2 ottobre 2019

«“Elogio delle merci”, tre racconti di Isacco Turina» di Cinzia Baldazzi





La ricchezza delle società nelle quali 
predomina il modo di produzione capitalistico 
si presenta come una “immane raccolta di merci” 
e la merce singola si presenta come sua forma elementare.
Karl Marx, 1867


Nelle tre storie allineate sotto il titolo Elogio delle merci (Coazinzola Press, Mompeo 2018, pp. 302), «il lettore incontrerà le storie minuscole di qualche esistenza umana che si dibatte senza riposo all’ombra maestosa delle merci», spiega l’autore Isacco Turina, «nel loro ciclo infinito di produzione, distribuzione e smaltimento». 

La solitudine e l’alienazione di un’impiegata quarantenne addetta al collaudo manuale di prodotti finalizzati alla vendita («Lo scherzo»); la catastrofica esperienza di decine di clienti costretti in un supermercato a causa dell’infuriare di un uragano («La ginestra»); la vicenda agro-dolce di un giovane disoccupato il quale in una discarica alle porte della città trova il lavoro e l’amore («Il custode»).

In una sapiente architettura semantica “a scala”, Turina introduce nel primo racconto gli oggetti commerciali, destinati nel secondo a essere collocati, distribuiti nel grande circuito, per poi preparare la discesa narrativa della cosalità con l’abbandono e il deperimento nell’ultimo brano. L’utilizzo del climax a lato dell’anticlimax si svolge anche all’interno del plot di ciascuno dei pezzi (mediante effetti di progressione e poi di ingerenza minoritaria dei segni-segnali prescelti).

Tuttavia il maggior interesse critico ha luogo, in base a quanto già accennato, quando il medesimo accorgimento si estende al livello superiore di struttura del libro, alla sua architettura, prendendo le mosse dalla silenziosa spietatezza de «Lo scherzo», innalzando il narrato all’apogeo della distruzione ne «La ginestra», infine sigillando una conclusione “discendente” con «Il custode». Infine, l’ambiente dove si conclude il primo brano introduce lo spazio d’azione del secondo, mentre quest’ultimo termina con una riflessione su quello che sarà l’oggetto centrale del terzo.

Insomma, sembra ancora valido l’avvertimento formulato da Umberto Eco all’alba degli anni ’70 ne Le forme del contenuto: «Una cultura, per organizzare le proprie esperienze, deve nominarle: deve cioè fare corrispondere a elementi di forma dell’espressione elementi di forma del contenuto» e, allo scopo di mantenerne intatta la reciproca efficacia, essi dovranno compiere iter di intensità parallela. 



* * *

«Lo scherzo»

Qualità significa fare le cose bene 
quando nessuno ti sta guardando.
Henry Ford

Ai tempi dei Fenici, pare che gli ispettori potessero far mozzare la mano al lavoratore carente in confronto agli standard fissati. Nel codice di Hammurabi, intorno al XVIII secolo a.C., si descriveva, invece, come dovessero essere costruite le case, indicando addirittura l’eventualità di uccidere il muratore in qualche modo inadempiente all’incarico prestabilito. Ed ecco che la vistosa garza in testa mostrata in ufficio da Felicia (picchiata dalla genitrice in pieno decadimento neurologico), e le macchie di sangue sulla scrivania dopo la violenza sessuale, corrispondono al sèma di Luis Prieto, al messaggio “indiscutibile”, al dato minimo di significante-significato: chiari segnali deviati delle ultime tracce residue di un ordinamento sociale le cui regole cruente si allargavano sino a governare il corretto andamento dell’arco produttivo.

L’incipit richiama drammaturgicamente l’esordio de I burosauri di Silvano Ambrogi, con i suoi employés statali di un’Italia pre-consumistica. Ne «Lo scherzo», al contrario, tutto appare già terminato: svanito il boom, superata la congiuntura, assorbita la protesta operaia, goduta la breve deregulation degli anni Ottanta, attraversata la monetizzazione selvaggia di inizio millennio, ormai anche le piccole aziende sono il regno dei disillusi, popolate da dipendenti sarcastici e demotivati. Il loro contatto quotidiano, lo scambio di segni tra reciproci mittenti-riceventi, è con prodotti destinati al retail commerciale di massa: nel migliore dei casi, diretti al supermercato (più di una volta sembra che lo scrittore Haruki Murakami confessasse di adorarlo, privilegiandolo come luogo di rendez-vous sentimentali, certo così di non annoiarsi); nella peggiore delle evenienze, spazi deputati diventano invece i punti vendita a prezzo fisso ceduti dalla leadership italiana sotto l’egida “mille lire” all’invasione cinese di “tutto a un euro”.

La minuscola società in cui è impiegata Felicia, e le mansioni in essa svolte, di sicuro non necessitano di una sofisticata Quality 4.0, bensì di un essenziale processo manuale capace di instaurare un semplice livello di “non conformità”. Nel racconto di Isacco Turina, la gestione di una simile impresa di grandezza ridotta è assestata su tappe storicamente risalenti agli anni Venti del ’900, quando all’interno del ciclo produttivo, di dimensioni gigantesche, si avvertì il bisogno di garantire la natura adeguata della futura mercanzia esaminandone i nodi critici tramite il test dei difetti ripetitivi, coltivando così l’obiettivo principale di separare i beni conformi da quelli non conformi. Nasceva il controllo di qualità, all’interno di un’ortodossa divisione del lavoroil nostro personaggio dovrà alla fine compilare una tabella di misure, mentre nel magazzino un’altra impiegata le inserirà nel computer.

Ecco il compito di Felicia: addetta, dinanzi a un tavolo, all’analisi dell’efficienza delle merci ricevute dai produttori, al loro check (in numero, peso, volumi, stato) prima di essere avviate alla catena distributiva. Davanti a lei si accumulano contenitori, taglieri, schiumarole, stoviglie, ciotole, spatole, forbici: da parte sua, dovrà appurare che il colapasta abbia effettivamente cinquantasei buchi, contare con meticolosità i denti della grattugia, accertare la consistenza degli oggetti in plastica. 

Turina descrive una serie di processi “qualitativi” rimasti incontaminati malgrado l’ingresso delle modalità cibernetiche, dei collegamenti di rete o logici fra macchine e computer. Lo sguardo indugia, insomma, su quei grandi flussi di articoli in arrivo verso le aree più meccanizzate e informatizzate, che risultano però ancora soggette a convalide in sostanza artigianali: in particolare, come ne «Lo scherzo», là dove l’intervento umano gestisce l’atto di verifica nonché di collaudo nella fase di accettazione delle merci dai fornitori.

Ben lungi dal costituire la ratio stessa del funzionamento dei macchinari, la qualità illustrata da Isacco Turina è sintetizzata nel Novecento maturo dalle parole di William Edwards Deming:

Il grado prevedibile di uniformità e affidabilità a basso costo e adatto al mercato.

Di per sé, Felicia – bruttina, sciatta, trascurata – non ha storie sentimentali, è sola. L’unione tecnico-semantica, espressione dell’alienazione lavorativa (nel tedesco marxiano Entäußerung; accanto a Entfremdung, “straniamento”), raggiunge un messaggio di pienezza quasi totale:

Misurava le lame dei pelapatate con metodo, come se il suo benessere dipendesse dalla loro corretta lunghezza. 

In un ulteriore stadio, di fronte alle avances di uno spregiudicato collega (il quale ha oscenamente scommesso con gli altri di conquistarla), la confusione nel decodificare il significato dei segnali a lei rivolti diviene totale:

Come i fori nei colapasta o i denti nelle grattugie, il conto dei sentimenti non tornava. Da qualche parte doveva esserci un errore di calcolo. 

Eccitata, disorientata da un semplice sorriso galante, allo scopo di rendere l’oggetto dello scambio agevolato, sostituisce le forcine tra i capelli, spalma la crema sul viso: alla fine – tanto per non tradire il contesto semiologico evocato – non può fare a meno di specchiarsi in un coperchio di alluminio.

Molti anni fa Umberto Eco sintetizzò (nell’opera già citata) una stimolante familiarità tra il contesto produttivo e la scienza dei segni: 

È certo possibile interpretare lo scambio di merci come fenomeno semiotico, ma non perché lo scambio di merci implichi scambio fisico, bensì perché nello scambio il valore d’uso della merce si trasforma in valore di scambio – e si ha dunque un processo di simbolizzazione, perfezionato poi dall’apparizione del denaro, il quale “sta” per “qualcosa d’altro”, come accade ai segni. 

«Nelle fabbriche si muore», sostiene Turina, «ma gli uffici sono inferni tiepidi». Una sera, soli al lavoro, Umberto possiede a forza Felicia. Rimanendo una traccia di sangue sulla scrivania, il giorno dopo l’amica Elisa insieme alla donna delle pulizie se ne accorge, ma la vittima minimizza alla meglio.

Una collega accusa il presunto violentatore per le macchie trovate sul tavolo. L’uomo si giustifica grazie a una battuta: «Si vede che la plastica si è messa a sanguinare…». Con sfumature profetiche, a metà anni Cinquanta, Roland Barthes in Miti d’oggi parlava dei composti sintetici nei termini di «una materia miracolosa»: la plastica come «sostanza alchimica», destinata a una «infinita trasformazione», al punto che «il mondo intero può essere plastificato, e persino la vita». Il feticismo della protagonista de «Lo scherzo» è indirizzato verso una simile “naturalizzazione” degli strumenti in polietilene e polivinile («nomi da pastore greco», rileva il famoso semiologo francese, come polistirolo e fenoplasto): ciononostante, nelle sue mani resta una materia rigida, sgraziata, «né dura né profonda». La plastica non esibisce il tintinnio acuto del vetro, la risonanza nobile del metallo, il rintocco cupo e deciso del legno: piuttosto è svelata, prosegue Barthes, «dal suono che ne esce, vuoto e insieme piatto». E tuttavia, l’itinerario stesso della plastica, pronta ad assumere mille forme e svariati colori, nelle parole sgradevoli dell’aggressore dona «l’euforia di un prestigioso scivolamento verso la natura».

In un momento della trama-intreccio, Umberto rischia di perdere il posto. Felicia acconsente al suo invito per un weekend in campagna: inaspettatamente, l’uomo la evita, preferendo giocare alle slot machines. La riaccompagna a casa, riuscendo a entrare nell’appartamento: disperato, in gravi difficoltà finanziarie, le chiede un prestito. Mentre lei piange, immobile, incapace di reagire, lui prova invano a forzare i cassetti della camera da letto per cercare soldi e gioielli: poi se ne va infuriato, senza salutarla.

L’ossatura logico-intuitiva del brano inverte la rotta figurata: Umberto viene reintegrato in virtù di una causa civile, Felicia subisce il licenziamento. Nella teoria marxiana classica, l’energia e la competenza tecnica si trasferivano sull’oggetto fabbricato sino a impoverire il soggetto in sé: ma almeno, avrebbe potuto suggerire Theodor Adorno, veniva conservata una parvenza di umanità. Qui, ne «Lo scherzo», l’alienazione trascina invece l’individuo nel gorgo profondo dell’iter produttivo fino a imporre su di esso un dato di “non conformità”: il controllo di qualità ha sortito esito negativo, il lavoratore stesso è scartato, perde valore, escluso dal circuito del denaro. Le idee che costituiscono segni accomunano esseri viventi razionali e oggetti inanimati. 

La gente osserva Felicia, seduta sulla panchina di uno shopping center. Le coppie di passaggio bisbigliano all’orecchio una parola d’intesa. Commenta Turina: 

Ognuno è libero di scegliere, pensavano, ed è del tutto normale che nessuno scelga per sé il pezzo difettoso, quello che non passerebbe il controllo di qualità. 

La donna trova conforto girovagando nel centro commerciale, maneggiando beni di poco prezzo. Lo sguardo è lucido e assente: 

In piedi davanti agli scaffali del supermercato, Felicia aveva un suo modo altalenante di spingere avanti e indietro il carrello, come fanno le madri col passeggino quando un conoscente le costringe a fermarsi. Ma quando, rovistando tra le offerte speciali, le capitavano in mano le stoviglie del suo lavoro precedente, allora inarcava le sopracciglia e diventava pensosa. Le soppesava con gesti da intenditrice, socchiudendo le palpebre. Felice e disperata, per un breve momento le sembrava di sentire ancora il contatto con Umberto, di toccare il filo invisibile che li teneva legati nell’universale comunione delle merci. 


* * *

«La ginestra»

Non c’è niente da raccontare. Non si racconta più… 
Non c’è più Madame Bovary… Il racconto è finito. 
La narrazione è il bancone del supermercato.
Paolo Volponi, 1989

Con un unico periodo di ventisette righe scandito da sole virgole e trattini – alla Walter Binni, suggerirebbe qualche critico – Isacco Turina apre il secondo racconto «La ginestra»: un exploit sintattico degno di rilievo, prologo alle successive tre-quattro pagine cui l’autore affida il proprio pensiero seguendo tracce suggestive, commerciali e letterarie, tra spunti di origine sociologica ed economica, aforismi ed emozioni, a delineare uno degli spazi reali maggiormente frequentati nel nostro vivere quotidiano: il supermercato.

È una biblioteca dei bisogni corporali e domestici in cui scegliere fra titoli e autori, così come, a sua volta, la biblioteca vera e propria è in fondo un supermercato dei bisogni dello spirito. E la quarta di copertina è sorella dell’etichetta.
[…]
Non la mancanza di viveri porrà fine alla nostra vita, ma al contrario la fine della vita decreterà per ciascuno di noi il termine dell’opulenza.

Mancano quaranta minuti alla chiusura serale del grande punto vendita sulla statale, con annesso ampio parcheggio e magazzino sul retro. La radio interna diffonde il jingle pubblicitario: “Salgono i prezzi, scende la fiducia. / Fare la spesa è diventata un’avventura. / Niente paura. / Da noi la tua spesa è sicura!”. Mentre i clienti sono in fila alle casse, il cielo diviene scuro, inizia a piovere, provocando disagi a chi esce con pacchi da sistemare in automobile. 

«Comunicazione per il personale. Amanda è desiderata in direzione». La giovane e piacente commessa, sapendo cosa l’aspetta, cammina diligente verso l’ufficio del direttore, il quale, appena chiusa la porta a chiave, comincia a spogliarla. 

In analogia all’anti-eroe di Supermarket di Mogol e Battisti, il capo del grande magazzino cerca la donna in uno dei luoghi principali del consumismo. Nel mondo globalizzato, nonché capitalista, il corpo femminile si vende quasi fosse una merce collocata sugli scaffali. Le allusive oscenità della canzone del ’71, risolte in un frustrante epilogo («scatolette colorate / carni rosa congelate / c'è di tutto intorno a me ma lei non c'è!»), nell’èra iper-globalizzata de «La ginestra» vengono assorbite come se il rapporto sessuale costituisse un acquisto ancora conveniente per entrambi i partners. L’antica dialettica servo-padrone trova qui una versione abbastanza canonica, seppure nelle istanze modernizzate dell’epoca attuale: il direttore non vuole rinunciare (a suo modo) alla sua cashier, quest’ultima riesce a dominare i propri desideri. Le medesime «questioni vegetali, di risparmio, ed anche di praticità» in grado di indurre Mogol e Battisti a far ragionare il loro uomo ritirandosi in buon ordine, qui intervengono a sancire, nell’autocoscienza reciproca, un compromesso di immoralità.

Con il diluvio in procinto di scatenarsi, il capo chiede al responsabile dei prezzi se non sia opportuno rincarare gli ombrelli. Non è il caso, pensa tra sé e sé il giovane: «Bisognerebbe fare il contrario, venderli sottocosto per ingraziarsi la clientela». È la prima di ricorrenti, piacevoli “lezioni” di economia diretta con le quali Turina alterna le vicende tragicomiche dei protagonisti: 

Un altro che non conosci acquisterà ciò che tu non hai comprato. Le vostre mosse si completeranno a vicenda. Che tutti escano senza acquistare non è un evento impossibile: è addirittura impensabile.

Eventualità tuttavia prospettata dallo stesso Marx con una celebre definizione in avvio del Capitale:

Prima metamorfosi della merce, ossia vendita. Il salto del valore della merce dal corpo della merce nel corpo dell'oro è il "salto mortale" della merce, come l'ho definito in altro luogo. Certo, se non riesce, non è alla merce che va male, ma al possessore della merce. 

In sintonia a un regista teatrale, il nostro scrittore arricchisce il cast della narrazione introducendo ulteriori characters: irrompono due contestatori allo scopo di eseguire un boicottaggio, il vigilante sorprende un paio di ladruncoli, un vagabondo, in compagnia del fedele cane, guadagna rifugio nell’atrio. 

Un fragore enorme spaventa tutti quanti: un grosso ramo di platano nel parcheggio, divelto e abbattuto dal vento addosso alla parete di vetro, ha ferito una persona. Intanto, numerose fronde volanti colpiscono le autovetture in sosta. Gli acquirenti, preoccupati, cominciano a rendersi conto dell’infuriare, lì fuori, dell’uragano: nell’ultima mezz’ora nessuno è potuto entrare né uscire.

Le lancette dell’orologio avanzano, la gente è bloccata all’interno dei locali. Pochi anni fa il magistrato Gianrico Carofiglio, nel romanzo Il bordo vertiginoso delle cose, ha annotato: 

Quando fui nel supermercato provai una sensazione molto strana, che mi è capitata pochissime altre volte nella vita. La percezione di essere a uno snodo del tempo, superato il quale niente sarebbe stato lo stesso. 

Nessuno si reca più a pagare, le cassiere abbandonano il posto andando a fumare. I ladruncoli riempiono la borsa di dolciumi e bibite sotto gli occhi del detective inerme. Gli addetti al banco della gastronomia gareggiano lanciando cubetti di formaggio dentro un cappello, osservati dai clienti divertiti che li imitano giocando a bocce con le arance. Le esagerazioni del consumo viaggiano velocemente verso gli abissi dello spreco.

È ora di cena. Gli avventori stappano bottiglie di spumante, prendono cibo dagli scaffali, dalle olive ai grissini: «Qui le persone si portano via la roba», riferiscono al capo. 

È come se l’idea del supermercato raggiungesse solo ora il suo compimento perfetto. Liberati della fatica di scegliere, i clienti possono avere tutto, o almeno tutto ciò che possono usare sul momento. Perché angosciarsi per la burrasca? È il momento di gioire, di sfruttare, di sprecare.

Ricordo una famosa definizione del consumismo espressa nel 1955 dall’economista statunitense Victor Lebow:

La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, di trasformare l'acquisto e l'uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. [...] Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore. Abbiamo bisogno di gente che mangi, beva, vesta, viaggi, viva, in un consumismo sempre più complicato e, di conseguenza, sempre più costoso.

Nel parcheggio, sacchi di spazzatura rotolano via, i cartelli stradali sono piegati: davanti all’ingresso, crolla di schianto la pesante insegna al neon larga circa sette metri. «Ecco, ora non abbiamo più neanche un nome», sintetizza con efficacia una commessa, alludendo forse a una punizione divina priva di motivi, un castigo senza ragioni appropriate.

A sera ormai inoltrata, la temperatura scende: nell’impossibilità di tornare a casa, si scatena la corsa all’accaparramento di vestiti e magliette. L’aria condizionata, sempre attiva, non può essere spenta: si cercano coperte per la notte. La guardia, dopo aver aperto la cassaforte e rapinato i trentamila euro di incasso del giorno e i gioielli di famiglia, sfidando il maltempo fugge sul muletto.

Il responsabile, come dire, “di ronda”, incontra clienti-zombie, intenti a guidare il carrello nelle corsie, insonnoliti. Lo sfacelo è completo: fuori, auto capovolte, edifici scoperchiati, alberi sradicati; dentro, bottiglie di vodka, piatti con prosciutto, olive, formaggio. Le commesse bivaccano, qualcuno si ubriaca. 

L’immaginazione di Isacco Turina riesce quasi a dettagliare in singoli episodi, atti e personaggi, i flashes improvvisi, le illuminazioni deliranti con cui Allen Ginsberg accompagnava il vegliardo Walt Whitman in un super store californiano nelle pagine di Jukebox all’idrogeno

Nella mia fatica affamata, e per comprare immagini, entrai nel supermarket di frutta al neon […]. Che pesche e che penombre! Intere famiglie a far provviste la sera! Corridoi pieni di mariti! Mogli negli avocados, bambini nei pomodori! […]. Ti ho visto, Walt Whitman, senza figli, vecchio mangione solitario, a frugare fra le carni nel frigorifero e occhieggiare i garzoni del droghiere. Ti ho udito fare domande a ciascuno: Chi ha ucciso le cotolette di porco? Quanto costano le banane? […]. Ho girato fra le pile di scatolame luccicanti seguendoti, e seguito nell’immaginazione dal poliziotto del mercato. Abbiamo camminato insieme lungo i passaggi aperti nella nostra fantasia solitaria assaggiando carciofi, possedendo ogni leccornia congelata, e senza mai passare davanti al cassiere.

Turina mette in scena, nella parte centrale del plot, una sorta di psicodramma ispirato ai concetti espressi da Marc Augé nel 1992 (poi corretti) rispetto alla definizione di “non-luogo”. L’antropologo francese affermava: 

Alcuni anni fa, ho utilizzato il termine «nonluoghi» per designare quegli spazi della circolazione, del consumo e della comunicazione che si stanno diffondendo e moltiplicando su tutta la superficie del pianeta. Ai miei occhi, questi nonluoghi erano spazi della provvisorietà e del passaggio, spazi attraverso cui non si potevano decifrare né relazioni sociali, né storie condivise, né segni di appartenenza collettiva. 

Augé pensava ad alberghi, parcheggi attrezzati lungo le autostrade, grandi magazzini, supermercati: intervalli anonimi, stereotipati, adoperati per usi molteplici, scarsi nella storicità, frequentati da una folla freneticamente in transito, che non si relaziona (con lui, Zygmunt Bauman in Modernità liquida sintetizzava: «spazio privo delle espressioni simboliche di identità, relazioni e storia»). Precisa Isacco Turina:

Le persone qui dentro sono un popolo disperso e muto, tremendamente muto. Le merci, dal canto loro, formano invece un’armata compatta e loquace.

A lato, procede l’altro neologismo “super-luogo”, elemento della medesima natura ma munito di dimensioni tali da non potersi integrare con i centri urbani: le fiere, i giganteschi shopping malls, gli aeroporti, le stazioni dell’alta velocità ferroviaria, gli stadi, i parchi a tema.

Nel pensiero iniziale di Augé, il non-lieu è incrocio di mobilità dove il rapporto principale si snoda fra luogo e individuo, non tra i vari soggetti all’interno. L’inversione di tendenza avviene intorno al 2010, quando il sociologo ammette che il “non-luogo” potrebbe diventare “un luogo” per qualcuno: si tratta quindi, di una differenza di atteggiamento e non di sostanza.

È evidente che una qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo. Non esistono luoghi o non luoghi in senso assoluto. Il luogo degli uni può essere il non luogo degli altri e viceversa

Nel racconto «La ginestra», una simile revisione sociologica viene drammatizzata ed esposta nella coesione di spazio-tempo, delegando invece all’azione il compito di stravolgere le premesse: avviato a una tranquilla routine di chiusura, in gesti e comandi ripetuti, nutrito dello standard liberamente alienato del consumatore medio, alimentato dalla solitudine dei dipendenti, il vasto point of sale diviene in breve una zona a elevata concentrazione di comportamenti, discorsi, sentimenti, legami conflittuali, incontri di destini, drammi privati, decisioni frettolose, calcoli sbagliati.

Accanto ai frigoriferi, un uomo e una donna litigano furiosi: lui, il camionista, tiene in mano una bottiglia, lei, addetta alle promozioni, un piatto. Erano amanti, ora si minacciano ferocemente. Gli avventori riescono a dividerli impedendo che vengano a contatto. Più tardi, il ragazzo della gastronomia forza la porta del bagno, scoprendo il cadavere della donna, soffocata da un sacchetto di plastica. 

Gli acquirenti vaneggiano, alcuni perdono la ragione: i teppisti salgono sul muletto, guidandolo come fossero agli autoscontri. Le perturbazioni proseguono con vento forte, tuoni, scrosci d’acqua; l’umidità penetra nel supermercato, i lampi illuminano sinistri l’interno buio. Subito dopo l’apparente segnale del disastro incombente, preannunciato dagli estremi antitetici dell’allagamento e dell’incendio, e il gesto pacificatore di un bambino che rimette a posto le scatole di caramelle finora tenute per sé, un inserviente comunica la notizia al capo: il temporale è cessato. 

Sorge un’alba priva di vento e senza pioggia, ma sulla grande spianata si contano arbusti divelti e uccelli morti. I clienti fanno colazione: caffè solubile, latte, yogurt, biscotti, «colti dagli scaffali come frutti dai rami». Alla fine arrivano i pompieri.

Due persone in camice bianco spingono in barella il corpo della donna uccisa, coperta da un lenzuolo. Un camioncino entra nel parcheggio chiedendo se quello sia lo shopping center “La Ginestra”. Avrebbe dovuto consegnare duemila mazzi di ginestre ordinati per la “festa della fioritura”, da donare al pubblico: però il festeggiamento è rimandato, e il corriere torna indietro carico di omaggi floreali.

In un efficace coup de théâtre, Turina ha rivelato finalmente il nome del supermarket, nascosto anche durante l’episodio della caduta dell’insegna, ma con astuzia, o meglio, sapiente strategia narrativa, esposto sin dal titolo. Il fiore di leopardiana memoria, capace di crescere sulla lava pietrificata del vulcano, di sopportarne le dure, letali intemperie, emblema di resistenza della natura alla natura stessa, svela a ritroso il significato dell’effetto distruttivo degli agenti atmosferici sull’opera umana:

Perché la natura dovrebbe accanirsi a sfiancare così il loro rifugio sulla terra fino ad annientarlo? Il supermercato non è stato sempre un recinto sicuro, una baia confortevole dove trascinarsi per ore vivendo l’ebbrezza di sentirsi padroni del mondo e di tutto ciò che ha da offrire? Cosa può esserci di male in questo agio innocente? Perché tanta rabbia? 

Alan Weisman, scrittore, saggista statunitense del ’900, avvertiva: «La natura si sta già vendicando». Assai prima dell’avvento del consumismo e dell’attenzione all’ecologia, l’interesse di Karl Marx e Friedrich Engels per i rapporti uomo-habitat si risolveva nello stabilire come la salvezza del pianeta non risultasse compatibile con un’economia capitalistica. Il ragionamento appartiene soprattutto a Engels nel manoscritto del giugno 1876 che confluirà nella Dialettica della natura

L’animale si limita ad usufruire della natura esterna, ed apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza fra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria sulla natura; la natura si vendica di ogni nostra vittoria.

Oltre un secolo e mezzo dopo, la cronaca di un recente episodio sembra fare da didascalia a quanto elaborato dal filosofo. Sul litorale domiziano, Bagnara di Castel Volturno è stato per molto il simbolo dell’abusivismo edilizio. Ma all’arrivo delle ruspe, a demolire appartamenti costruiti a pochi metri dalla battigia, lo scenario appariva quello di un posto bombardato: solo che a colpire case e villette fuorilegge era stata l’acqua. La natura ha riscattato gli arbìtri compiuti dagli uomini: nei decenni, l’andirivieni delle onde ha indebolito, corroso, buttato giù pareti, stanze, tetti. Avanzando negli anni, il mare ha ripreso il territorio occupato.

Di fronte al cartellone crollato, il ragazzo dell’inventario riflette: 

C’è un qualcosa di perverso quando si dice “amare la natura”. Perché non può ricambiare. 

Chi meritava la salvezza è stato risparmiato: sono le specie animali che, da vive, ospiti casuali, comunque indesiderati, hanno ottenuto scampo alla gigantesca trappola del supermercato. Qua e là nel racconto, sbuca un topolino da uno scaffale, un maiale sopravvive al rovesciamento del camion installandosi nell’atrio, il cane dello homeless dorme all’ingresso. Una rondine, fino a quel momento imprigionata nel magazzino, trova la via d’uscita e sfreccia libera, attraverso la porta, su nel cielo.


* * *

«Il custode»

– Papà, è arrivato l’uomo della spazzatura…
– Digli che non ne vogliamo…
Groucho Marx

Consigliato dalla fidanzata Lelia, insieme alla quale convive, un giovane magazziniere accetta di recarsi dallo psicologo che, al termine della visita, con bella calligrafia, sul foglio intestato scrive la parola “alienazione”. Licenziato dal lavoro, grazie alla compagna, parrucchiera in un beauty center, ottiene un incontro con il responsabile della comunicazione al municipio: 

– È un lavoro sporco.
– Illegale?
– No no, proprio sporco, in senso letterale. Eppure molto utile, la città non potrebbe farne a meno.

Il burocrate, indirizzando il neo-disoccupato alle mansioni di custode di una vasta discarica appena fuori il centro urbano, di ragioni ne possiede in gran quantità. Ha sostenuto di recente l’antropologa statunitense Robin Nagle:

I netturbini sono i veri sacerdoti del consumismo, solo la loro esistenza garantisce che la nostra folle corsa verso l’uso delle cose materiali possa continuare. Immaginiamo di essere costretti a tenerci quello che abbiamo, di non poter più buttare via nulla. È chiaro che si fermerebbe tutto

L’ultima story, dal titolo «Il custode», conduce il lettore nello stadio conclusivo dell’iter economico delle merci. Esso consiste, nel migliore dei casi, nelle circostanze auspicate dallo stesso capitalismo di organizzazione mediante due forme principali di smaltimento. 

Innanzitutto il riciclo, capace di consentire, tramite la raccolta differenziata, di trasformare gli scarti in materie prime secondarie: la mercanzia, come la Fenice, rinasce dalle proprie ceneri; viene decomposta creando distinti oggetti in grado di assumere a loro volta lo statuto di merce. In secondo luogo, l’avvio all’incenerimento generalizzato: in vista della distruzione programmata, la merce subisce uno stato di abbandono in aree appositamente create. Una terza sorte è nel riuso, non ufficializzato in scala amministrativa locale o nazionale perché emarginato dal circuito dell’economia, in quanto gestito in misura perlopiù personale, familiare: alternativo al concetto di “usa e getta”, si attua se le funzioni per cui è stato creato il prodotto sono riconsiderate alla luce di un nuovo, originale utilizzo, spesso in un contesto privato, che comunque lo mantiene al di fuori del mercato. 

Il racconto di Turina procede tra due estremi, il primo legato al polo esecutivo o amministrativo, il secondo affidato all’inventiva e all’intraprendenza del singolo: da un lato il business dello scarico indifferenziato a cielo aperto, nemico della sostenibilità ambientale e della collettività in genere, pur in grado di indurre profitti impensabili a chi lo governa; dall’altro il riutilizzo degli elementi medesimi della discarica, scelti accuratamente dal neo-guardiano, sottratti alla combustione per essere ricollocati da utensili e mobilio all’interno della casetta (una scarpiera, un vaso porta ombrelli).

Il protagonista si incammina verso l’indirizzo prestabilito per il colloquio preliminare, incrociando una parte della periferia dove alloggia un gruppo di outsiders, un accampamento in mezzo agli alberi dotato di tende improvvisate; intanto, nelle ultime propaggini abitate, fra distributori di benzina obsoleti e strade prive di marciapiede, avviene uno scontro tra residenti abusivi e forze dell’ordine. 

La descrizione dell’avvicinamento ha qualcosa di epico, nell’impiego della figura retorica dell’iperbole laddove, forse, l’aspettativa scontata sarebbe un understatement d’occasione:

Un esperimento di scarico selvaggio sul pendio di un fossato stagnante lasciava presagire la grandezza di quello verso il quale mi incamminavo, come un ramoscello cresciuto casualmente da una ghianda preannuncia la quercia enorme che si innalza a breve distanza. La discarica allargava i suoi rami sul territorio circostante; i rami e anche l’odore, che ben presto cominciai a percepire. Un nugolo di uccelli scuri volteggiava a circa un chilometro da dove mi trovavo, e certo non stava corteggiando un campo di grano. Si intuiva una depressione, poiché gli uccelli, scendendo in picchiata, sparivano dalla visuale per riaffiorare poi in altri punti.

Di nuovo a casa, l’anti-eroe comprende come la relationship con Lelia sia ormai giunta all’epilogo: freddezza nei gesti, sospetti di tradimento, dialoghi prosciugati dal disinteresse reciproco, non alimentati dall’amore. Intanto, nelle visite al nuovo posto di lavoro in prossimità della data di assunzione, conosce una fanciulla dolce, dimessa, dal cognome inusuale Congliocchi. I due si frequentano, fino a quando la ragazza accetta di andare a convivere nella piccola casa arredata dentro il sito, accanto al passaggio a livello dove giorno e notte, a pause regolari, i camion entrano per rovesciare dai loro cassoni tonnellate di rifiuti.

Qui il racconto di Isacco Turina ricorre a un segnale narrativo esplicito a riprova dell’unione spazio-tempo accennata in principio: un intero convoglio di autocarri riversa la roba marcia del supermercato allagato e incendiato il mese precedente («La ginestra»); durante la manovra, da un ribaltabile aperto sporgono stoviglie da cucina, una grattugia di plastica, un colapasta (gli oggetti-feticcio de «Lo scherzo»). Stabilendo una priorità cronologica nel contenuto-messaggio dei tre brani (produrre, vendere, distruggere), è delineata una geografia della merce, una mappa delle fasi di vita situate tra loro a pochi chilometri: l’ufficio collaudi, la vendita al dettaglio, lo smaltimento. 

In uno dei rari giri di ispezione nelle ore buie lungo il vasto perimetro, aiutato dal chiarore della torcia, il custode individua un varco nella recinzione: da lì alcuni extra-comunitari, giunta l’oscurità, scelgono e portano via fasci di lamiere, traversine, arnesi di metallo. Il giovane li scopre, non trovando però il coraggio di denunciare l’accaduto, poiché comprende come, con quei furti e il conseguente commercio illecito, sopravviva un’intera famiglia con bambini.

Turina non è un “apocalittico”: ritiene anche lui il trash metafora della modernità, ma non sino al punto di affermare, in sintonia a Susanna Tamaro:

Quello che abbiamo dentro è là fuori. Non coltiviamo giardini perché in noi non c'è più pace, non c'è più bellezza. La spazzatura è lo specchio di una cultura che consuma, di una cultura crudele, agitata, cinica che produce spazzatura interiore, che si trasforma in tonnellate di spazzatura reale.

Lo sguardo del nostro autore non è però nemmeno quello di un “integrato”: raccogliere, concentrare ed eliminare l’immondizia continuerà sempre a essere un «lavoro sporco». Le immagini provenienti dall’Africa e dall’Asia “incorniciano” tragicamente, in qualche modo, gli eventi delle trame-intreccio di Turina. 

Il triste primato appartiene ad Agbogbloshie ad Accra, in Ghana, la maggiore discarica di rifiuti elettronici: arrivano cellulari, computer, frigoriferi, forni, lavatrici, lavastoviglie da tutto il Pianeta. Gli items elettrici di scarto del contesto industrializzato si concentrano a Old Seelampur, vicino a Delhi, e nella metropoli cinese di Guyu. Sono centri nei quali vivono centinaia, migliaia di miserabili alla ricerca di articoli di qualche pregio, in specie ragazzini in età scolare sottratti a forza all’istruzione. Tra gli imponenti dump sites del mondo citiamo Mbeubeuss a nord di Dakar (Senegal), Awotan a Ibadan (Nigeria), Dandora a Nairobi (Kenya), Bantar Gebang tip a Bekasi (Indonesia), Deonar dump a Mumbai (India). Un quadro reale evocato in chiave profetica da Italo Calvino ne Le città invisibili descrivendo le due facce di Leonia, agglomerati urbani paralleli: la città ogni mattina rinnovata, tersa, lucida, e accanto la montagna di garbage del giorno antecedente. 

A Brasilia, con il mostro chiamato Lixao Estrutural, si trova il più esteso dei siti illegali en plein air: grande quanto un paese, alto come un grattacielo di cinquantacinque piani, da alcuni mesi è stato chiuso definitivamente. In cambio, il governo ha offerto un impiego agli adulti e borse di studio ai minorenni. I settantasei ettari sono entrati in fase di bonifica: in un paio di anni, diventerà una montagna dove sorgerà un parco per l’intera capitale.

La storia d’amore del custode procede bene, ma non rimuove la preoccupazione relativa alle conseguenze del gesto di bontà: non aver denunciato i furti potrebbe costargli il posto. Uno degli autisti lo avverte che la vicenda è ormai risaputa. Poco dopo, il responsabile gli comunica il licenziamento.

Quella notte, invece del solito camion, al di là della sbarra lampeggiano i fari di un’autovettura di lusso, scura e misteriosa. Ne scende, solenne, il «dio della spazzatura», il proprietario dell’«immensa distesa di schifezze». Il ragazzo gli va subito incontro: 

– Sono davvero pentito, so che mi sono comportato da imbecille. Mi scuso, non avrei dovuto, è stato…
– Voglio essere franco con te: hai combinato un bel casino. Fosse per me ti licenzierei. Ma per questa volta ti andrà bene. E non per merito tuo. Comunque non è per questo che sono venuto. Volevo salutare mia figlia.

La ragazza, uscita di casa, abbraccia il genitore. Poi l’uomo si rivolge al proprio dipendente:

– Comunque sia, tu puoi rimanere. Ma ti dico fin da subito che nel giro di due anni qui cambieremo tutto. Mi sono stancato di queste schifezze, e poi danno troppe grane. Seppelliremo i rifiuti e ci faremo sopra un parco pubblico. Sono in trattative con il comune.
– Seppellire i rifiuti? Così, sottoterra?
– Figlio mio, sì. Nel giro di un milione di anni – o di dieci, non importa – la terra avrà digerito anche questo boccone amaro.

Di nuovo in casa, la giovane guarda il compagno negli occhi: 

– Il bambino avrà un parco dove giocare.

Ma sulla natura di happy ending di una simile conclusione, lo stesso Isacco Turina sembra essere il primo a nutrire seri dubbi.


(Settembre 2019)


Bibliografia

  • Augé, Marc, «I nuovi confini dei nonluoghi», Corriere della Sera, Milano, 12 luglio 2010.
  • Barthes, RolandMiti d’oggi, trad. Lidia Lonzi, Einaudi, Torino 1974.
  • Engels, FriedrichDialettica della natura, in Engels, Friedrich e Marx, KarlOpere complete, vol. 25, a cura di Fausto Codino, Editori Riuniti, Roma 1974.
  • Ginsberg, Allen, «A Supermarket in California», in Id.Jukebox all’idrogeno, trad. Fernanda Pivano, Mondadori, Milano 1965.
  • Lebow, Victor, «Price Competition in 1955», Journal of Retailing, Spring 1955. 
  • Marx, KarlIl Capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, sez. I, a cura di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1970.





3 commenti:

  1. Bellissima recensione di Cinzia Baldazzi.Complimenti! Leggerò il libro.

    RispondiElimina
  2. Cinzia Cara, come sempre la tua recensione approfondita e appassionata mi ha fatto "calare in profondità" nelle tre storie, coinvolgendomi emotivamente con tutta l'anima. Grazie!!! La frase finale: è da brivido e, come Tu ben precisi, non è affatto un happy ending...

    RispondiElimina
  3. In questa lettura dei tre stimolanti racconti di Isacco Turina, Cinzia Baldazzi entra nei gangli della cultura contemporanea fondata sulla produzione e sul consumo delle merci, distruggendo ogni cosa. La salvezza del pianeta, e dunque di noi stessi, può risultare compatibile con un'economia capitalistica? E questa la domanda di fondo. Un problema, a mio parere, di natura morale e non economica. L'uomo infatti non può rispettare la natura (e dunque se stesso) se non riesce a far girare i propri meccanismi psichici secondo ingranaggi naturali. Ciò non significa auspicare un ritorno al passato, al tempo in cui l'ecologia non esisteva (neppure come termine) per il semplice motivo che materialismo e progresso tecnologico non avevano ancora raggiunto gli allarmanti livelli attuali. Purtroppo occorre il caos per poter riflettere sull'ordine; occorre porre in discussione le leggi per poter tornare agli equilibri del creato.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina