tema, questo, ripreso in lungo e in largo dalla letteratura manichea).

 

Ognuno di noi avverte la costanza del disfacimento del nostro corpo, ma l’istinto di sopravvivenza è forte, e siamo riluttanti ad ammetterlo. Perduti nel gorgo delle incombenze quotidiane, abbiamo inventato, come scrive Heidegger, un «essere per la morte medio e quotidiano» all’interno del mondo del «si dice». In questo mondo «si muore» allo stesso modo in cui si commentano gli ultimi, lontani avvenimenti seduti al caffè. «Si muore» significa che un si anonimo muore. Muore sempre qualcun altro, quindi è come se non morisse nessuno, perché il Si è nessuno.

 

Non è questa la strada imboccata da Fasoli nel suo ultimo, breve, ma densissimo lavoro. Fasoli sembra voler passare attraverso la morte, quella vera, per poi venircela a raccontare. La curva della vita di cui si parla qui non è quella dell’epistrophè plotiniana, in cui l’anima, staccata dal corpo, ritorna alla sua vera patria, quella celeste. No, qui parliamo di una curva senza ritorno, in cui il singolo, nato dalla polvere, polvere ridiventa. E gli ultimi tratti di questa curva sono i più dolorosi, perché mentre percepiamo malinconicamente di essere diventati un corpo che non risponde più ai nostri comandi, assistiamo impotenti alla morte di amici e parenti meno fortunati – ma è poi una fortuna continuare a vivere così? – che hanno lasciato questo mondo. Percorrendo questa curva, scrive Fasoli, ci ritroviamo a sfogliare i morti, ad uno ad uno. Ma non ci arrendiamo alla loro scomparsa, preludio alla nostra, e continuiamo ansiosamente a pianificare il futuro, illudendoci ancora, forse, che l’avvenire teorizzato dalla Sinistra hegeliana – la Filosofia dell’avvenire di Feuerbach, ecc. – sia qualcosa in grado di sconfiggere il vero avvenire a cui siamo destinati fin dalla nascita, quello della morte.

13 maggio 2023

«Luciano Albanese legge di Doriano Fasoli» di Luciano Albanese

 

Doriano Fasoli. Foto di Roberto Canò. Roma 2019.


Il nuovo libro di Doriano FasoliFinestre sulla memoria (Alpes, Roma 2022, pp. XII-157), è in parte, come il precedente Derive, costellato dal ricordo di molte esperienze personali, in cui l’ispirazione poetica – poesie in prosa anche queste – avvolge il lettore, specie quello coetaneo dell’autore – in una nube di malinconica nostalgia per un tempo irrimediabilmente perduto. A questo ordine tematico appartengono, ad esempio, i ritratti di Giovanni Macchia ed Enrico Guaraldo, l’addio a Gianni Celati, i «Frammenti di un dialogo amoroso», i ricordi del Filmstudio a Via degli Orti d’Alibert, dove andavamo tutti alla fine degli anni ’60 (nessuno dimenticherà mai il grido «americani a casa!» – uno degli slogan del Movimento studentesco – lanciato dal fondo della sala da Massimiliano Fuksas, durante la proiezione di Lonesome Cowboys di Andy Warhol, alla vista dell’ennesima fellatio), Jeanne, o la contadina del Caso fortuito. E ancora, il lirismo di Sempre più solo e vintoGiornata di soleBreve nota sull’imbecillitàDue donne, e di quasi tutta l’intera sezione «Impressioni di orizzonti», di cui segnalo, in particolare, Parigio cara (pochi soldi, i libri trafugati e nascosti nel giubbotto, e la lunga sfilata di mostri sacri, Henry Miller e Céline in testa, che aveva vissuto nella mitica Parigi dell’immaginario europeo) e Al mattino, in cui sembra riecheggiare il finale del monologo di Molly nell’Ulisse di Joyce.

 

Ma, oltre a questo, dal libro emerge un tema cruciale per tutta la modernità: che cosa succede quando il sapere fallisce completamente i suoi scopi, e diventa solo erudizione? «Ho studiato filosofia, – diceva il Faust di Goethe in apertura della sua tragedia – medicina, teologia, da cima a fondo, e con tenace ardore, e mi ritrovo a saperne quanto sapevo prima. Anzi, ho finito per accorgermi che non ci è dato di sapere nulla di nulla». Lo scetticismo di Fasoli sul valore conoscitivo della cultura filosofica e scientifica prese nel loro insieme è abbastanza simile a quello di Faust, e questo si avverte già dalle prime pagine del libro, «La valle dell’ombra» e «Essere o non essere» (il famoso dilemma di Amleto), in cui svaniscono tre pietre angolari della nostra esistenza, Io, Dio e l’Essere. Doriano è un uomo di ampie letture, perché è un individuo curioso, nel senso più nobile del termine, e la sua conoscenza della cultura sia antica che moderna è molto vasta. Cominciando dal cogito ergo sum di Cartesio, le pagine di Finestre sulla memoria offrono al lettore una galleria di temi e di personaggi che non ha nulla da invidiare a quanto possiamo apprendere da una enciclopedia del sapere. Bertrand Russell, Heidegger guardiano dell’Essere, il topo di Schrödinger, la lettura manichea della vagina, il suicidio di van Gogh, Carmelo Bene e Artaud, Foucault in California nella Valle della Morte, col Marchese de Sade ideale compagno, le Baccanti di Euripide, il Concilio di Nicea, Gadda e Roscellino – sintomatico questo accoppiamento –, la difficoltà di scrivere usando parole che non ci appartengono, perché hanno già una loro storia (ancora Foucault), le oscure radici del sacrificio – tema comune, per motivi diversi, al Burkert di Homo necans e a Bataille –, Libertà e Necessità, Alice attraverso lo specchio letta da Lacan,  il mistero del corpo, della sua nascita e della sua morte, e quindi la sua costante esposizione al pericolo, la Rivoluzione scientifica che ci ha tragicamente “spiazzati” (il tema centrale di John Donne e del Controrinascimento), le tragedie di Euripide, etica e scienza, Aristotele e la babele delle lingue, sull’anima, le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, le mosche, esseri tutt’altro che irrazionali (grazie ad esse è stato scoperto il principio di reafferenza), il Libro e la tela di Penelope, post coitum tristitiam, lo Stige e Caronte, l’ottuso moralismo del “politicamente corretto”, Deleuze, Spinoza e la tirannia, il daimon, fisici e filosofi, elogio dei sensi, la vecchiaia e il suo mistero, ultimo capitolo del più grande mistero di vivere. 

«L’oggetto d’amore in Pierre Bonnard» di Nicola D’Ugo


Pierre Bonnard. Nudo davanti a uno specchio. 1931.


Pierre Bonnard è stato uno dei maggiori pittori fra l’Otto e Novecento. Quello che vorrei raccontare in queste poche righe è il meccanismo con cui, nella sua pittura, rappresenta l’oggetto d’amore. I suoi dipinti memorabili, di quelli di cui, se ce ne s’innamora, è poi difficile che l’amore vada perduto con il tempo, sono talmente intrisi di luce che non si sa bene se sia la luce esterna al dipinto a illuminare la scena o quella interna. Dato che, se guardiamo un dipinto al buio, non vediamo che il buio, viene da sé che è la luce esterna, ossia quella in cui è collocato il dipinto, a illuminarne i colori. Eppure, guardando i suoi quadri, sembra che la luce venga dall’interno del quadro, da una finestra o altro; che, insomma, l’artista abbia riposto la luce nel dipinto come per magia. Tale effetto magico, nella storia dell’arte, si chiama impressionismo. Gli impressionisti dipingevano all’aria aperta e cercavano di cogliere gli effetti di luce come li percepivano, talvolta a sprazzi, e i colori che attraversano le loro tele sono talmente pervasi di luce da rendersi variegati e vividi come mai prima era apparso in pittura. Un libro che racconta la giornata tipo dell’impressionista Monet che si alzava la mattina presto per dipingere all’aria aperta si intitola Light (luce, appunto), un breve e intenso romanzo scritto da Eva Figes nel 1983 (non credo sia uscito in italiano).

 

Ma Bonnard non è un impressionista. La luce che diffondono i suoi quadri, anziché sorgere da esigenze di pura rappresentazione, è impiegata come una tecnica, come un elemento che serve una rappresentazione più intensa dell’uomo. L’intensità dell’impressionismo è, se vogliamo, esternamente musicale, rivolta a cogliere l’impressione della luce sull’occhio; quella di Bonnard è, come è stato già detto altrove, della pura memoria, ossia come elaborazione che la mente fa della luce e degli oggetti. Prendiamo un suo dipinto: Il nudo davanti a uno specchio (1931). Che cosa ci racconta Bonnard attraverso questo dipinto? L’oggetto d’amore, la sua donna colta dallo sguardo in un momento della sua esistenza, in un luogo intimo, in cui, cioè, non si preoccupa d’essere vista da occhi indiscreti. Se osserviamo il nudo della donna, ne cogliamo senz’altro la figura ben disegnata, dai calzari ai capelli. Ma se andiamo sul dettaglio, sulla schiena, per esempio, sui glutei o sul retro delle braccia, questa bella figura femminile perde qualsiasi compattezza della forma, può effettivamente essere una bella donna o una donna non proprio bella, e il suo viso è un profilo abbozzato di qualsiasi donna. Bonnard ha dipinto un nudo, ma non lo ha esposto. Avrebbe potuto indicarci dei dettagli, ma è riuscito a vestire una donna, a renderla solo una figura. Tutto quello che ci racconta è l’intimità di una donna in una stanza che si guarda allo specchio. Il resto della stanza c’è, ma è fuori scena: a destra, a sinistra della donna, dalla parte dell’osservatore. Nello specchio vengono riflessi vari oggetti, anzitutto un tavolinetto che vediamo due volte: nella stanza e nello specchio. Ma nello specchio non vediamo il viso della donna. La figura stessa, centrale nell’inquadratura del dipinto, non è centrale fra gli oggetti. Infatti le suppellettili sono riposte in un ordine piuttosto casuale. V’è addirittura una sedia dietro le gambe della donna che quasi la tocca. La sedia è rivolta verso di noi e non verso lei: non è lì perché sia impiegata dal personaggio.

27 marzo 2023

«Quattro prose da ‘Finestre sulla memoria. Dissolvenze e sovrapposizioni’» di Doriano Fasoli



 

È per un'opera come Finestre sulla memoria di Doriano Fasoli che un comune, anonimo lettore quale sono, avverte l'impulso di uscire dall'anonimato. Ogni lettera, ogni parola non sono nero segno alfabetico, sono indici di cose potenti che mi hanno fatto sentire una voce: la voce dell'essenzialità di ciò che più conta in noi e di noi fra gli altri. Le Finestre di Doriano Fasoli si aprono su squarci autobiografici e biografici (di Giovanni Macchia, di Celati), poi appaiono intermittenze filosofiche (Heidegger, Deleuze, Foucault ecc.), psicanalitiche (Freud, Lacan ecc.), antropologiche (Girard); riflessi letterari (Flaubert, Celati, Hölderlin, Rimbaud ecc.), cinematografici (Kurosawa, Scorsese), figurativi (van Gogh, Rembrandt), musicali (Rimskij-Korsakov, Coltrane) e quant'altro affondi nell'humus della Vita e della Morte, del Bene e del Male, del Divino, della Libertà, del Tempo, cioè i temi ineludibili della chiaroscurale esistenza umana (l'uomo «è punto d'incontro tra buio e luce», p. 20). Il tutto amalgamato in un periodare denso, per rimandi e balenii, talora consapevolmente sfuggenti, perché «ogni autore calamita solo lacerti, frammenti adatti alla propria calamita» (p. 57) e il linguaggio è un'alchimia che parla «pure come assenza, ma non è mai totalmente silenzioso» (p. 28). Forse, può chiedersi il lettore, devo allora cercare le «pietre rare delle parole nascoste»? (p. 7) Vale a dire il significato che si annida fra le viscere di ogni frase per sanare, o cercare di sanare, qualche dubbio che mi tormenta? Sbaglierebbe. Per citare Seferis, le parole mantengono la forma dell'uomo, nel quale «senso e non senso sono inseparabili», e perciò si deve dubitare di «ogni conclusione convinta di comunicare il vero». Se è vero, come credo lo sia, che «è di risposte che muore l'uomo» (p. 107), non resta che il dialogo sincero e orizzontale con le domande di senso. Insomma, il lettore farà «d'ogni riga profitto» (p. 57) se ascolta la sinfonia delle domande a strapiombo sull'essere umano composta dall'autore, se entra e permane nello spazio dell'interrogativo e si arrende a esso nella speranza di accendere «luci nella valle dell'ombra» (p. 3). Non si autoassolva e non cerchi consolazioni. Non nella Storia, che «nulla insegna, non tanto perché demente quanto perché eminenti cretini sono stati suoi scolari» (p. 43), non nella scrittura perché non arriverà mai a una conclusione, non nella memoria, dal cui affresco cadono «larghi pezzi e le lacune ti provocano con la loro cecità». Doriano Fasoli ha regalato al lettore un libro antidoto e un libro telescopico: l'antidoto contro il consumo bulimico delle semplificazioni e telescopico nel senso della similitudine di Francesco Algarotti. Parafrasandolo, direbbe che quest'opera nel tempo sarà come un telescopio nello spazio: «così l'uno come l'altro avvicinano gli oggetti lontani» (dalla lettera «Al padre Giambattista Roberti, della Compagnìa di Gesù, a Barbiano. Sopra le comparazioni.»)

 

Marco Quarin

 

(Marzo 2023)

 

24 febbraio 2023

«Tutto su Anna. Conversazione con Patrizia Carrano» di Doriano Fasoli

 

 

A cinquant'anni dalla morte esce, in una edizione ampliata e aggiornata, una biografia intitolata Tutto su Anna. La spettacolare vita della Magnani, edita da Vallecchi e firmata da Patrizia Carrano. Un volume di 400 pagine con una copertina che sottrae la nostra attrice al cliché di grande tragica con cui spesso la si ricorda: a guardare la fotografia che campeggia sul titolo sembra di sentire la risata dirompente di quel personaggio inconfondibile, «donna di cappa e di spada», come la chiamava Totò. Un’interprete capace di traversare il teatro classico e il varietà, il Neorealismo e la commedia leggera, con un suo stile personalissimo, nella vita come nella recitazione. Scapigliata quando le altre portavano acconciature leccate, non bella in un periodo di femminilità leziose, disobbediente e ribelle per temperamento, Anna Magnani è stata paradossalmente più dimenticata negli ultimi anni della sua vita che non oggi. Ne abbiamo parlato con l'autrice della biografia, Patrizia Carrano.

 

Doriano Fasoli: È possibile definire la Magnani in una frase?

 

Patrizia Carrano: Direi anche in una sola parola: contradditoria. Anna è stata antidiva ma primadonna. Bella ma anche brutta. Indipendente ma sottomessa. Coraggiosa ma paurosa. Drammatica ma ironica. Attrice classica ma dialettale. Principesca ma plebea. Moderna ma antichissima. E potrei continuare ancora.

 

A cinquant'anni dalla sua scomparsa che bilancio si può fare della sua presenza nel cinema?

 

Diciamo che la sua celeberrima corsa dietro il camion dei nazisti di Roma città aperta (1945) è divenuta il simbolo stesso del Neorealismo. L'icona del nuovo cinema del dopoguerra. Un cinema che è stato amato da Martin Scorzese, che si è imposto nel mondo per la sua forza dirompente, per ‘urlo delle cose’ che finalmente raccontava. La Magnani, con la sua recitazione moderna, scabra, aveva già attirato l'attenzione di Luchino Visconti che l'aveva scritturata per Ossessione (1943). Ma quando la lavorazione cominciò Anna era incinta di cinque mesi, e dovette rinunciare al ruolo che fu affidato a Clara Calamai. La Magnani apparteneva naturalmente alla temperie dei tempi nuovi. E difatti negli anni Cinquanta ebbe a disposizione dei personaggi indimenticabili, come l’omonima protagonista de L'onorevole Angelina (1947), oppure la carcerata di Nella città l'inferno (1959). La Magnani è stata l'interprete perfetta di un certo ribellismo femminile che affondava le sue radici nel rifiuto delle catene della tradizione, ma che non sapeva porsi traguardi che esulavano dal vitalismo dei propri sentimenti. Ad Anna si addiceva la protesta, si addiceva il disagio, il coraggio. Poteva essere Fedra, Medea, la Lupa di Verga, poteva essere un'amante delusa, una dolente madre mediterranea: tutti personaggi stretti e costretti nel ruolo che il mondo assegnava loro, tutte donne capaci di gesti assoluti, sanguinari. Questo non significa che sia datata. 

24 luglio 2022

«“Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci” di André Green. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Medico e psicoterapeuta, Valter Santilli è docente presso la Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana (S.I.I.P.E./Roma). Ha curato con Camillo Loriedo la pubblicazione del volume La relazione terapeutica (Franco Angeli, 2000). Le sue più recenti pubblicazioni sono: Il terapeuta in gioco. Tra arte, letteratura e psicoterapia(Carabba, 2013); con Antonello Carusi, Laing R.D., L’ombra del maestro (Alpes, 2015). Ha curato l’edizione italiana del libro di Gabrielle Rubin Il romanzo familiare di Freud (Alpes, 2018). Scrive periodicamente su questo blog, sul quale ha pubblicato «Le complesse oscurità dell’Edipo Re», un commento alla rappresentazione teatrale di Robert Wilson, 2018, e due brevi saggi su Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci di Sigmund Freud (Parte 1, 2019; Parte 2, 2020). 

 

Doriano FasoliÈ stata pubblicata dall’editore Alpes, nel maggio 2022, la traduzione italiana del libro di André Green Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci. Chiedo al curatore dell’edizione italiana, Valter Santilli, non solo di introdurci ai temi principali del libro, ma anche di parlarci della genesi di questo progetto editoriale.

 

Valter SantilliGrazie Doriano, rispondo volentieri alle tue sollecitazioni. Il libro di André Green Révélations de l’inachèvement. Léonard de Vinci era uno dei pochi libri del famoso psicoanalista francese non ancora pubblicati in italiano. La pubblicazione italiana arriva nel decennale della scomparsa di Green e vuole essere anche un omaggio a questo grande psicoanalista, autore prolifico di saggi che hanno esplorato non solo nuovi territori della ‘cura’ ma anche nuove aree del ‘sapere interdisciplinare’.

 

Il progetto di traduzione di questo libro, bello e misconosciuto, nasce grazie alla virtuosa sintonia che nel 2020 si è creata con Lorena Preta, che ha scritto una intensa e densa prefazione a questa edizione italiana del libro, e con Andrea Baldassarro, che stava progettando una nuova collana editoriale, chiamata «Sconfinamenti». Venni a saper di questo libro quando lessi il contributo di Lorena Preta nel libro curato da Baldassarro La passione del negativo,omaggio al pensiero di André Green, pubblicato da Franco Angeli nel 2018. Mi incuriosirono molto le citazioni di Lorena Preta da questo testo di Green. Con qualche difficoltà riuscii poi ad averne una copia e quando lo lessi mi catturò talmente che proposi sia a Baldassarro che a Preta la pubblicazione in italiano. 

19 maggio 2022

«Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio. Conversazione con Gabriele Pulli» di Doriano Fasoli



Gabriele Pulli insegna psicologia filosofica, psicologia generale e psicologia dell’arte e della letteratura all’Università di Salerno ed è autore di numerosi libri, tra i quali Freud e Severino (Moretti & Vitali, 2009)Severino e Matte Blanco (Moretti & Vitali, 2018; con la prefazione di Emanuele Severino) e L’inconscio e il tempo. Freud, Epicuro, Sartre, Leopardi (Liguori Editore, 2019; con la prefazione di Cesare Milanese). Da qualche giorno è uscito l’ultimo suo libro Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio, presso le edizioni Mimesis (pp. 147, euro 12). 

 

Doriano Fasoli: Le chiediamo innanzitutto quale sia il tema e quale la ragion d’essere di questo libro.

 

Gabriele Pulli: Il libro parte dalla distinzione fra un pensare relativamente originale, che pensa qualcosa di non ancora pensato, ma che sarebbe stato pensabile nelle forme del pensiero di cui già si disponeva, e un pensare assolutamente originale, che giunge a pensare qualcosa che sino ad allora sarebbe risultato impensabile; laddove pensare qualcosa che sino ad allora risultava impensabile significa acquisire qualcosa di quello che sino ad allora era stato l’inconscio del pensiero. Ora, l’àmbito di questo secondo genere del pensare, del pensiero che sposta in avanti i limiti del pensiero, rendendo pensabile ciò che prima risultava impensabile, è quello del pensiero filosofico, o almeno di un suo specifico modo di essere particolarmente ristretto ed elevato. Come si vede, in questa idea di filosofia, svolge un ruolo essenziale il concetto di inconscio. Si direbbe addirittura che un’opera filosofica sia tale un quanto faccia i conti con il concetto di inconscio; più precisamente: in quanto svelando qualcosa del modo di essere dell’inconscio sospinge più in avanti i limiti del pensiero. E dunque, rispondendo in sintesi alla sua domanda: il tema è soprattutto l’inconscio del pensiero, la sua ragion d’essere è spingere in avanti i limiti del pensiero, proporre qualcosa di non ancora pensato in quanto impensabile, cogliere qualcosa di non ancora colto dell’inconscio del pensiero.

 

Ma allora di cosa si tratta in particolare? 

 

Di qualcosa di compendiabile nella formula per la quale eternità e temporaneità si danno contemporaneamente e inscindibilmente e tale loro inscindibilità risulta al tempo stesso come un affermarsi con maggior forza dell’eternità. È una strana formula; d’altra parte se così non fosse, se non fosse strana, se non apparisse a prima vista assurda, non potrebbe corrispondere al tentativo di spingere in avanti i limiti del pensiero. Il libro racconta innanzitutto come si arrivi a tale formula e poi cosa possa significare, quale sia il suo senso, che appare poi corrispondere al senso del dolore del desiderio e infine, persino, come ciò che rende la vita vivibile. 

4 aprile 2022

«Soggetto e masse e il Teatro di Oklahoma. Conversazione con Sergio Benvenuto» di Doriano Fasoli



Sergio Benvenuto, ricercatore senior al CNR, psicoanalista e filosofo, è presidente dell’Istituto Elvio Fachinelli – Studi Avanzati in Psicoanalisi (ISAP). Ha fondato e diretto la prestigiosa rivista European Journal of Psychoanalysis, ed è co-redattore di altre importanti riviste in inglese, come American Imago e Philosophy World Democracy. Insegna psicoanalisi al Mižnarodnyj Instytut hlybynnoji psycholohiji (Istituto Internazionale di Psicologia del Profondodi Kiev. La conversazione si incentra sui due ultimi libri di Sergio Benvenuto, Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud e Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica di oggi, editi da Castelvecchi nel 2021.

 

Doriano Fasoli: Due tuoi libri escono a distanza di poco tempo con la stessa casa editrice, e affrontano temi del tutto simili: si ha l’impressione che tu abbia scritto un solo libro, ma pubblicato in due puntate.

 

Sergio Benvenuto: È proprio così. Il tema comune ai due libri è una teoria generale del politico, ovvero in che cosa consiste l’impegno politico. Non mi occupo quindi della società in generale, ma delle organizzazioni e concezioni politiche.

 

Il primo volume, Soggetto e masse, prende le mosse dal saggio di Freud Psicologia delle masse e analisi dell’io. Cerco di spiegarne il senso profondo, precisando che non si tratta – come credono molti – di una teoria della società in generale, ma di quelle che Freud chiama Massen, ovvero gruppi mossi da una passione in senso lato politica. Si va dalla folla improvvisata che si costituisce per un fine preciso – ad esempio, compiere un pogromcontro ebrei – fino a Massen molto strutturate come le chiese e gli eserciti. Che cosa c’è in comune tra tutti questi gruppi? Il fatto di organizzarsi attorno a una figura che Max Weber chiamò capo carismatico. Freud non si interessa a gruppi burocratici o funzionali, dove ci possono essere capi, ma non c’è la partecipazione calda, direi, dei partecipanti. Freud descrive insomma i gruppi politici in senso lato, che includono le militanze religiose e militari. E psicoanalitiche.

 

Ma già in questo primo volume allargo l’analisi del saggio di Freud affrontando temi molto vasti, per esempio il populismo, il fascismo, e altri tipi di configurazioni politiche. 

 

Nel secondo volume, Il teatro di Oklahoma, articolo una critica delle principali filosofie politiche oggi prevalenti, che corrispondono agli indirizzi politici che oggi dominano nel mondo industrializzato: il marxismo, il liberalismo, le politiche su base religiosa, il populismo, il nazionalismo o fascismo. 

28 febbraio 2022

«Cammina leggera. Conversazione con Maria Chiara Risoldi» di Doriano Fasoli




Maria Chiara Risoldi è nata a Bologna nel 1953. Ha fatto la giornalista dal 1977 al 1988, prima a La città futura, poi a Rinascita. Dal 1988 al 2020 ha svolto la libera professione come psicoterapeuta, facendo parte della Società Psicoanalitica Italiana, dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica Infantile, della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi e dell’Associazione EMDR Italia. Docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Bologna dal 2000 al 2009. Ha collaborato, dalla sua fondazione, con la Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna e ne è presidente dal 2016. Ha pubblicato con Manni nel 2003 Traumi di guerra. Un’esperienza psicoanalitica in Bosnia-Erzegovina e con Tombolini nel 2018 #MeToo. Il patriarcato dalle mimose all’hashtag.

 

Doriano Fasoli: Dottoressa Risoldi, quando è nata l’idea di questo romanzo Cammina leggera, pubblicato in questi giorni da Manni?

 

Maria Chiara Risoldi: L’ennesima volta che mi sono sentita rispondere: «No, non ne abbiamo mai parlato». Ho incontrato molte persone che durante il primo colloquio mi avevano raccontato di avere già fatto precedenti esperienze psicoanalitiche, concluse o interrotte per le più diverse ragioni. Sono sempre stata molto attiva, facevo domande, esprimevo le mie opinioni, spiegavo il mio punto di vista, non sono mai stata ligia alla regola del silenzio, se non, forse, un po’ durante il training. Stare in silenzio, parlare… Questioni complesse che sto semplificando molto. Se mi veniva un’idea, una curiosità non la tenevo per me. La proponevo al paziente. Questo modo di lavorare facilitava l’emergere di questioni importanti, di eventi cruciali dell’infanzia e accelerava il cammino. Anche questa è una questione complessa che sto semplificando.

 

Quello che mi ha fatto venire voglia di scrivere un libro è stato il dolore, la rabbia, la delusione delle persone che avevano fatto anni di analisi, anche dieci, perfino venti o più di una analisi e non avevano aperto quella porta, che loro non sapevano che ci fosse e che il loro psicoanalista si era astenuto, secondo la regola, di fargli vedere oppure che nemmeno lui aveva visto, accecato da una teoria che non contemplava l’esistenza di quella porta. Condividere con l’ennesima persona la sofferenza che comportava pensare di avere perso tempo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Avevo bisogno di scrivere.

10 gennaio 2022

«Vale la pena di tradurre un testo letterario?» di Luciano Albanese



Come si dice: traduttore traditore. Dopo il classico ‘naftalina’ per ‘mandarini cinesi’ nelle storie di Eta Beta di Gottfredson, mi è caduto l’occhio, si parva licet, su un passo della Ricerca del tempo perduto di Proust. Durante una delle conversazioni a tavola a casa dei Verdurin, in Un amore di Swann (dove purtroppo si capisce che il livello culturale delle stesse, quindi della classe dominante, non è più quello dei Saturnali di Macrobio o dei Deipnosofisti di Ateneo) Odette si lamenta del fatto che Swann sembra non ritenere degna né lei, né altri, di abbeverarsi alla sua cultura. In effetti Swann interviene raramente, e se ne sta quasi sempre aristocraticamente sulle sue. In ogni caso, il rimprovero di Odette offre l’occasione a uno dei commensali, che si distingue solo per le sue facezie, di cimentarsi in un gioco di parole. Swann cerca di difendersi, e cerca di dire che il rimprovero di Odette non ha giustificazioni. Odette risponde insofferente: « Cette blague ! ». Allora il: commensale, un dottore che pensa di essere divertente, si inserisce dicendo: « Blague à tabac ? ».

 

Il traduttore è messo davanti a una grossa difficoltà. ‘Blague’ in francese significa tanto ‘bugia’ quanto ‘tabacchiera’, e per un francese o per chiunque legga il francese il gioco di parole è forse discutibile, ma certamente comprensibile. Ma il povero traduttore italiano che deve fare? Oreste Del Buono se la cava abbastanza bene, e traduce:

 

«Che bugia!» disse Odette.

«Bugia da candele?», si informò il dottore.

 

‘Bugia’ in italiano è anche il piccolo candeliere che ancora accendono alcuni ristoranti sul tavolo di una intima cena a due. Il senso del gioco di parole è colto bene, ma resta il fatto che il testo originale rimarrebbe oscuro usando le sue stesse parole, quindi il lettore italiano ha di fronte sempre e comunque un testo diverso da quello francese.

 

Le cose vanno ancora peggio nella traduzione di Giovanni Raboni. Odette dice, rivolta a Swann: «E non mi prendete in giro!» E il dottore chiede: «Giro turistico?». Qui il testo francese è completamente stravolto, e sinceramente è difficile non provare un senso di fastidio davanti a questa soluzione (penso che almeno una nota che avvertisse il lettore dello scempio fatto all’originale sarebbe stata necessaria). Moltiplicate questo episodio per mille, e avrete un’idea, ancora approssimativa, della distanza che separa un testo letterario originale dalle sue traduzioni. In realtà tradurre un testo letterario è come ‘tradurre’ un monumento o un dipinto. In entrambi i casi, sono operazioni impossibili e prive di senso. Si fanno perché si pensa che la divulgazione di un’opera sia comunque utile. Ma non è quell’opera che si divulga, si divulga sempre qualcos’altro che o le somiglia poco o non le somiglia affatto.

 

Luciano Albanese

 

(Gennaio 2022)