Francesco Melzi (1493-1570), Ritratto di Leonardo da Vinci, gesso rosso, Royal Collection Trust |
Tempo fa lessi un libro di Thomas H. Ogden, Il leggere creativo. Sul retro di copertina della edizione italiana è scritto che nel volume sono stati raccolti i lavori che l’autorevole psicoanalista americano «ha dedicato all’esperienza del leggere creativamente».
Il libro è composto da una raccolta di saggi su «fondamentali lavori» di autori psicoanalitici di grande rilievo e tra essi è compreso, naturalmente, un lavoro fondamentale di Freud, «Lutto e melanconia».
Lo stile dello scritto di Ogden sull’esperienza del leggere creativamente è rigoroso, ed in parte richiama lo stile impegnato degli esercizi scolastici di parafrasi di testi letterari fondamentali. Quella di Ogden è un tipo di creativa parafrasi che illumina e arricchisce i testi che sono stati oggetto del suo appassionante studio, così come viene descritto nei dizionari: «Esposizione di un testo […] spesso accompagnata da sviluppi o chiarimenti».
Nell’introduzione del libro l’autore descrive la sua esperienza di lettura creativa che fa da fondamenta alla sua scrittura creativa: Thomas Ogden leggendo e scrivendo creativamente cerca di rimanere il più possibile fedele agli scritti dell’autore letto. Lo psicoanalista americano chiarisce che ha trattato lo stile di scrittura e il contenuto ideativo dei saggi di ciascun autore come «due qualità di una entità singola», ed esplicita che quel determinato saggio scritto da quell’autore, con lo stile particolare che lo contraddistingue, non si potrebbe scrivere diversamente perché «dire qualcosa diversamente è dire qualcosa di diverso».
A proposito di bravi scrittori e di buoni lettori un grande scrittore, nonché autorevole critico letterario, Vladimir Nabokov, in Lectures on Literature, pubblicate postume, scrive che «non si legge un libro, un libro lo si può solo rileggere. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore». Per marcare quindi l’esperienza intellettuale del «leggere», Nabokov specifica che «un libro di qualunque genere esso sia – opera narrativa oppure opera scientifica – interessa per prima cosa la mente».
Nella «Introduzione» al saggio di Freud «Lutto e malinconia», Ogden riporta una particolare frase del testo la cui lettura rende «impossibile separare le idee dalla scrittura».
Il commento che egli fa di questa frase particolare è che: «Lo scritto è denso – una grande quantità di pensiero è contenuta nell’atto stesso di scrivere poche parole». Mi pare che la stessa definizione, sebbene molto sintetica, possa applicarsi al testo di Freud su Leonardo da Vinci.
Ho usato il titolo del libro di un grande autore, Thomas H. Odgen, e alcune generali indicazioni che nel libro sono contenute, per sostenere la mia ‘esperienza di lettura’ di uno dei lavori più affascinanti e controversi di Sigmund Freud: Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci.
Mi sono accostato con reverenza a questo classico della letteratura freudiana, mentre mi accingevo alla lettura ho avvertito la necessità di mantenermi mentalmente ‘disimpegnato’ rinunciando a qualsivoglia mia aspettativa intellettuale. Sono riuscito così a sentirmi come un lettore ‘puro’, per non dire ingenuo: come potrebbe essere puro e ingenuo il lettore che piuttosto si renda disponibile ad accogliere l’emozione che potrebbe suscitare l’esperienza del divenire partecipe di una profonda intelligenza, quella che è stata abilmente catturata nelle pagine scritte da un grande scrittore.
Vorrei descrivermi come un lettore che – letteralmente – rilegge i libri che per prima cosa lo hanno impressionato. Ricordo che sono stati per me impressionanti alcuni ‘impegnativi’ libri letti negli anni della prima giovinezza, libri solo parzialmente compresi. Ad esempio, l’impressione che ebbi dalla mia lettura giovanile del Leonardo di Freud fu ‘perturbante’: allora mi sembrò un testo tanto misterioso quanto ora, al contrario, mi appare limpidamente teso alla soluzione dei misteri impersonati da Leonardo da Vinci. Mi aveva spinto alla lettura del Leonardo la curiosità di scoprire cosa potesse dire Sigmund Freud, il grande scienziato dell’anima, del ‘ricordo d’infanzia’ di un artista geniale e grande scienziato della natura. Nel corso della lettura del libro rimasi però man mano deluso perché non trovavo ciò che mi aspettavo: che il libro fosse ‘celebrativo’ di Leonardo da Vinci. Mi pareva inoltre che l’interpretazione psicoanalitica, che sessualizza il fantasioso ricordo d’infanzia di Leonardo, fosse forzata e dunque poco rispettosa dell’autorevolezza del personaggio. Penso ora che una mente troppo giovane e digiuna di psicoanalisi non possa sostenere i molteplici e complessi contenuti del libro di Freud, tantomeno apprezzarli.
Dopo quella mia prima, deludente, esperienza di lettura richiusi il misterioso ‘scrigno’ e per decenni non ho sentito la necessità di riaprirlo. Ho riletto il Leonardo di Freud solo di recente, dopo aver letto un affascinate libro di André Green, Révélations de l’inachèvement. Léonard de Vinci. Green, in questo suo originale libro, prende in esame una straordinaria opera d’arte di Leonardo, il cosiddetto Cartone di Londra, nella cui composizione sono raffigurati Sant’Anna, la Vergine, Gesù bambino e San Giovanni; opera alla quale Freud accenna soltanto in una delle successive edizioni del Leonardo, nel 1923.
Lo psicoanalista francese mentre esamina questa splendida opera d’arte, incompiuta, costeggia a tratti il testo freudiano. Le interpretazioni psicoanalitiche del disegno sono filtrate attraverso le sue impressioni e le sue personali emozioni: così Green ha portato avanti creativamente l’ambizioso lavoro di comprensione di Leonardo da Vinci che Freud per primo ha inaugurato.
Mentre leggevo Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci mi sono convinto che esso, non solo da un punto di vista delle applicazioni culturali della psicoanalisi ma anche sotto il profilo della teoria e della clinica, sia uno tra i più ricchi e densi lavori di Freud che io abbia letto sino ad ora. In questo breve saggio il genio di Freud riesce a trasfondere e ad amalgamare scienza, arte e cultura. La misura del valore scientifico e della riuscita letteraria del testo è che esso può (e vuole) essere letto, compreso e apprezzato non solamente dagli esperti di psicoanalisi o di storia dell’arte. Per riuscire ad apprezzarlo pienamente è necessario però che il lettore interessato sia scevro da pregiudizi culturali nei confronti della psicoanalisi e che sia mosso alla lettura dal genuino desiderio di conoscere più profondamente l’uomo che fu Leonardo da Vinci.
Il testo è considerato da molti un capolavoro del genere letterario e insieme scientifico. Mario Lavaggetto nel libro Freud, la letteratura e altro, in una nota, riporta il giudizio dello scrittore Umberto Saba che considerava il Leonardo di Freud «uno dei vertici raggiunti dall’intelligenza umana».
Il libro possiede in massimo grado le qualità di un visionario oggetto artistico – potremmo dire le qualità di un bellissimo romanzo psicoanalitico – e insieme il rigore di un’opera frutto dell’indagine psicoanalitica: dunque possiede le qualità proprie di un complesso saggio di psicoanalisi, creativo e ispirato.
Quest’anno 2019 si celebrano i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci (1452-1519) universalmente riconosciuto quale fulgido esempio del genio rinascimentale italiano. Nella sterminata bibliografia a lui dedicata, limitandoci ai contributi degli autori moderni appartenenti alle più diverse discipline, l’originale contributo di Sigmund Freud Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci occupa uno spazio non marginale; la sua ricerca prende spunto da un «ricordo d’infanzia» che Leonardo annota brevemente su una pagina del Codice Atlantico dedicata al volo degli uccelli.
In tema di ‘celebrazioni’ mi piace ricordare, con le parole di Mario Telò, che «quest’anno segna [anche] un importante anniversario per i biografi di Freud e per i suoi innumerevoli estimatori (come chi scrive)». Freud infatti morì a Londra il 23 settembre del 1939.
Nell’incipit della sua monografia (Meyer Schapiro, un autorevole storico dell’arte del XX secolo, definì questo saggio «a brilliant jeu d’esprit») Freud si accosta con prudenza al suo particolare oggetto di studio: l’uomo considerato universalmente ‘genio’ per eccellenza. Cita per questo Schiller e spiega che la sua indagine psichiatrica non aspira a «offuscare il risplendente e trascinare nella polvere il sublime», tutt’altro. Freud esplicita che è stato spinto a trattare della vita e dell’arte di Leonardo utilizzando il metodo e gli strumenti d’indagine propri della psicoanalisi, perché questo straordinario uomo del Rinascimento appare enigmatico ancora ai moderni tanto quanto apparve enigmatico ai suoi contemporanei: «che cosa sottraeva la personalità di Leonardo all’intelligenza dei suoi contemporanei?». Certamente non poteva essere la vastità molteplice dei suoi interessi di artista e di scienziato, visto che «l’epoca rinascimentale era ben avvezza a siffatta unione di varie attitudini nella stessa persona; Leonardo non era che uno degli esempi più splendidi». Freud sottolinea con ammirazione gli aspetti poliedrici della personalità di Leonardo e lo ritrae come un uomo dal carattere niente affatto solitario: un artista geniale, per niente austero, che non si sottraeva ai piaceri del vivere sociale.
Il geniale artista apprezzava molto le forme esteriori della vita e amava circondarsi di persone sensibili al fascino del suo estro creativo e della sua personalità. Leonardo era un uomo grande di statura, ben proporzionato nella persona e di eccezionale tempra fisica, «amava la bellezza anche nelle cose che lo circondavano, indossava volentieri abiti sfarzosi e apprezzava ogni raffinatezza del vivere». Era lo scenografo dei sontuosi festeggiamenti e dei grandi eventi che allietavano e celebravano la Signoria; memorabile fu l’allestimento di Leonardo, nel 1491, delle spettacolari scenografie per la Festa del Paradiso, un testo allegorico che celebrava Ludovico il Moro. Leonardo per l’occasione allestì uno straordinario meccanismo che riproduceva sul palco il moto dei pianeti.
Freud introduce il suo lavoro basandosi su autorevoli fonti storiche e segnala subito uno spartiacque nella vita di Leonardo da Vinci quando, nell’anno 1499, l’artista si vide costretto ad abbandonare la città di Milano. Secondo Carlo Pedretti, Leonardo si era trasferito da Firenze a Milano all’età di 30 anni, sebbene la prima nota datata di Leonardo in questa città risalga al 2 aprile 1489. In quella città egli era vissuto ed aveva ben operato per almeno diciassette anni, fino alla fine del dominio di Ludovico il Moro, il suo mecenate.
Inizia allora per Leonardo da Vinci un periodo movimentato di spostamenti e di traslochi. Tornerà a Firenze per l’impegno preso con la Signoria fiorentina a dipingere il grande murale della Battaglia di Anghiari, a Palazzo Vecchio. Nel 1506 sarà richiamato a Milano dal governatore francese Charles d’Amboise, dove si recherà l’anno seguente su richiesta diretta del re di Francia, Luigi XII.
Nel settembre del 1513 Leonardo si trasferisce a Roma ospite di Giuliano de’ Medici, fratello del Papa Leone X: è qui accolto nella villa che fu di Innocenzo VIII, nel Belvedere Vaticano. A Roma, dove rimarrà fino al 1516, Leonardo approfondisce gli studi di geometria e prosegue quelli di anatomia dedicandosi alla dissezione dei cadaveri presso l’Ospedale di Santo Spirito; in seguito alla denuncia di due assistenti, questa sua pratica scientifica gli verrà poi ufficialmente proibita dal Papa.
In questo periodo Leonardo si impegna inoltre in grandiosi progetti di bonifica delle Paludi Pontine. Alla fine dell’anno 1516, morto Giuliano de’ Medici, il suo ultimo rifugio sarà in Francia. Leonardo si ritira ad Amboise, nel maniero di Clos Lucé, accogliendo l’invito calorosamente rivoltogli da Francesco I, re di Francia.
Freud precisa che durante questo movimentato e incerto periodo di vita Leonardo modificò i suoi principali interessi: dall’arte pittorica egli rivolse man mano le sue energie alla ricerca scientifica e alle applicazioni tecniche che da questa potevano derivare.
Ci informa Freud che gli studi scientifici che Leonardo iniziò a coltivare intensivamente furono giudicati dai suoi contemporanei come dei ‘lunatici trastulli’, e che a causa di questi suoi bizzarri interessi egli fu addirittura sospettato di “magia nera”:
Di certo egli sezionando cadaveri di cavalli e di uomini, costruendo apparecchi per volare, studiando la nutrizione delle piante e la loro reazione ai veleni, si allontanava dai commentatori di Aristotele e si accostava agli spregiati alchimisti.
Pare che la lentezza di Leonardo nel dipingere fosse diventata proverbiale tanto da crearsi la fama di essere un artista che non portava a compimento le sue opere. Scrive Freud che anche questa sua tendenza a lasciare incompiute le opere gli fu spesso rimproverata dai suoi contemporanei. L’artista era considerato un uomo di genio dal carattere incostante, «parve dunque, ai suoi contemporanei, un enigma il rapporto che Leonardo aveva con l’arte».
Freud riporta le testimonianze di certi autori dell’epoca che avevano annotato la lentezza e l’incostanza di Leonardo nel portare a termine il Cenacolo, l’opera che stava dipingendo nel refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. Stessa cosa, citando il Vasari, con il ritratto di Monna Lisa al quale Leonardo si dedicò a lungo, per quattro anni, senza riuscire però a portarlo a termine: l’opera non fu mai consegnata al suo committente e rimase nelle mani del suo autore. Leonardo portò con sé in Francia il ritratto e sarà poi acquistato da Francesco I, re di Francia.
Leonardo da Vinci, Gioconda, 1503-1529, olio su tavola di legno, Parigi, Museo del Louvre |
Scrive Freud: «[N]otiamo il fatto indubitabile che il suo sorriso affascinò l’artista non meno intensamente di tutti gli ammiratori da quattrocento anni in qua». È convinto che il grande artista fosse stato catturato dal sorriso di Monna Lisa perché questo avrebbe rievocato in lui un’antica memoria, un «conosciuto non pensato», direbbe Christopher Bollas.
Freud ipotizza dunque che Leonardo fosse afflitto da una sorta di «inibizione a concludere», causata dal progressivo prevalere in lui – in corso d’opera – di uno ‘spirito sperimentatore’ che si esprimeva a discapito della piena volontà e della piena capacità di completare l’opera d’arte iniziata. Egli fa riferimento alle critiche vicende tecniche che riguardarono sia il Cenacolo milanese sia la pittura murale fiorentina, la Battaglia di Anghiari, che Leonardo lasciò incompiuta.
Freud, psicobiografo di Leonardo, attribuisce l’apparente pigrizia e la «tranquilla placidità» del geniale artista ad alcuni peculiari aspetti del suo carattere. Questi aspetti caratteriali facevano di lui un uomo privo di aggressività e, dunque, un artista poco interessato a competere con gli altri grandi artisti della sua epoca. Leonardo era un uomo sensibile, delicato nei sentimenti, un animalista ante litteram, non mangiava carne per rispetto di queste creature. Di contro, scrive Freud, a fronte di questa sua delicatezza d’animo, l’artista scienziato, quando poteva, accompagnava i condannati a morte per studiare le «espressioni dei loro volti stravolti dall’angoscia». Inoltre, nella sua veste di ingegnere militare, egli progettò armi offensive particolarmente efficaci. Aggiunge inoltre che Leonardo partecipò da protagonista alla campagna militare di Cesare Borgia «che portò costui, il più disonesto e sleale dei contendenti, al possesso della Romagna».
Dopo aver illustrato a grandi linee il contesto storico/sociale nel quale Leonardo da Vinci visse, Freud entra nel merito del contributo che il metodo di indagine psicoanalitico può dare alla conoscenza di Leonardo:
Se un tentativo biografico intende realmente spingersi a fondo nella comprensione della vita interiore del proprio eroe, non può passare sotto silenzio l’attività e peculiarità sessuale del soggetto.
Con questo saggio Freud inaugura un genere di letteratura psicoanalitica definito patografia. Egli poi chiarirà che non considera Leonardo da Vinci un ‘nevrotico’ e che, alla luce delle conoscenze che si basano sulla psicoanalisi, non si possa più distinguere con nettezza la normalità dalla nevrosi. Sbilanciandosi ‘clinicamente’, dichiara che sarebbe comunque lecito collocare Leonardo «in prossimità di quel tipo nevrotico che designiamo come ossessivo».
Patografia è un buffo termine dal sapore ottocentesco: secondo la definizione dell’Enciclopedia Treccani esso indica un procedimento di «[r]icostruzione delle patologie psichiche di personaggi celebri fondate sulle informazioni biografiche e sull’esame delle loro opere». Essa è stata attualmente riabilitata dai clinici di una particolare branca della medicina umanistica che va sotto il nome di ‘Medicina narrativa’, la cui pratica si basa sugli scritti autobiografici dei malati. Patografia indica dunque una particolare applicazione dei principi della psicoanalisi al di fuori della clinica e riguarda lo studio di un artista e delle sue opere, condotto attraverso il prisma della interpretazione psicoanalitica.
Nella parte finale del saggio Freud affronta le resistenze che i risultati dell’indagine patografica possono suscitare nei lettori, specie quando scava nella vita di un grande uomo qual era Leonardo da Vinci, e le più comuni critiche che ad essa vengono rivolte: ad esempio che la patografia non faccia pienamente comprendere l’importanza dell’artista e delle sue opere. Freud precisa netto che la «patografia non si pone affatto l’obiettivo di rendere comprensibile l’opera del grand’uomo». Per questo critica quei biografi che «aderiscono in maniera del tutto singolare al loro eroe. […] Si danno allora ad un lavoro di idealizzazione che si sforza di riportare il grand’uomo nell’ambito dei loro modelli infantili». Freud giudica negativamente questo tipo di approccio perché sarebbe la causa della rinuncia a «penetrare nei più affascinanti misteri della natura umana».
Al contrario Sigmund Freud si pone idealmente nel solco di quegli studiosi/ricercatori che non indietreggiano di fronte all’enigma e combattono per questo le suggestioni derivanti dalle proprie soggettive illusioni, sapendo che esse andrebbero a minare la ricerca della verità e della conoscenza. In un passo del suo saggio egli si richiama direttamente al metodo leonardesco:
Leonardo stesso nel suo amore per la verità e nella sua sete di conoscenza non avrebbe respinto il tentativo di indovinare dagli enigmi della sua natura, le condizioni che avevano determinato il suo sviluppo psichico e intellettuale. Noi lo onoriamo imparando da lui.
Nelle pagine conclusive del suo appassionante studio, Freud sembra ondeggiare, appare meno certo dell’approccio scientifico/naturalistico che fa da guida alla sua ricerca psicobiografica, e dichiara che se qualcuno vorrà criticare il suo lavoro definendolo semplicemente un romanzo psicoanalitico «risponderò che anch’io non esagero la certezza dei miei risultati».
Svela che anch’egli è stato irretito da un sentimento di ammirazione per la misteriosa grandezza di questo esemplare genio rinascimentale. Difende in ogni caso la bontà del suo metodo d’indagine e assegna confini precisi all’interpretazione psicoanalitica applicata al campo biografico, «da un lato stanno la casualità degli avvenimenti e gli influssi ambientali, dall’altro le reazioni dell’individuo delle quali sia stata data notizia». Spiega che, grazie alla conoscenza dei meccanismi psichici, il metodo psicoanalitico riesce a farci entrare dinamicamente nella natura profonda dell’individuo, scoprendone le originarie forze psichiche e seguendone le sue trasformazioni:
Se vi riesce, il comportamento della personalità risulta spiegato attraverso il concorso di costituzione e destino, di forze interne e di potenze esteriori.
Ellen Handler Spitz, una studiosa americana, in un pregevole volume dedicato ad Arte e Psiche, classifica la visione dell’arte di Freud nella tradizione critica romantica. Nello specifico considera il Leonardo opera capostipite del particolare approccio immaginario nel campo della interpretazione patografica. La Spitz è convinta che il «Leonardo da Vinci di Freud rimane la pietra di paragone per tutti i tentativi del genere fatti in seguito». Nel suo libro fa proprie le critiche provenienti da alcuni studiosi di storia dell’arte ed enuncia alcuni principi che dovrebbero fare da guida a una corretta ‘pratica patografica’. L’autrice invita il ricercatore/patografo contemporaneo a essere un attento e scrupoloso osservatore/lettore – dal punto di vista estetico – dell’opera di cui tratta.
La sua tesi è che, se il patografo vuole penetrare nei significati psichici impressi nelle opere d’arte, egli deve divenirne un esperto e contribuire così a renderle maggiormente comprensibili. Secondo Ellen Spitz, quando una corretta pratica patografica si realizza, allora prende corpo una virtuosa circolarità grazie alla quale le opere d’arte sono utilizzate per entrare nella psiche dell’artista e le intime vicende dell’artista vengono utilizzate per interpretarne le opere: è necessario che il patografo torni sempre all’opera d’arte che sta esaminando, per «ri-sperimentarla alla luce delle interpretazioni psicoanalitiche offerte».
La monografia di Freud su Leonardo per molti studiosi rimane esemplare, essa è un luminoso riferimento per tutti coloro che – attraverso l’interpretazione psicologica/psicoanalitica – desiderano esplorare la materia che lega l’opera d’arte al suo autore e viceversa. Molti psicoanalisti – in prevalenza di scuola francese – considerano questo saggio uno dei lavori più interessanti e più originali di Freud. Da fonti documentate sappiamo che è un’opera di cui Freud andava molto fiero: in una lettera indirizzata a Lou Salomé egli dichiara che il Leonardo è «la sola bella cosa che io abbia mai scritto». Quest’opera mantiene, in effetti, un vigore e una coinvolgente plausibilità grazie anche alla bellezza formale e alla fruibilità letteraria della sua trama narrativa: un riconoscimento questo che letterati e storici dell’arte – benché critici riguardo ai contenuti del testo – gli hanno sempre tributato.
Cito ad esempio l’apprezzamento dell’intera opera di Freud da parte di un autorevolissimo critico letterario del ventesimo secolo, Lionel Trilling:
La psicologia freudiana è la sola descrizione sistematica della mente umana che per finezza e complessità, per interesse e potenza drammatica meriti di figurare accanto alla massa caotica di nozioni psicologiche accumulate dalla letteratura attraverso i secoli.
Il Leonardo nel corso della sua prima pubblicazione non suscitò alcun particolare dibattito. Una prima incisiva critica apparve solamente tredici anni più tardi, in un articolo di Eric Maclagan pubblicato su The Burlington Magazine, Londra 1923. Maclagan, uno storico d’arte inglese, sottolineava nel suo articolo un errore grossolano di traduzione presente nel lavoro di Freud: una errata traduzione riguardante il termine che designa una particolare specie di uccello, il nibbio, contenuto nella breve nota che Leonardo scrisse del suo celeberrimo ricordo d’infanzia, a margine di una pagina del Codice Atlantico. Questo termine mal tradotto fece scalpore non solo perché esso va a designare una diversa specie di uccello, l’avvoltoio, ma soprattutto perché l’avvoltoio è la figura/perno su cui poggia una delle tesi freudiane più ardite.
Seguiamo ora più da vicino i contenuti del testo di Freud: la sua prima ipotesi psicoanalitica è che «Leonardo fu un esempio d’indifferente rifiuto della sessualità». Scrive Freud che «è incerto se Leonardo abbia mai stretto in amplesso amoroso una donna». Viene da lui riportata la notizia secondo la quale, all’epoca in cui Leonardo era un giovane allievo del Verrocchio, egli, insieme ad altri, venne coinvolto in un’accusa di illecite pratiche omosessuali dalla quale venne poi comunque scagionato. Divenuto Maestro, amava circondarsi di ragazzi e giovinetti che accoglieva come suoi discepoli. Freud sottolinea che Leonardo accoglieva i suoi discepoli, se ne prendeva cura e li assisteva quando si ammalavano «come una madre assiste i suoi bambini, come poteva averlo assistito la sua stessa madre». Il primo dei suoi allievi fu il pittore Gian Giacomo Caprotti, noto sotto lo pseudonimo di Andrea Salai, o Salaìno, al quale Leonardo aveva affibbiato il nomignolo di ‘Salaì’, diavolo: questi entrò fanciullo nella bottega di Leonardo, all’età di 10 anni; Francesco Melzi, uno degli allievi di Leonardo a lui più fedeli, lo seguì fin nel suo ultimo rifugio in Francia e gli rimase accanto fino alla morte. Freud esprime la convinzione che i rapporti che intercorsero tra Leonardo e i suoi allievi fossero di natura squisitamente affettiva, che essi non «sfociassero in manifestazioni erotiche» dal momento che «sarà opportuno non supporre in lui un alto grado di attività sessuale».
Avventurandosi in questa sua ricerca, Freud cita quegli autori che – secondo il suo giudizio – si sarebbero avvicinati alla comprensione dell’enigmatico genio di Leonardo: Edmondo Solmi e, per altri aspetti, lo scrittore Dmitrij S. Merežkovskij, autore di un romanzo storico che vede come protagonista il personaggio Leonardo da Vinci.
Cita inoltre un relatore italiano che, nelle Conferenze fiorentine del 1906, utilizza una particolare espressione di Leonardo che a suo giudizio «fornisce la chiave della sua natura»: «[N]essuna cosa si può amare né odiare, se prima non si ha cognition di quella». «E in lui sembra realmente che le cose stessero così», afferma lapidario Freud.
In una prosa particolarmente ispirata, quasi poetica, egli ci consegna poi alcune particolari considerazioni sulla natura del genio. Secondo Freud in Leonardo gli affetti erano «domati, sottomessi alla pulsione di ricerca». La tesi freudiana è che Leonardo avesse convertito la propria personale passione in brama di sapere, tanto che per questa sua insaziabile sete di ricerca fu chiamato il Faust italiano. Freud qui afferma un fondamentale principio psicologico/esistenziale: quando si ama solo dopo aver conosciuto «il differimento […] diventa una sostituzione […] e si rimane al di là del bene e del male… [perché] si è indagato anziché amato»! La pulsione di conoscere di Leonardo sarebbe stata la causa principe della sua inibizione al fare arte e quindi al ‘creare’.
Egli porta a supporto delle sue tesi alcune considerazioni del Solmi: questo autore circoscrive temporalmente le manifestazioni del potente impulso conoscitivo di Leonardo da Vinci, riferendole al periodo durante il quale l’artista intraprese gli studi scientifici sulla proprietà della luce, delle ombre e della prospettiva. Grazie ai suoi studi e alle sue osservazioni scientifiche, Leonardo aspirava a divenire consapevole delle leggi della natura al fine di poterle poi trasfondere nelle opere pittoriche: «Le sue indagini si estesero a quasi tutti i campi della scienza naturale, […] la sua sete di sapere restò rivolta al mondo esteriore, qualcosa lo allontanava dall’esplorare la vita interiore dell’uomo».
Freud spiega l’insaziabile desiderio di conoscere che accomuna i grandi uomini di scienza, alimentato con tenacia, passione ed energia – puntualizzando che sono le stesse energie che uomini più ordinari mobilitano allo scopo di raggiungere soddisfazioni di natura erotica e sessuale – con la capacità che loro hanno di sublimare. Questo verbo, e il sostantivo sublimazione, Freud lo introduce in psicoanalisi mutuandolo dal significato che ha in fisica e in chimica: «fenomeno consistente nel passaggio di una sostanza dallo stato solido allo stato aeriforme», come viene descritto nel Vocabolario Treccani. Nello stesso vocabolario si fa derivare il termine dal latino tardo e medievale: «L’azione, il fatto di sublimare, di rendere o di essere reso sublime: sublimazione di un affetto, di un sentimento».
In Cinque conferenze sulla psicoanalisi Freud descrive chiaramente il peculiare significato psicoanalitico del termine sublimazione: «Un processo di sviluppo […] nel quale l’energia degli impulsi di desiderio infantile non viene bloccata, ma rimane a disposizione, perché ai singoli impulsi viene imposta, anziché quella inservibile, una meta più alta, eventualmente non più sessuale». La capacità di sublimare è tanto più sviluppata quanto più nell’infanzia di un individuo «la pulsione predominante è stata al servizio di interessi sessuali».
Per supportare quest’affermazione Freud mette in campo l’osservazione psicoanalitica: tramite questa si era potuto constatare che i bambini che diverranno intellettivamente più dotati attraversano, intorno al terzo anno di vita, una fase di intensa «esplorazione sessuale». Questo tipo di esplorazione è collegata a una pressante ed enigmatica domanda che riguarda le ‘origini’ e che si focalizza su un’unica e urgente richiesta «da dove vengono i bambini?».
A questa pressante richiesta infantile gli adulti però non sapranno e non potranno mai rispondere adeguatamente. Così, spiega Freud, dalla profonda delusione che il bambino ne ricava deriverà l’impegno che lui metterà nell’intraprendere una propria incessante e autonoma ricerca. Questa primitiva pulsione di sapere – che spinge il bambino alla ricerca di soluzioni riguardanti gli enigmi fondamentali della vita – diverrà poi la matrice psichica di una progressiva e autonoma capacità di pensiero. Alain de Mijolla afferma che «questo passaggio è uno dei momenti ‘trampolino’ della storia della psiche umana».
La progressiva indipendenza intellettiva del bambino avrà comunque un suo prezzo, consistente nella necessità di sperimentare lo stato di solitudine. Ha scritto Freud che questa tenace esplorazione «viene sempre condotta in solitudine; essa costituisce un primo passo verso l’orientamento indipendente nel mondo e stabilisce una forte estraniazione del bambino dalle persone del suo ambiente che prima avevano goduto della sua piena fiducia».
Alain de Mijolla precisa che questa è una tappa di primaria importanza «del lungo processo generatore della storia individuale [che] si traduce e si organizza in attività fantasmatiche sempre più elaborate» come ad esempio la costruzione del romanzo familiare. Dallo scacco originario delle capacità intellettive messe in campo dal bambino allo scopo di risolvere autonomamente l’enigma delle origini, Freud farà derivare diversi «destini psichici», essi prenderanno avvio quando tramonta il periodo della intensiva esplorazione sessuale.
Tra i destini possibili vi è la deriva verso l’inibizione intellettuale: «Noi sappiamo che l’indebolimento mentale così acquisito favorisce l’insorgere di un’affezione nevrotica». Una seconda possibilità è che «l’esplorazione sessuale repressa fa ritorno dall’inconscio come rimuginare ossessivo, […] abbastanza forte da sessualizzare il pensiero». Vi è infine un terzo tipo di sviluppo nel quale Freud inserisce il genio particolare di Leonardo: «Il terzo tipo, il più raro e perfetto, sfugge, in forza di una particolare disposizione, sia alla inibizione intellettuale che alla coazione nevrotica a pensare». Freud riconosce in Leonardo il caso esemplare di questo terzo tipo e propone di chiarire uno dei nuclei del genio leonardesco attraverso la spiegazione di determinate e particolari vicende psichiche: dopo un periodo infantile «di curiosità al servizio di interessi sessuali, [Leonardo] sarebbe riuscito a sublimare la maggior parte della sua libido in una spinta alla ricerca». Ammette che non sarà facile provare la sua ipotesi a causa della scarsità di documenti disponibili che attestino le vicende particolari dei primi anni di vita di Leonardo. Per dare quindi supporto alle sue tesi Freud riporta succintamente tutte le notizie riguardanti la vita di Leonardo allora disponibili; basandosi su queste scarne e incerte notizie egli riesce comunque a costruire le sue brillanti interpretazioni psicoanalitiche.
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Il ricordo d’infanzia di Leonardo
Diventa esplicito l’approccio immaginativo quando Freud introduce il ricordo d’infanzia di Leonardo; dal punto di vista psicoanalitico il ricordo si configura come la ‘rappresentazione’ di un particolare accadimento psichico, l’improvvisa irruzione di un materiale inconscio nel mentre l’artista-scienziato era intento nel lavoro di trattazione del volo del nibbio, «egli si interrompe improvvisamente per seguire un ricordo che affiora in lui dai primi anni della vita.
“Questo scriver sì distintamente del nibbio par che sia mio destino, perché ne la mia prima ricordazione della mia infanzia e’ mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me, e mi aprisse la bocca colla sua coda, e molte volte mi percuotessi con tal coda dentro alle labbra.”»
Ha scritto Maïdani-Gérard che il ricordo piomba su Leonardo come il nibbio piomba sulla preda: da Vinci lo consegna immediatamente ai posteri trascrivendolo a tergo di un foglio del Codice Atlantico, in alto sulla quarta pagina, margine superiore del folio 66 verso b, in un giorno dell’anno 1505.
Freud sgombera il campo dando subito spazio all’interpretazione psicoanalitica: non di un ricordo si tratta bensì di una fantasia che Leonardo costruisce in un periodo successivo della sua infanzia: il ricordo sarebbe dunque un materiale fantasticato che Leonardo avrebbe tradotto in una memoria infantile. Spiega Freud che spesso i ricordi che si riferiscono al periodo infantile altro non sono che fantasie «poste al servizio di tendenze posteriori».
Ma questo non autorizza a sminuirne il senso e l’importanza perché, spiega, dentro ciò che crediamo di ricordare della nostra infanzia e nei frammenti di alcune particolari memorie, spesso poco comprensibili, «sono celate inestimabili testimonianze delle linee più importanti dello sviluppo psichico».
Freud chiarisce che dietro le deformazioni psichiche operanti nelle fantasie, nei sogni e nelle memorie infantili, dietro ciò che può essere definito come un «materiale leggendario» si cela la verità storica. E dunque «la fantasia di Leonardo» rappresenta per lo psicoanalista un frammento prezioso da cui partire per tentare di colmare le lacune esistenti nella biografia:
Esaminando con l’occhio dello psicoanalista, la fantasia del nibbio cessa di apparirci strana[,] […] la traduzione s’indirizza verso la sfera erotica.
Freud svela immediatamente l’interpretazione più ovvia per lo psicoanalista, essa potrebbe apparire scandalosa al lettore che fosse digiuno di psicoanalisi: la fantasia sessuale che si cela dietro la scena infantile allude a una fantasia omosessuale di penetrazione orale, una fellatio. In effetti questa interpretazione sarebbe stata riduttiva, arida e meccanicistica se Freud non l’avesse poi arricchita di altri e più profondi significati.
L’interpretazione freudiana di quel ‘materiale inconscio’ diviene più complessa ed è soffusa di un eros universale, la fantasia leonardesca:
Ripete soltanto, elaborata, un’altra situazione in cui tutti un tempo ci siamo sentiti a nostro perfetto agio: quando poppanti («essendo io in culla») prendevamo in bocca per succhiarlo il capezzolo della madre o della balia.
Questo passaggio interpretativo è fondamentale per la successiva elaborazione di Freud riguardo alla psicogenesi del particolare tipo di omosessualità di cui Leonardo sarebbe stato un illustre prototipo. La spiegazione psicoanalitica che Freud sviluppa rimane ancora oggi ricca di significato. In una nota aggiunta all’edizione del 1919, egli si rammaricava del fatto che le categorie a difesa dei diritti degli omosessuali, i loro «portavoce scientifici», non avessero utilizzato pienamente, a loro vantaggio, quanto la psicoanalisi aveva già elaborato su questo specifico tema. In particolare «due dati di fatto assolutamente incontrovertibili […] [.] Il primo è […] la fissazione del bisogno d’amore alla madre, l’altro è contenuto nell’asserzione che chiunque, anche la persona più normale, cercando il proprio oggetto, è capace di fare una scelta omosessuale».
È facile poter pensare che, all’epoca, questi due dati essenziali rappresentassero la comprensione più intelligente, fra tutte le ipotesi scientifiche fino ad allora messe in campo, della genesi psichica di questo particolare tipo di omosessualità. Ma prima di addentrarsi oltre nella specifica tematica sessuale di Leonardo, Freud si sofferma su un’area di ricerca basilare rappresentata dalla primitiva relazione madre/bambino:
Lasceremo per ora da parte la questione del nesso che eventualmente congiunge l’omosessualità con l’attività del succhiare al seno materno, e ricorderemo semplicemente che la tradizione attribuisce di fatto a Leonardo sentimenti omosessuali.
Freud qui si avventura su un percorso che potremmo definire ‘visionario’, proponendo una ardita interpretazione della parte più oscura del ricordo di Leonardo «la madre sostituita dal nibbio».
Da appassionato cultore delle antiche civiltà egli non ha difficoltà a utilizzare la simbologia dei geroglifici dell’antico Egitto e ricorda che «nella scrittura geroglifica degli antichi egizi la madre è indicata con la figura dell’avvoltoio». In questo passaggio Freud sostituisce il nibbio con l’avvoltoio. Da molti critici questo è considerato un grossolano errore di traduzione, un errore che risulta però inspiegabile se si pensa che Freud aveva una buona conoscenza della lingua italiana e certamente era capace di comprendere il testo originale di Leonardo. Questo errore ha dato adito a numerose e motivate critiche filologiche, oltre che a tentativi di squalifica dell’intero testo, da parte d’illustri letterati e di autorevoli storici dell’arte, ed è stato causa di imbarazzo per alcuni psicoanalisti suoi allievi.
Freud, in corso d’opera, fece dunque una scelta ‘testuale’? Questa incongruenza è così segnalata dal traduttore della edizione italiana del Leonardo (1991): «Freud dà l’italiano in nota e cita nel testo la traduzione tedesca della Herzfeld […]. La traduzione tedesca presenta due imprecisioni […]. La seconda più grave imprecisione riguarda la parola nibbio, resa in tedesco con Geier, anziché con Milan; ma Geier significa avvoltoio».
Freud riferisce che nell’antichità l’avvoltoio era considerato una specie solo al femminile e che, in mancanza del genere maschile, si credeva che queste creature potessero essere fecondate dal vento. Immagina pure che Leonardo potesse essere a conoscenza di questa antica leggenda egizia perché «era un uomo che leggeva molto, i suoi interessi abbracciavano tutti i campi della letteratura e del sapere».
Allo scopo di meglio supportare le sue tesi e di meglio comprendere il significato psichico del ‘ricordo/fantasia’ di Leonardo, Freud fornisce le notizie biografiche, documentate, dell’artista. Leonardo da Vinci era un figlio illegittimo e visse la sua prima infanzia solo con la madre, una giovane contadina di nome Caterina che più tardi andò in sposa a un abitante del circondario di Vinci. Il padre era ser Piero da Vinci, un notaio che discendeva da una famiglia di notai e di proprietari terrieri. Freud cita un documento ufficiale nel quale si attesta che Leonardo compare per la prima volta nella famiglia di ser Piero, quale figlio illegittimo, nell’anno 1457. Si può quindi dedurre che solo allora il bambino fosse affidato alle premurose cure di donna Albiera, la legittima moglie del padre, che lo allevò in assenza di altri suoi figli naturali. Dunque, per un periodo abbastanza lungo della prima infanzia, Leonardo visse con la giovane madre naturale; «la sostituzione della madre col nibbio-avvoltoio indica che il bambino sente la mancanza del padre e si è trovato solo con la madre». La memoria di questa primitiva e intensa relazione duale, priva realmente di un terzo, porta in sé «un’eco del godimento provato al seno materno».
Freud si chiede come sia stato possibile che Leonardo – da questa memoria di sé bambino che succhia il seno materno – abbia potuto sviluppare la fantasia del nibbio che ficca la coda nella sua bocca. Nel domandarsi «perché questo contenuto mnestico è stato rielaborato come situazione omosessuale» introduce, quale elemento esplicativo, l’immagine mitica della dea egizia Mut dalla testa di avvoltoio: una antichissima divinità materna che aveva caratteristiche androgine, essa veniva infatti raffigurata con attributi sessuali sia femminili sia maschili.
In questa sua ricerca a ritroso nel tempo Freud ha l’occasione di potersi soffermare su quella che Jean Laplanche definisce «la situazione originaria»: la primitiva relazione madre-bambino. Secondo Laplanche nel Leonardo di Freud si allude precisamente al tema della «inconscia seduzione» che l’adulto agisce nei confronti del bambino attraverso il «linguaggio della passione», un linguaggio che esprime qualcosa che è oltre il sentimento di tenerezza. Questo ‘linguaggio’ può essere solo dell’adulto, esso è radicalmente estraneo al bambino. Secondo Laplanche la situazione originaria si trasforma in seduzione originaria quando l’adulto inconsciamente trasmette al bambino dei «significanti enigmatici», ad esempio il fantasma della scena primaria: «L’enigma, quello la cui spinta è inconscia, è seduzione per sé stesso, e non per niente la Sfinge è posta alle porte di Tebe prima ancora del dramma di Edipo».
Secondo Laplanche, Leonardo da Vinci e il Leonardo di Freud hanno avuto il grande merito di indicarci in maniera esemplare i diversi livelli della seduzione: la rappresentazione della seduzione originaria «è l’ineluttabile sorriso enigmatico della Gioconda, della Vergine o del San Giovanni».
«La fantasia del nibbio di Leonardo […] pone in rilievo l’intensità delle relazioni erotiche tra madre e bambino». Nel quarto capitolo del libro il significato che è dietro quella particolare fantasia di Leonardo viene così esplicitato da Freud: «Mia madre mi ha stampato innumerevoli ardenti baci sulla bocca». Da questa potente impressione mnestica – un «conosciuto non pensato» – deriva «il seducente e misterioso sorriso che l’artista ha evocato sulle labbra delle sue figure femminili. Uno statico sorriso su labbra allungate, arcuate; esso è diventato caratteristico dell’artista e viene di preferenza chiamato leonardesco». Scrive ancora Freud:
Il sorriso del ritratto di Monna Lisa del Giocondo ha sempre turbato i suoi osservatori, per questo tantissimi autori nel corso dei secoli hanno avvertito la necessità di ‘interpretarlo’, ma nessuna delle tante e raffinate interpretazioni che nel tempo sono state proposte è mai riuscita a soddisfare pienamente.
Freud cita alcuni illustri autori, suoi contemporanei, che hanno commentato con intuito e competenza il misterioso sorriso della Gioconda: François-Anatole Gruyer, Richard Muther, Eugène Müntz, Walter Pater. Un suo particolare apprezzamento è per la suggestiva descrizione di Angelo Conti in Leonardo pittore:
Angelo Conti vede il quadro al Louvre ravvivato da un raggio di sole: “La donna sorrideva in una calma regale: i suoi istinti di conquista, di ferocia, tutta l’eredità della specie, la volontà della seduzione e dell’agguato, la grazia dell’inganno, la bontà che cela un proposito crudele, tutto ciò appariva alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del suo sorriso… Buona e malvagia, crudele e compassionevole, graziosa e felina ella rideva…”
Questa primitiva memoria ridestata dal sorriso di Monna Lisa non lascerà più Leonardo, il sommo artista «fu costretto a dargli sempre nuova espressione». Freud ci rivela che Caterina «sua madre avesse posseduto quel misterioso sorriso». I sublimi ritratti «di donne che ridono» di Leonardo «non sono altro che repliche di sua madre, Caterina».
Solo Freud con suggestive e stringenti argomentazioni avrebbe potuto condurci per mano lungo questo avvincente percorso che, partendo da quel frammento di ricordo, si avventura nel tempo della prima infanzia di Leonardo per approdare in un’area di significati che scaturiscono tutti dalla ‘fantasia del nibbio’.
L’enigmatica fantasia di Leonardo da Vinci credo non possa avere una ‘spiegazione’ più bella di quella che Freud infine ci fornisce con poche ed essenziali parole, trasparenti e amorevoli:
La fantasia è costituita dal ricordo dell’essere allattato e dell’essere baciato dalla madre.
Leonardo da Vinci, Madonna Litta, 1490, tempera su tela, San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage |
Freud, psicobiografo di Leonardo, prende poi in esame un altro celebre dipinto del sommo artista, il quadro di Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino, anch’esso custodito al Louvre. È l’opera di Leonardo ritenuta cronologicamente più vicina al ritratto di Monna Lisa, in essa si «mostra il sorriso leonardesco chiaramente soffuso nella maniera più bella su entrambi i visi femminili».
Se accogliamo la tesi freudiana che il sorriso della Gioconda avesse evocato nel pittore il ricordo della madre, allora comprendiamo perché questa primitiva memoria potesse spingere l’artista a creare altre opere d’arte nelle quali risulta centrale «l’esaltazione della maternità».
Freud così descrive questo dipinto:
Nel quadro di Leonardo, Maria, protesa in avanti, siede sulle ginocchia di sua madre e tende le braccia verso il figlioletto che gioca con un agnellino trattandolo persino un po' male. La nonna ha l’unico braccio visibile appoggiato sul fianco e guarda entrambi con un sorriso felice. […] [I]l sorriso che brilla sulle labbra delle due donne, per quanto sia evidentemente lo stesso del quadro di Monna Lisa, ha perduto il suo inquietante ed enigmatico aspetto; esprime tenerezza e silenziosa beatitudine.
Egli scrive che in questo quadro di Leonardo è tracciata «la storia della sua infanzia».
Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino, 1503-1519, olio su tavola, Parigi, Museo del Louvre |
Freud si riferisce alle particolari dinamiche che sarebbero esistite nella costellazione familiare del geniale artista: Leonardo entra a fare parte della famiglia paterna quando andò a vivere a casa di suo padre e lì «non trovò solo la buona matrigna Donna Albiera, ma anche la nonna, madre di suo padre, Monna Lucia».
La spiegazione psicobiografica è che Leonardo ebbe due madri, in tempi diversi: la madre naturale, Caterina, e la giovane e affettuosa matrigna, Donna Albiera, la moglie di suo padre. La triade di Sant’Anna avrebbe preso forma da un processo di «condensazione psichica» di una madre e di una nonna, la figura della nonna è rappresentata da Sant’Anna ancora giovane e di «non sfiorita bellezza»: ella, secondo Freud, sia nell’aspetto sia nel rapporto spaziale che occupa all’interno della composizione pittorica, corrisponde a Caterina, la prima madre.
Nella nota aggiunta all’edizione del 1919 Freud arricchisce il suo testo con altre osservazioni:
Se in questo quadro si tenta di definire la demarcazione della figura di Anna da quella di Maria, si vedrà che non è facile. Si potrebbe dire che entrambe sono fuse insieme come figure oniriche mal condensate, così che in parecchi punti risulta difficile dire dove finisca Anna e dove cominci Maria.
L’interpretazione di Freud di quegli aspetti pittorici che potrebbero apparire come difetti di composizione è che questa particolare composizione ha un «significato segreto»:
Le due madri della sua fanciullezza potevano per l’artista confluire in un’unica figura.
Nell’edizione del 1923, in una aggiunta, Freud mette a confronto il quadro del Louvre con il «celebre cartone di Londra dove […] le due figure materne sono ancora più intimamente fuse tra loro, […] tanto che i critici […] si sono visti costretti a dichiarare che “le due teste sembrano sbocciare da un unico tronco”».
Leonardo da Vinci, Cartone di sant'Anna, 1499-1500, gessetto nero, biacca e sfumino su carta, Londra, National Gallery |
Un autorevole psicoanalista contemporaneo, Christopher Bollas, in un’intervista pubblicata qualche anno fa – condotta da Vincenzo Bonaminio – sul tema delle articolazioni dell’inconscio, commentava che Freud aveva rimosso la conoscenza di sua madre e a causa di questa «forma rimossa d’amore non era più cosciente del contributo della madre alla struttura psichica del Sé».
Nel corso di questa interessante intervista Bollas sottolinea che Freud si è dedicato ad una teoria fondamentalmente paternalistica dell’inconscio e che ciò che era stato rimosso apparteneva alla relazione madre/bambino, una relazione speciale in cui «un essere umano “reagisce a un altro” senza che la conoscenza di questo contatto passi attraverso la coscienza». Nel saggio su Leonardo, Freud sembra aver bypassato la rimozione della conoscenza di sua madre; egli con profonda intuizione si è soffermato sui contributi fondamentali ‘delle madri’ nella costruzione della struttura psichica del sé aprendo la strada alle successive ricerche psicoanalitiche sulla fase pre-edipica e sul narcisismo primario.
È possibile cogliere alcuni elementi di analogia esistenti tra la fantasia leonardesca del nibbio/avvoltoio e un celebre sogno di Freud – da lui analizzato ne L’interpretazione dei sogni – denominato “madre cara e personaggi con becco di uccello”. Il sogno risale all’età infantile ed è così rievocato da Freud: «[M]ostrava la mia cara madre, che aveva una espressione del viso particolarmente tranquilla e sonnolenta, che veniva portata nella sua camera e deposta sul letto da due o forse tre individui muniti di un becco di uccello». Nell’interpretare questo suo sogno, a distanza di più di 30 anni, Freud cita, tra le varie fonti, la Bibbia illustrata da Philippson dove viene rappresentata una «Divinità con la testa di sparviero appartenente a un bassorilievo funerario egizio».
(Settembre 2019)
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Un' interessante lettura attraverso gli occhi esperti e sapienti dell' Autore. Dall' arte e la genialità di Leonardo agli abissi freudiani del non pensato eppure conosciuto, un intreccio affascinante si snoda tra il mistero di Nonna Lisa e la dolcezza della Vergine e sua madre. La rievocazione di antiche memorie, la sublimazione di passioni in brama di sapere avvolgono questo articolo come una magistrale induzione ipnotica
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