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12 febbraio 2024

«In treatment: frammenti narrativi di alcuni scenari psicoterapeutici» di Valter Santilli

 

Johannes Vermeer. Ragazza con l'orecchino di perla (1665 ca.)


Anni fa ebbi l’occasione di guardare alcune scene degli episodi italiani del serial televisivo In Treatment, provai una sensazione di noia e di fastidio come quando vidi alcune scene de Il Grande Fratello. In entrambi i casi provai la sensazione di essere un passivo voyeur al quale si voleva far credere che quello a cui stava assistendo fosse, seppure virtualmente, la rappresentazione vera e intima di ciò che è la realtà umana. Mi sembrava eclatante l’imbroglio di far passare quella storia televisiva, affetta dall’ambizione di descrivere nei tempi dello ‘spettacolo’, per ciò che accade quando una persona decide di andare in treatment, come se fosse la rappresentazione documentaria della reale esperienza di questo tipo di cura. Confesso che la finzione teatrale, con tutte le grossolane inesattezze, mi aveva profondamente deluso: ho sentito il fastidio che si prova quando sperimentiamo che qualcuno o qualcosa invade il nostro mondo. In questo caso, essendo ‘del mestiere’, uno spazio professionale che ritengo anche uno spazio ‘privato’ che appartiene al paziente e al terapeuta. Mi sembrava un illecito azzardo voler svelare pubblicamente la qualità di quegli incontri, contenitori di realtà psicologiche ed esistenziali che scaturiscono direttamente dalla ‘relazione terapeutica’: una delle forme radicali ed essenziali di comunicazione interpersonale. La visione di questa pretesa filmica era simile alla visione di certe scene puramente carnali, o esplicitamente pornografiche, che vorrebbero convincere colui che guarda che quello che viene mostrato è la reale esperienza di due o più esseri umani che fanno l’amore. Quello che mi pare emerga, nonostante l’interesse e la curiosità che a suo tempo il serial era riuscito a suscitare nel pubblico televisivo, è la pretesa di rendere pubblico ciò che accade nella stanza dove due o più persone si impegnano, con ruoli e funzioni diversi, in una esperienza di relazione che socialmente e scientificamente viene riconosciuta come ‘trattamento psicoterapeutico’, in questa definizione includo anche la pratica della psicoanalisi, sebbene essa abbia le sue specificità. 

 

Passò del tempo prima che io riconsiderassi il serial In Treatment e avessi una specie di illuminazione cognitiva: riuscii a comprendere che quella vista in tv non avrebbe mai potuto essere quello che ‘veramente’ è la psicoterapia. Compresi finalmente che quegli episodi televisivi erano una rappresentazione teatrale tratta da un copione ispirato a reali esperienze cliniche ed esistenziali. Perché io avessi questo insight fu determinante la lettura di alcune pagine di un importante lavoro di André Green: La déliaison. In questo brillante saggio l’autore, in un capitolo che ha come titolo «Il teatro dell’illusione e la scena sociale», ricorda che a Freud si aprirono le porte di alcuni contenuti fondanti la psicoanalisi dopo aver casualmente assistito a Parigi alla rappresentazione della tragedia Edipo re di Sofocle. Nel 1885 Freud per un semestre frequenta come ‘borsista’ le lezioni di Charcot, presso l’ospedale La Salpêtrière. Green in un capitolo del suo saggio riporta i contenuti di una lettera di Freud datata 15.10.1897, indirizzata a Wilhelm Fliess, dove riferendosi alla tragedia di Sofocle parla del teatro e della tragedia come di uno spazio del mondo esterno in cui il ‘teatro privato’ del mondo interno si realizza. 

24 luglio 2022

«“Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci” di André Green. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Medico e psicoterapeuta, Valter Santilli è docente presso la Scuola di Ipnosi e Psicoterapia Ericksoniana (S.I.I.P.E./Roma). Ha curato con Camillo Loriedo la pubblicazione del volume La relazione terapeutica (Franco Angeli, 2000). Le sue più recenti pubblicazioni sono: Il terapeuta in gioco. Tra arte, letteratura e psicoterapia(Carabba, 2013); con Antonello Carusi, Laing R.D., L’ombra del maestro (Alpes, 2015). Ha curato l’edizione italiana del libro di Gabrielle Rubin Il romanzo familiare di Freud (Alpes, 2018). Scrive periodicamente su questo blog, sul quale ha pubblicato «Le complesse oscurità dell’Edipo Re», un commento alla rappresentazione teatrale di Robert Wilson, 2018, e due brevi saggi su Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci di Sigmund Freud (Parte 1, 2019; Parte 2, 2020). 

 

Doriano FasoliÈ stata pubblicata dall’editore Alpes, nel maggio 2022, la traduzione italiana del libro di André Green Rivelazioni dell’incompiuto. Leonardo da Vinci. Chiedo al curatore dell’edizione italiana, Valter Santilli, non solo di introdurci ai temi principali del libro, ma anche di parlarci della genesi di questo progetto editoriale.

 

Valter SantilliGrazie Doriano, rispondo volentieri alle tue sollecitazioni. Il libro di André Green Révélations de l’inachèvement. Léonard de Vinci era uno dei pochi libri del famoso psicoanalista francese non ancora pubblicati in italiano. La pubblicazione italiana arriva nel decennale della scomparsa di Green e vuole essere anche un omaggio a questo grande psicoanalista, autore prolifico di saggi che hanno esplorato non solo nuovi territori della ‘cura’ ma anche nuove aree del ‘sapere interdisciplinare’.

 

Il progetto di traduzione di questo libro, bello e misconosciuto, nasce grazie alla virtuosa sintonia che nel 2020 si è creata con Lorena Preta, che ha scritto una intensa e densa prefazione a questa edizione italiana del libro, e con Andrea Baldassarro, che stava progettando una nuova collana editoriale, chiamata «Sconfinamenti». Venni a saper di questo libro quando lessi il contributo di Lorena Preta nel libro curato da Baldassarro La passione del negativo,omaggio al pensiero di André Green, pubblicato da Franco Angeli nel 2018. Mi incuriosirono molto le citazioni di Lorena Preta da questo testo di Green. Con qualche difficoltà riuscii poi ad averne una copia e quando lo lessi mi catturò talmente che proposi sia a Baldassarro che a Preta la pubblicazione in italiano. 

22 maggio 2020

«Su “Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 2)» di Valter Santilli


Leonardo da Vinci, Cartone di sant'Anna, 1499-1500,
gessetto nero, biacca e sfumino su carta, Londra, National Gallery




L’errore di Leonardo: «Mercoledì a ore 7 morì ser Piero da Vinci […]. Mercoledì vicino alle 7 ore».


Nel quinto capitolo del saggio su Leonardo, Freud analizza il rapporto che Leonardo, artista e scienziato, ebbe con la figura paterna. Egli riporta pertanto una breve nota scritta su uno dei diari leonardeschi, un’annotazione importante per il contenuto e interessante per la forma tanto da suscitare l’attenzione dello psicoanalista; la piccola nota contiene un «minuscolo errore formale». Leonardo nel mese di luglio del 1504 annota giorno, mese, anno e ora della morte di suo padre, Ser Piero da Vinci, di anni 80; egli annota inoltre il numero dei figli che l’anziano padre lasciava «10 figlioli maschi e 2 femmine».

«Il piccolo errore formale consiste nel fatto che l’indicazione di tempo “a ore 7” viene ripetuta due volte». Freud in prima battuta commenta il «minuscolo errore» di Leonardo come fosse stata la comprensibile distrazione di un figlio mentre appuntava l’ora della morte del padre, ma subito non trattiene l’interpretazione psicoanalitica e addebita l’errore alla inibizione affettiva di Leonardo nei confronti di suo padre. Liberato da questa inibizione, scrive Freud, Leonardo avrebbe voluto o potuto scrivere: «Oggi alle ore 7 è morto mio padre, Ser Piero da Vinci, povero padre mio!».

È certo che il padre di Leonardo ebbe «un ruolo importante nella sua evoluzione psicosessuale». Freud delinea sinteticamente un bel ritratto di Ser Piero da Vinci: «fu uomo di grande forza vitale che raggiunse stima ed agiatezza». Sottolinea con enfasi gli aspetti socialmente volitivi e umanamente virili di questo «notaio discendente di notai»:

Si sposò quattro volte, le prime due mogli gli morirono senza figlioli e solo dalla terza ebbe nel 1476 il primo figlio legittimo, quando Leonardo aveva già ventiquattr’anni […]; con la quarta e ultima moglie, che sposò già cinquantenne, generò altri nove figli e due figlie.

Curioso destino familiare quello di Leonardo: fino all’età di ventiquattro anni egli fu l’unico figlio, ma illegittimo, di un agiato notaio fiorentino. La condizione di illegittimità negli ambienti urbani borghesi era allora causa di svantaggi sociali: ad esempio un figlio illegittimo non avrebbe mai potuto accedere agli studi umanistici ordinari, e Leonardo, nel caso, non sarebbe mai potuto diventare a sua volta notaio, come da tradizione familiare. All’età di 17 anni il padre con acume aveva riconosciuto in lui una inclinazione artistica e lo aveva indirizzato verso lo studio delle arti e delle tecniche. Il giovane Leonardo venne per questo affidato alla bottega di Andrea Verrocchio, una delle più rinomate della città di Firenze. La città era allora governata dal giovane Lorenzo dei Medici detto il Magnifico per la disposizione che aveva verso le arti e per lo sfarzo dei suoi costumi. Firenze stava vivendo un’età d’oro: la città era non solo la culla del Rinascimento delle arti e delle lettere, ma anche il luogo privilegiato dove gli architetti e gli artigiani iniziavano a sperimentare nella loro pratica delle nuove tecniche, le più varie. Il mondo non piangerà certo Leonardo da Vinci ‘mancato notaio’.

29 settembre 2019

«Su “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” di Sigmund Freud (Parte 1)» di Valter Santilli



Francesco Melzi (1493-1570), Ritratto di Leonardo da Vinci, gesso rosso, Royal Collection Trust 


Tempo fa lessi un libro di Thomas H. Ogden, Il leggere creativo. Sul retro di copertina della edizione italiana è scritto che nel volume sono stati raccolti i lavori che l’autorevole psicoanalista americano «ha dedicato all’esperienza del leggere creativamente». 

Il libro è composto da una raccolta di saggi su «fondamentali lavori» di autori psicoanalitici di grande rilievo e tra essi è compreso, naturalmente, un lavoro fondamentale di Freud, «Lutto e melanconia». 

Lo stile dello scritto di Ogden sull’esperienza del leggere creativamente è rigoroso, ed in parte richiama lo stile impegnato degli esercizi scolastici di parafrasi di testi letterari fondamentali. Quella di Ogden è un tipo di creativa parafrasi che illumina e arricchisce i testi che sono stati oggetto del suo appassionante studio, così come viene descritto nei dizionari: «Esposizione di un testo […] spesso accompagnata da sviluppi o chiarimenti». 

Nell’introduzione del libro l’autore descrive la sua esperienza di lettura creativa che fa da fondamenta alla sua scrittura creativa: Thomas Ogden leggendo e scrivendo creativamente cerca di rimanere il più possibile fedele agli scritti dell’autore letto. Lo psicoanalista americano chiarisce che ha trattato lo stile di scrittura e il contenuto ideativo dei saggi di ciascun autore come «due qualità di una entità singola», ed esplicita che quel determinato saggio scritto da quell’autore, con lo stile particolare che lo contraddistingue, non si potrebbe scrivere diversamente perché «dire qualcosa diversamente è dire qualcosa di diverso». 

A proposito di bravi scrittori e di buoni lettori un grande scrittore, nonché autorevole critico letterario, Vladimir Nabokov, in Lectures on Literature, pubblicate postume, scrive che «non si legge un libro, un libro lo si può solo rileggere. Un buon lettore, un grande lettore, un lettore attivo e creativo è un rilettore». Per marcare quindi l’esperienza intellettuale del «leggere», Nabokov specifica che «un libro di qualunque genere esso sia – opera narrativa oppure opera scientifica – interessa per prima cosa la mente»

Nella «Introduzione» al saggio di Freud «Lutto e malinconia»Ogden riporta una particolare frase del testo la cui lettura rende «impossibile separare le idee dalla scrittura»

Il commento che egli fa di questa frase particolare è che: «Lo scritto è denso – una grande quantità di pensiero è contenuta nell’atto stesso di scrivere poche parole». Mi pare che la stessa definizione, sebbene molto sintetica, possa applicarsi al testo di Freud su Leonardo da Vinci. 

14 ottobre 2018

«Le complesse oscurità dell’“Edipo Re”» di Valter Santilli



La rappresentazione dell'Edipo re vista l'8 luglio, in prima mondiale, nella suggestiva e straordinaria cornice del Teatro Grande di Pompei – pieno di un pubblico giovane – non è propriamente la rappresentazione testuale della tragedia scritta da Sofocle, essa è certamente la pregevole realizzazione teatrale di un grande regista, Robert Wilson, considerato tra i più importanti artisti visuali e teatrali al mondo. Wilson ha rivolto il suo sguardo e la sua creativa sensibilità all'antico mito/leggenda del re Edipo. Wilson con linguaggio artistico multisensoriale/sinestesico, poliglotta e multiculturale, particolarmente espressivo, propone al pubblico un originale 'evento teatrale', uno spettacolo di grande potenza evocativa, fatto di danza, musica e poesia. Lo spettacolo è ispirato alla tragedia Edipo re, l'esemplare opera di Sofocle rappresentata la prima volta ad Atene nel 429 a.C. nel teatro di Dioniso, il teatro che servì da modello per la costruzione dell'antico Teatro Romano di Pompei.

Il regista americano in una intervista tiene a marcare le coincidenze che si sono date in un arco temporale che va ben oltre i due millenni: per questo l'Oedipus di Wilson, dopo Pompei, verrà replicato nel mese di ottobre a Vicenza, nel Teatro Olimpico del Palladio e poi di seguito a Napoli presso il Teatro Mercadante, nel gennaio 2019, prima della tournée internazionale.

Pierre Vidal-Naquet ha scritto, nel testo Mito e tragedia due, che la storia moderna del teatro di Sofocle comincia il 3 marzo del 1585, data in cui venne rappresentato Edipo tiranno nel Teatro Olimpico del Palladio a Vicenza. L'illustre grecista ha modo di commentare che, purtroppo, il cielo dipinto che domina la scena del Teatro Olimpico non può essere paragonato all'aria aperta del teatro greco. Da allora, scrive, ogni generazione tenta di scoprire il vero Sofocle e il vero Edipo, di comprendere quanto più possibile il significato che avesse, per il suo autore e per il pubblico ateniese del V secolo, la rappresentazione di questa straordinaria tragedia.

Nell'era moderna, durante il secolo a noi più vicino, Sigmund Freud è stato colui che più di altri è riuscito a 'rivitalizzare' i contenuti di questa antica e 'oscura' tragedia di Sofocle, rendendo di nuovo il nome e le vicende di Edipo culturalmente vivi, 'palpitanti' e popolari. Freud trasse dalla polverosa trama della antica tragedia alcuni attuali e profondi significati psicologici che egli legò a «un evento [psichico] generale della prima infanzia [...]. Se è così, si comprende il potere avvincente dell'Edipo re». In campo letterario, in epoca moderna, diversi grandi autori hanno sentito il bisogno artistico di rivisitare la tragedia di Edipo – secondo Aristotele essa era la tragedia per eccellenza – tra questi Hölderlin, Hofmannsthal, Gide, Cocteau per finire con Pasolini e la sua opera filmica Edipo re.

19 giugno 2018

«Gabrielle Rubin e il romanzo familiare di Freud. Conversazione con Valter Santilli» di Doriano Fasoli



Valter Santilli è il curatore della edizione italiana del libro Il romanzo familiare di Freud di Gabrielle Rubin, psicoanalista e scrittrice francese. È un bel testo, agile nello stile e originale nei contenuti. Il libro è il frutto di una ricerca dell’autrice – condotta con metodo rigorosamente freudiano – sulle tracce del romanzo familiare di Freud. Questo suo lavoro appare ispirato da una suggestiva frase di Ernest Jones: «Si dovrebbero studiare le conseguenze che su Sigi hanno avuto le complessità della sua famiglia di origine», messa in esergo. È bene ricordare quanto complessa fosse la ‘costellazione familiare’ di Freud: il padre, Jacob, aveva circa venti anni in più di Amalia, la madre di Freud. Jacob Freud era vedovo e aveva avuto due figli da un precedente matrimonio, Emanuel e Philipp, questi vivevano con lui e avevano all’incirca la stessa età della loro giovane matrigna. Emanuel inoltre era già sposato e aveva un figlio, John, di un anno maggiore di Sigmund: Freud dunque appena nato era già lo zio di un nipote che era più grande di lui di un anno.

Doriano Fasoli: Chiedo al curatore della edizione italiana del libro come e quando è nata l’iniziativa editoriale di pubblicare in italiano questo testo, poco conosciuto, che ha come suo audace obiettivo quello di riscrivere una parte della vita di Freud e di ridefinire alcuni significati delle sue opere attraverso il filtro del romanzo familiare.

Valter Santilli: Nella presentazione del libro ripercorro per sommi capi le tappe che mi hanno portato ad avvertire la necessità di tradurre e pubblicare in italiano questo libro. Trovai e acquistai questo libro di Gabrielle Rubin in una piccola e ben fornita libreria di Montpellier, nel 2006. Rimasi superficialmente colpito dal titolo, per la sua vaga suggestione letteraria, più che dalla scarna immagine di copertina… Una volta tornato a Roma riposi il libro su uno scaffale della mia libreria, di non facile accesso, e lì è rimasto per qualche anno…

E quindi quando e perché iniziasti a leggerlo?

Iniziai a leggerlo quando mi avvicinai, personalmente e professionalmente, alla psicoanalisi e quando il mio interesse per le opere di Freud andò oltre il mero interesse culturale. Quando lessi per la prima volta il libro della Rubin, Le roman familial de Freud rimasi colpito dall’audacia con cui ella si avventura nel ripercorrere, con metodo rigorosamente freudiano, alcune tappe cruciali della vita di Freud, le tappe che, secondo l’autrice, furono poi determinanti per le successive scoperte geniali del padre della psicoanalisi. Rubin in questo suo libro ne rimette in gioco i significati.

Sei dunque rimasto colpito dai questi dati biografici che nel libro vengono rimessi in gioco?

Ti dirò che alla prima lettura del Romanzo familiare di Freud avvertii una certa fastidiosa irritazione pur apprezzandone l’originalità. La mia prima imbarazzata sensazione era che l’autrice volesse mettere Freud ‘sul lettino’ e volesse così riattivare il geniale lavoro ‘autoanalitico’ che Freud aveva compiuto, a suo tempo, con grande audacia e con grande coraggio.

19 ottobre 2015

«Laing R.D., l'ombra del maestro. Intervista a Valter Santilli» di Doriano Fasoli

Valter Santilli

Laing R.D., l'ombra del maestro è il titolo del libro, edito da Alpes nella collana «I territori della psiche», scritto da Valter Santilli e da Antonello Carusi. Il libro traccia il percorso intellettuale e professionale dello psichiatra Ronald D. Laing. Gli autori si focalizzano in particolare, nelle due distinte parti del volume, sui temi «Laing e la psicoanalisi» e «Laing e la psicoterapia». Fa naturalmente da sfondo nelle considerazioni sviluppate dagli autori la rivoluzionaria pratica psichiatrica del medico scozzese derivata dal suo pensiero profondamente radicato nell'ottica esistenzialista. Come è scritto nel retro della copertina del libro, i due autori motivano il loro lavoro non solo come propria particolare esigenza di voler rendere omaggio alla figura di Ronald Laing a distanza di 25 anni dalla sua prematura e improvvisa scomparsa, ma anche come necessità di riconsiderare l’‘attualità’ di Laing come professionista e come intellettuale. Nelle parole degli autori: «Egli sembra oggi volerci interrogare attraverso gli aspetti, teorici e clinici, più stimolanti che furono propri del suo ‘insegnamento’.» Valter Santilli, medico e psicoterapeuta, ha pubblicato articoli su temi di psicoterapia, di medicina psicosomatica e di criminologia clinica. È tra i fondatori della Società Italiana Milton Erickson (SIME), ed è didatta presso la Scuola di Specializzazione in Ipnosi Clinica e Psicoterapia Ericksoniana e presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale (IIPR), entrambe con sede a Roma. Abbiamo già avuto occasione di conversare su alcuni temi, clinici e letterari, da lui affrontati in una sua recente pubblicazione, Il terapeuta in gioco, nella quale, in maniera interessante, sono stati intrecciati brevi saggi, storie cliniche e brevissimi racconti. Gli chiedo ora di voler esporre in modo articolato le motivazioni e le ispirazioni che sono alla base di questo nuovo libro: «Quando Antonello Carusi mi ha proposto di scrivere su Laing, confesso che ho sentito un sentimento di distanza sia dai temi specifici, professionali e personali, che sono propri del geniale personaggio, sia dal clima culturale dell'epoca in cui egli visse pienamente le sue vicende umane e professionali. Mi sono allora interrogato su quanto Laing potesse essere ancora presente nella mia formazione professionale e intellettuale prima di potermi azzardare a scrivere su di lui. Nel periodo di sospensione che c'è stato ho dovuto compiere un lavoro di memoria oltre che di studio, per ripercorrere gli anni in cui Laing effettivamente rappresentò un riferimento brillante non solo per i professionisti della salute mentale più sensibili all'esigenza di un cambiamento delle proprie prassi terapeutiche, ma anche per il movimento giovanile antiautoritario che negli anni '60 e '70, in Europa e in Nord America, con le loro manifestazioni nelle piazze delle principali capitali europee e all'interno dei campus delle migliori università americane, stava scuotendo le certezze sociali e i principi culturali che erano patrimonio delle classi “borghesi” in Occidente. Sono così riuscito a ri-scoprire che Laing fu effettivamente uno dei personaggi influenti che aveva avuto un posto nel mio ‘mitico’ immaginario adolescenziale . Lo spazio che egli poteva occupare nella mente di un giovane liceale immerso nella ‘cultura’ della contestazione studentesca dell'epoca prescindeva dal fatto che Laing fosse stato ormai indicato anche come guru del movimento cosiddetto ‘antipsichiatrico’. Durante questo lavoro di ri-memorizzazione è stato curioso per me constatare come io stesso avessi quasi dimenticato di aver avuto a suo tempo la fortuna di conoscere Ronald Laing durante un seminario da lui tenuto a Milano nel 1986 o forse 1987. Questo conferma, per ciò che ci ha riguardato come autori del libro, quanto egli sia stato dimenticato, se non addirittura ‘rimosso’, dalla attuale generazione di terapeuti: e quindi, in senso culturale più ampio, rimosso dalla contemporaneità. E dunque, nel convincermi della necessità di scrivere su Laing, ho ripercorso con soggettivo piacere intellettuale e con particolare interesse storico le memorie del clima culturale di quegli anni che hanno coinciso con la mia adolescenza e con la mia prima giovinezza. Durante quegli anni il personaggio Ronald Laing era sicuramente abbastanza conosciuto dai professionisti più progressisti della salute mentale, oltre che essere divenuto un intellettuale già abbastanza popolare presso alcuni strati del movimento giovanile e studentesco in Europa e in Nord America. Questo sentimento di necessità nel volermi occupare di Laing mi ha spinto naturalmente a rileggere con interesse le sue opere, alcune delle quali (ad esempio, I fatti della vita e Conversando con i miei bambini), benché ritenute minori, ho trovato non solo particolarmente interessanti e attuali nei loro contenuti, ma formalmente e narrativamente anche molto apprezzabili. In queste due libri, così come in altri, sono molto evidenti le particolari qualità espressive, in senso letterario, che rivelano il suo autore come un apprezzabile scrittore.»

Doriano Fasoli: Quali sono i temi portanti del vostro libro, Dottor Santilli?

Valter Santilli: Antonello Carusi ha ripercorso con rigore, metodologico e storico, la formazione analitica di Ronald Laing e i suoi legami 'analitici' con personaggi del calibro di Donald Winnicott e Wilfred Bion. Carusi ha approfondito in particolare proprio i legami e le affinità che uniscono Laing a Winnicott, pur nella considerazione che Laing ad un certo punto del suo percorso professionale volle comunque distaccarsi dall'ambiente psicoanalitico londinese, da quegli autorevoli e influenti personaggi e dall'istituzione della Tavistock Clinic, dove egli aveva comunque completato la sua formazione psicoanalitica. Questo distacco avvenne dopo la pubblicazione, nel 1960, del libro L'io diviso, che ha un significativo sottotitolo: Studio di psichiatria esistenziale. Carusi ripercorre inoltre una sintesi della evoluzione intellettuale di Laing seguendo il filo delle sue opere scritte: a partire da L'io diviso, che lo aveva già consacrato come enfant prodige della psicoanalisi e della psichiatria, fino a Nascita dell'esperienza, l'ultima delle sue pubblicazioni ritenute particolarmente significative. In questa sintesi del percorso di idee di R. D. Laing, viene evidenziata l'influenza che hanno avuto sul suo pensiero medico e psichiatrico alcuni importanti filosofi: tra i più significativi Heidegger, Kierkegaard e, in particolare, Sartre, che fu una delle influenti personalità della cultura dell'epoca che Laing volle riconoscere come maestro e con il quale riuscì ad avere intensi contatti intellettuali. Sartre non mancò di ricambiare la sua pubblica stima, firmando ad esempio una breve ma intensa prefazione ad uno dei libri più impegnativi di Laing, scritto insieme a Cooper, Ragione e violenza.

1 aprile 2014

«Intervista a Valter Santilli», di Doriano Fasoli

Valter Santilli, medico e psicoterapeuta, didatta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale (IIPR) e presso la Scuola di Specializzazione in Ipnosi Clinica e Psicoterapia Ericksoniana, è tra i fondatori della Società Italiana Milton Erickson (SIME). Ha pubblicato, per le edizioni Carabba, il volume Il terapeuta in gioco, con sottotitolo: Tra arte, letteratura e psicoterapia. Un libro piuttosto intrigante, una sorta di romanzo di formazione professionale e personale. Il titolo del libro rimanda alle due dimensioni, pubblica e privata insieme, della psicoterapia e del gioco.

Doriano Fasoli: Santilli, puoi spiegare meglio il significato a cui allude il titolo del libro?

Valter Santilli: Se dovessi interpretare il titolo del mio libro direi che suggerisce certamente un doppio significato: da una parte il terapeuta che si mette in gioco professionalmente e personalmente; e dall’altra il terapeuta che, in questo caso, vuole rimanere in una dimensione giocosa pur volendo trattare di temi importanti, sia personali, sia professionali. Nel prologo chiarisco il mio desiderio di aver voluto mantenermi, nello scrivere e comporre il libro, in una sorta di spazio transazionale winnicottiano, un tipo di esperienza vantaggiosa in cui i confini tra realtà e immaginazione rimangono sfumati. Un assetto mentale, quindi, in cui la soggettività prevale, a scapito forse del rigore analitico che sarebbe necessario per opere più ambiziose.

A proposito di «immaginazione»: uno spazio rilevante del volume è dedicato all’arte e alla letteratura. In particolare, un capitolo intero è dedicato a La figlia di Iorio, l’opera pittorica di Francesco Paolo Michetti e la tragedia pastorale di Gabriele d’Annunzio…

Questo capitolo del libro è realmente frutto di questa dimensione ‘giocosa’, in cui le mie personali origini si intrecciano con alcuni significati di quella pittura e di quella tragedia che mi è sembrato di aver intuito. Sono quindi partito dalla singolare genesi delle due opere d’arte, così come venne narrata da Gabriele d’Annunzio. Magicamente questa genesi evoca i luoghi delle mie origini: l’ambientazione agreste di entrambe le opere d’arte richiama un luogo in particolare, Tocco da Casauria, il mio paese di origine, dove nacque il pittore Francesco Paolo Michetti.

Quindi questo tema della «genesi delle due opere d’arte» e delle tue «personali origini si intrecciano». Sviluppi quindi una narrazione in cui anche tu sei partecipe e coinvolto…

Ciò che viene elaborato artisticamente, con diversa sensibilità ed espressione artistica, dai due autori è un tema primitivo e ‘scandaloso’: dal punto di vista antropologico, psicologico e culturale nel senso più ampio. L’input drammatico è per i due artisti una ‘scena’ a cui passivamente avrebbero assistito, che prefigurava lo stupro di una giovane donna da parte di un gruppo di uomini, mietitori stagionali, abbrutiti dalle dure condizioni ambientali in cui a quel tempo erano costretti a svolgere il loro lavoro. La scena, secondo il racconto che ne fa d’Annunzio, sarebbe avvenuta non in una desolata campagna, ma sulla piazzetta del paese. Non ho avuto difficoltà ad immaginarla – descritta in maniera così scenografica dallo scrittore – proprio in quel luogo preciso: una scena piuttosto traumatica. Per cui è stata necessaria anche per me una sorta di elaborazione attraverso la scrittura. Questa mia elaborazione ‘scritta’ rimanda ad un «gioco» in cui, come un’amica e collega, Giuliana Polenta, mi ha fatto notare, «l’oggetto artistico diventa terapeutico e la terapia vorrebbe farsi arte.»