Johannes Vermeer. Ragazza con l'orecchino di perla (1665 ca.) |
Anni fa ebbi l’occasione di guardare alcune scene degli episodi italiani del serial televisivo In Treatment, provai una sensazione di noia e di fastidio come quando vidi alcune scene de Il Grande Fratello. In entrambi i casi provai la sensazione di essere un passivo voyeur al quale si voleva far credere che quello a cui stava assistendo fosse, seppure virtualmente, la rappresentazione vera e intima di ciò che è la realtà umana. Mi sembrava eclatante l’imbroglio di far passare quella storia televisiva, affetta dall’ambizione di descrivere nei tempi dello ‘spettacolo’, per ciò che accade quando una persona decide di andare in treatment, come se fosse la rappresentazione documentaria della reale esperienza di questo tipo di cura. Confesso che la finzione teatrale, con tutte le grossolane inesattezze, mi aveva profondamente deluso: ho sentito il fastidio che si prova quando sperimentiamo che qualcuno o qualcosa invade il nostro mondo. In questo caso, essendo ‘del mestiere’, uno spazio professionale che ritengo anche uno spazio ‘privato’ che appartiene al paziente e al terapeuta. Mi sembrava un illecito azzardo voler svelare pubblicamente la qualità di quegli incontri, contenitori di realtà psicologiche ed esistenziali che scaturiscono direttamente dalla ‘relazione terapeutica’: una delle forme radicali ed essenziali di comunicazione interpersonale. La visione di questa pretesa filmica era simile alla visione di certe scene puramente carnali, o esplicitamente pornografiche, che vorrebbero convincere colui che guarda che quello che viene mostrato è la reale esperienza di due o più esseri umani che fanno l’amore. Quello che mi pare emerga, nonostante l’interesse e la curiosità che a suo tempo il serial era riuscito a suscitare nel pubblico televisivo, è la pretesa di rendere pubblico ciò che accade nella stanza dove due o più persone si impegnano, con ruoli e funzioni diversi, in una esperienza di relazione che socialmente e scientificamente viene riconosciuta come ‘trattamento psicoterapeutico’, in questa definizione includo anche la pratica della psicoanalisi, sebbene essa abbia le sue specificità.
Passò del tempo prima che io riconsiderassi il serial In Treatment e avessi una specie di illuminazione cognitiva: riuscii a comprendere che quella vista in tv non avrebbe mai potuto essere quello che ‘veramente’ è la psicoterapia. Compresi finalmente che quegli episodi televisivi erano una rappresentazione teatrale tratta da un copione ispirato a reali esperienze cliniche ed esistenziali. Perché io avessi questo insight fu determinante la lettura di alcune pagine di un importante lavoro di André Green: La déliaison. In questo brillante saggio l’autore, in un capitolo che ha come titolo «Il teatro dell’illusione e la scena sociale», ricorda che a Freud si aprirono le porte di alcuni contenuti fondanti la psicoanalisi dopo aver casualmente assistito a Parigi alla rappresentazione della tragedia Edipo re di Sofocle. Nel 1885 Freud per un semestre frequenta come ‘borsista’ le lezioni di Charcot, presso l’ospedale La Salpêtrière. Green in un capitolo del suo saggio riporta i contenuti di una lettera di Freud datata 15.10.1897, indirizzata a Wilhelm Fliess, dove riferendosi alla tragedia di Sofocle parla del teatro e della tragedia come di uno spazio del mondo esterno in cui il ‘teatro privato’ del mondo interno si realizza.
La psicoterapia è un tipo di cura che le persone scelgono di fare spinte da un bisogno, spesso perché manifestano dei sintomi, i segnali della loro sofferenza. Tra altre forme di cura disponibili, la psicoterapia o il trattamento psicoanalitico presuppongono un processo decisionale e dunque un ampio margine di libertà personale. Queste forme di cura sono trattamenti alla cui base c’è un contratto che nessuno potrebbe imporre, pena la sua in-consistenza. Come psicoterapeuta vorrei cercare di descrivere alcuni frammenti della mia esperienza professionale, evitando di utilizzare un linguaggio tecnico e specialistico. In reazione al mio iniziale e snobistico atteggiamento nei confronti del serial televisivo decido ora di farmi ispirare dalla drammatizzazione di quelle scene televisive. Descriverò dunque alcuni ‘scenari’ di due particolari esperienze professionali. Due ‘casi’ molto diversi tra loro sia per i soggetti coinvolti sia per l’impegno professionale che hanno richiesto.
I ‘casi’ che il terapeuta tratta sono spesso molto diversi tra loro, a meno di non specializzarsi in determinate aree cliniche. Lo stesso terapeuta si pone diversamente quando si relaziona a ciascuno di essi. In maniera più radicale direi che soggettivamente ogni volta che una persona si candida come paziente per un ‘trattamento’, a livello conscio ma più spesso a livello inconscio, decido anch’io se candidarmi come terapeuta. La psicoterapia che pratico è ad orientamento psicodinamico e relazionale, in casi scelti utilizzo l’ipnosi eriksoniana.
I principi clinici ai quali mi ispiro fanno sì che essenzialmente mi adatti alle esigenze ‘terapeutiche’ del paziente, tendo però a controllare rigidamente il ‘setting’, vale a dire la dimensione spazio-temporale dove, come e quando la psicoterapia si svolge.
In genere non apro il mio quaderno di appunti come fosse una antologia dove è segnato il numero della pagina per sapere dove si è arrivati la volta prima con quel particolare paziente. Dunque, il processo terapeutico non segue un copione già scritto né aderisce a ‘protocolli sperimentali standard’ dentro cui bisogna collocare il paziente: un collega, mio supervisore, mi disse che il processo della psicoterapia e/o della psicoanalisi non può essere ‘sperimentale’, nel senso laboratorista del termine, ma è bene che esso sia ‘esperienziale’: un gioco relazionale molto speciale e particolarmente sofisticato aperto all’imprevisto. Secondo un aforisma ‘oracolare’ di un grande psicoanalista, Wilfred Bion, l’habitus psichico del terapeuta nei confronti del paziente dovrebbe essere «senza memoria e senza desiderio.» La descrizione più suggestiva ma anche più interessante di cosa sia la psicoterapia è quella suggerita da Winnicott: «La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme».
Nel primo scenario che descriverò entra in gioco con il terapeuta una giovanissima paziente in piena crisi adolescenziale, una crisi condita da lievi disturbi comportamentali, mentre nel secondo scenario la persona in gioco con il terapeuta porta un fardello, sin dalla prima infanzia, che si è appesantito nel tempo e che ha necessitato di essere alleggerito e curato in profondità. Ora nella ricostruzione ‘narrativa’ che andrò a fare queste due persone che ho regolarmente incontrato per periodi mediamente lunghi nello studio professionale hanno acquisito delle caratteristiche che ho liberamente associato a due figure dell’universo artistico/letterario della moderna cultura occidentale. La prima persona mi ha evocato una figura pittorica, la Ragazza con l’orecchino di perla del pittore olandese Johannes Vermeer: il dipinto ritrae la sensualità, la grazia e la bellezza adolescenziale. L’altra persona nella mia ricostruzione narrativa l’ho associata ad un personaggio letterario: Don Juan, una figura tratta dall’omonimo poema di Lord Byron. Il poema epico-satirico di George Gordon Byron tratteggia il mitico personaggio del teatro e della letteratura spagnola non come un seduttore avventuriero, «un libertino che passa il tempo a sedurre donne e a scontrarsi con i loro rispettivi uomini», ma come «un giovane ingenuo che si lascia sedurre facilmente da tutte le donne che incontra.» Il poema di Byron anni fa ispirò una gradevole e romantica opera filmica – una commedia – dove gli attori protagonisti, Marlon Brando e Johnny Depp, rivaleggiano in bravura ed hanno le physique du rôle dei loro personaggi. Il film ha un titolo molto suggestivo Don Juan DeMarco. Maestro d’amore. Per chi non lo conoscesse riporto molto sinteticamente il nucleo essenziale della storia narrata: uno psichiatra tenta di guarire in soli dieci giorni un giovane folle che pretende di essere il più grande amante di tutti i tempi. È facile intuire che il maturo psichiatra venga impersonato da Marlon Brando mentre Johnny Depp reciti la parte del giovane folle che gira per le strade di New York vestito da Zorro.
* * * *
Scenario 1. La ragazza con l’orecchino di perla
La Ragazza con l’orecchino di perla mi fu ‘inviata’ dai suoi genitori con i quali avevo avuto in precedenza un colloquio. Le motivazioni dell’invio potrei sintetizzarle come segue: problematiche riguardanti l’adattamento di vita della loro giovane figlia che da poco si era trasferita, insieme alla famiglia, in una nuova città e frequentava quindi un nuovo ambiente scolastico.
I genitori della giovane erano piuttosto allarmati per alcuni comportamenti ‘sintomatici’ della loro figlia: rientrava tardi la sera, aveva iniziato a fumare, aveva iniziato a bere alcolici. Comportamenti che in realtà, come terapeuta e come genitore, ritengo siano piuttosto ordinari e affatto fisiologici in una adolescente che si confronta con delle nuove realtà.
Questa graziosa ragazza, appena quindicenne, si presentò al primo incontro di terapia affaticata, era evidentemente appesantita da una copiosa pila di libri portati tra le braccia, libri che poi posò rumorosamente sulla mia scrivania. Portava con sé tutti i libri che in quel periodo stava studiando e/o semplicemente leggendo. Volle portarli con sé, per esporli! Volle dare così un’impronta piuttosto intellettuale alle nostre conversazioni. Già nel primo incontro iniziò a parlarmi spigliata, con un eloquio piacevole, mi spiegò le ragioni della sua presenza nel mio studio. La giovane ragazza parla un italiano quasi sofisticato con un leggero accento francese, la lingua della madre; gli espressivi lineamenti del volto sono mediterranei e portano l’impronta genetica del padre arabo. Il focus emotivo del mio coinvolgimento – tecnicamente il mio controtransfert – si installò nella coincidenza tra l’età anagrafica della ragazza e quella di mia figlia così come nella sua particolare gestualità che pure le somigliava. L’incontro che ho avuto con questa graziosa e intelligente ragazza fu dunque un incontro professionale che mi ha richiesto l’uso della terza persona. Questo apparente artificio formale esprime e stabilisce una differenza essenziale con la qualità dell’incontro e con il tipo di conversazione che avrei potuto avere ad esempio con una delle amiche di mia figlia, in questo caso sicuramente mi sarei rivolto ad una giovane ragazza usando una ordinaria e confidenziale seconda persona. Gli incontri di psicoterapia con la Ragazza con l’orecchino di perla non avrebbero certo potuto svolgersi in una atmosfera familiare e/o confidenziale, la struttura definita del ‘setting’ garantiva la qualità speciale delle nostre conversazioni. La relazione e la comunicazione in uno spazio/tempo che definiamo terapeutico ha una sua qualità specifica che certamente rievoca, riproponendola, la soggettività delle modalità relazionali familiari, ma la specificità del setting costringe terapeuta e paziente all’interno di un metaforico ‘ring’ governato da regole che devono essere condivise. Queste regole garantiscono e disciplinano sia la mente sia il corpo di entrambi i protagonisti in gioco. Questa speciale disciplina è molto diversa da qualsiasi altro tipo di complesso galateo comportamentale, è fatta di una forma e di una sostanza che man mano si confondono, si impastano e, quando le cose vanno bene, producono nel paziente l’esperienza di essere in un contesto terapeutico. La particolare relazione che si viene a creare non può non essere eticamente rigorosa, sia per il terapeuta sia per il paziente. Sarà questo rigore di forma e di sostanza che renderà possibile l’incontro nella sua dimensione psicologica emotivamente più coinvolgente. Questa disciplina contribuirà a creare uno spazio, sia interno che esterno, adatto ad accogliere in una atmosfera di sicurezza l’incontro con l’altro: uno spazio e un tempo che non ammettono violazioni – tranne in casi episodici ed eccezionali – pena lo snaturamento dell’incontro stesso. Quando si costituisce questo spazio dovrà avere solidi confini permeabili non solo per contenere l’esperienza di questo incontro speciale ma anche perché sia reciprocamente trasmissibile. Solo allora la dimensione inconscia dei protagonisti ‘in gioco’ potrà esprimersi con maggiore libertà, essa diverrà man mano più complessa e saprà rendere più chiare e comprensibili quelle realtà psichiche del paziente che prima erano misconosciute.
Il discorso tra paziente e terapeuta può essere a volte sorprendente – come può essere sorprendente la narrazione di un sogno – e può condurre verso territori della psiche mai esplorati prima: terapeuta e paziente ‘in seduta’ si trovano sulla stessa barca e questa a volte naviga in mare aperto. Nel corso di uno degli incontri che ho avuto con la Ragazza con l’orecchino di perla mi sorprese ad esempio un suo discorso, era un discorso che lei pronunciava con parole accurate, con grazia e con estetica leggerezza: «Sa, penso che sia utile per me venire qui perché solo qui riesco a mettere in parole i miei pensieri e solo allora sento che i miei pensieri diventano qualcosa di veramente concreto.»
Questo discorso mi sorprese per la sua profondità e ne rimasi quasi incantato, mi sembrò in quell’attimo una luminosa descrizione, sostenuta da un pensiero profondo, straordinariamente chiaro che si faceva finalmente reale e concreto. Forse fu durante questa comunicazione così significativa e così intensa che io ebbi la particolare visione che mi fece accostare la ragazza a ciò che mi suscita la mitica figura di Vermeer!
Uno storico dell’arte, Claudio Pescio, ci informa che la giovane ritratta è stata in passato identificata con la figlia del pittore, Maria. La descrizione che lo stesso critico fa del ritratto di Vermeer («il quadro è semplicemente fatto di luce e della sua capacità di ritagliare le forme nel buio») è molto vicina alla percezione che io ebbi allora della realtà psichica di questa giovane paziente. Quando, prima della pausa estiva, chiesi alla ragazza quali libri portasse con sé, ella rimase sorpresa, nonostante i libri avessero avuto sin dall’inizio un grande spazio nel setting della terapia. Fu però contenta di dirmi che aveva intenzione di leggere alcuni libri di Simone de Beauvoir e subito dopo mi chiese, a proposito di quella scrittrice: «Come si chiamava il suo fidanzato?» «Jean-Paul Sartre», risposi. «Vorrei leggere anche La nausea di Sartre». Forse volle stupirmi citando questi monumentali personaggi della cultura del Novecento, apparentemente così distanti da lei. Nonostante le mie reazioni in quel momento fossero di ammirazione per la sua vivace curiosità intellettuale, non feci alcun cenno di approvazione. Rimasi in uno stato emotivo ed intellettivo contenuto, riflessivo. Pur avvertendo dentro di me un sentimento di ammirazione, non volli esprimerlo verbalmente né tantomeno dimostrarlo: quello che forse comunicai alla mia giovane interlocutrice fu solamente una vaga e stupita espressione. La vigile consapevolezza del particolare contesto mi impose di rispettare una ‘terapeutica disciplina’, mi attenni così al principio di mantenere una semplice e benevola neutralità, di non fare commenti che fossero appesantiti dal mio controtransfert, di non intrudere nel suo ambizioso e fantastico ‘mondo letterario’.
La psicoterapia diede buoni frutti: la ragazza manifestò in breve tempo una rapida e favorevole evoluzione psicologica. Ella riusciva finalmente ad esprimere meglio e con maggiore forza le sue notevoli risorse emotive ed intellettive, sia nel contesto sociale e familiare sia nel suo nuovo ambiente scolastico.
* * * *
Scenario 2. Don Juan
L’incontro con Don Juan avvenne in urgenza: la pressante richiesta era motivata dalle conseguenze della sua forte passione verso la donna di cui diceva di essere ‘follemente’ innamorato e pazzamente geloso. La sua urgente passione travolse la giovane donna come una frana rovinosa, tanto da farle prendere la decisione di troncare la relazione: fu costretta a prendere le distanze da questo ‘amore spietato’. Don Juan è un uomo di bell’aspetto, seducente nei suoi modi e nel suo eloquio, si descrive irresistibile per molte donne e ammirato da molti uomini, si vanta con orgoglio di essere un virile e talentoso ‘maestro d’amore’.
L’ars amandi che Don Juan concepisce e mette in pratica è una erotica ed apollinea scienza che va coltivata e affinata. Il maestro non disdegna di condividere le sue esperienze in forma di confidenziali insegnamenti rivolto a uomini che – per loro sfortuna – sono meno sensibili alle variabili del fascino muliebre, dunque meno dotati nel praticare questa arte. L’uomo aveva pensato che anche il terapeuta fosse male attrezzato in questa complessa arte e a volte si lasciava andare alla descrizione delle sue tecniche erotiche tese a sollecitare l’eros e il piacere femminile. In seduta commentammo, con un po’ di ironia, che la sua speciale arte di amare era una sorta di missione riparativa nei confronti del genere femminile. Don Juan vanta la conoscenza biblica di centinaia di donne. Durante il lungo periodo in cui è stato in treatment ho potuto conoscere l’altra faccia della sua complessa personalità, quella ‘dionisiaca’. La manifestazione di questo aspetto della sua personalità si estrinsecava in emozioni orgiastiche e disarmoniche dove l’eros scadeva in una banale e perversa ossessione ed egli da amante cortese, attento alla psiche e al corpo femminili, si trasformava in uno stalker a caccia di giovani prede.
Emergevano allora le ferite psicologiche del bambino deprivato che nel passato era stato. Un bambino sedotto dalle attenzioni di figure adulte, allontanato per lunghi periodi nella sua vita infantile dalla casa dei genitori per motivi che per lui, allora, erano poco comprensibili.
Don Juan è senza dubbio un personaggio complesso e coinvolgente, a volte è sprezzante e rabbioso altre volte è teneramente infantile. Spesso esprime una gioiosa vitalità, ma altrettanto spesso cova dentro di sé un cupo sentimento distruttivo. Più volte ha riversato le sue turbolenze psichiche nella relazione terapeutica manifestando sentimenti che adombravano la possibilità di agiti violenti, così sulla ‘scena terapeutica’ è comparsa l’ombra del corno di un toro: come quando su un lenzuolo bianco appaiono i giochi delle ombre cinesi.
Don Juan e il metaforico esercizio della tauromachia
Pablo Picasso. Immagine tratta dalla serie «Tauromachia» (1957 ca.) |
Tempo fa lessi un interessante saggio di Michel Leiris, Età d’uomo, dove lo scrittore paragona il ‘fare letteratura’ all’esercizio della tauromachia: l’incontro nell’arena del toro con il torero. L’autore, appassionato di corride, argomenta – in un azzardato e impressionante confronto – sul rischio che può correre uno scrittore quando si impegna nell’esercizio di una ‘letteratura’ impregnata di una forte matrice autobiografica. Scrive Leiris:
[M]a rispondeva anche ad un’esigenza estetica: quella di parlare soltanto di ciò che conoscevo per esperienza e che mi toccava più da vicino, perché fosse assicurata a ciascuna delle mie frasi una densità particolare, una pienezza conturbante, in altri termini la qualità propria di ciò che si dice «autentico».
E più avanti:
Ho parlato più sopra della norma fondamentale (dire tutta la verità e soltanto la verità) alla quale è legato l’autore di confessioni e ho anche alluso al preciso cerimoniale cui deve attenersi, nel suo combattimento, il torero.
E aggiunge:
[U]na delle mete più alte che possano essere assegnate alla forma più pura [dell’attività letteraria], cioè la poesia, è quella di restituire per mezzo delle parole certi stati intensi, concretamente provati e divenuti significativi fino a trasformarsi in parole.
Il discorso che la persona in treatment costruisce, con l’aiuto del terapeuta, tende ad una autenticità che è qualitativamente simile a ciò che – io presumo – Leiris attribuisce alla narrativa ‘autobiografica’. Lo scrittore ci informa che nell’arena ci sono regole che il torero non può infrangere, queste regole faranno in modo che la tragedia che lui recita sia una tragedia ‘reale’. Una reale tragedia nel corso della quale quell’assoluto protagonista, umanamente solo, potrebbe versare il suo sangue e rischiare la pelle.
Questo crudo contesto e il sentimento di reale tragedia differenzia, nella sostanza, questo rischio dal rischio che può correre lo scrittore, esso è di natura puramente estetica e/o psicologica.
Una quota di rischio “reale” esiste anche per coloro che si impegnano, in ruoli e funzioni diversi, nell’esercizio della psicoterapia. Nell’esperienza della psicoterapia vi è una quota di vita reale che viene messa ‘in gioco’ nella relazione con l’altra persona, esistenzialmente presente nell’hic et nunc: quell’altro da sé vivo e palpitante che parla, agisce e reagisce con i suoi gesti espressivi e con le sue parole accompagnate da una particolare mimica e da una postura. La relazione terapeutica non può essere vissuta, dai partecipanti in gioco, ‘alla pari’, le due o più persone si incontrano certamente attraverso le loro specifiche soggettività, ma la soggettività del terapeuta è per forza di cose ‘caricata’ del peso della sua specifica funzione e della sua specifica competenza, frutto di una formazione professionale e di una necessaria e più completa conoscenza degli elementi costitutivi della propria soggettività. L’incontro con l’altro può avere l’armonia e la piacevolezza di una danza, ma la danza potrebbe scadere in un repertorio di movimenti dettati solo da un freddo calcolo come in preparazione di una battaglia psicologica, una ‘psicomachia’ dove da ambo le parti vengono messe in campo mosse strategiche. L’incontro potrebbe trasformarsi in un verboso battibecco intellettuale se non in uno scontro verbale: in questo caso vengono messe alla prova le fondamenta pragmatiche che sono alla base del corretto svolgimento della psicoterapia. Augurandomi di non urtare la sensibilità animalista del lettore, ritorno qui sulla metafora letteraria della tauromachia così come è stata immaginata da Leiris. La gestione di questo ‘scontro’ è compito esclusivo del terapeuta il quale, in questa precisa evenienza, deve riuscire ad usare le parole giuste attenendosi ad un preciso cerimoniale di cui egli dovrebbe conoscere perfettamente le regole. In Morte nel pomeriggio Ernest Hemingway scrive che la regola fondamentale nella corrida spagnola è che il torero uccida il toro nel modo più dignitoso, coraggioso ed artistico. Mutatis mutandis questo impressionante fondamento del saper toreare può valere – nel suo significato metaforico – nello spazio/tempo della psicoterapia, quando nella relazione fa capolino una ‘quota’ di energia che possiede la spinta e la forza sufficienti per manifestarsi in un ‘agito’. L’agito è una azione che non è sostenuta da alcun pensiero e da alcuna consapevole intenzionalità: esso va stanato e neutralizzato dal terapeuta attraverso il linguaggio verbale, richiamando il paziente al rispetto delle ‘regole’. Nel gioco metaforico dell’‘incontro/scontro’, quando esso si trasforma in una reale psicomachia, a volte le parti si invertono. Così in un dato momento del processo terapeutico potrebbe affermarsi un transfert negativo e – rimanendo nella metafora della corrida – il terapeuta potrebbe apparire al paziente con le caratteristiche di un toro, potente e aggressivo. Il paziente giocherà allora il ruolo del torero, ma sarà un torero spaventato. In questo caso il terapeuta deve aiutare il paziente a trasformare questo transfert ‘spaventoso’ evitando di provocargli aggiuntive ferite psicologiche. Il gioco ‘reale’ è per forza di cose asimmetrico. Il corno del terapeuta non può avere la stessa qualità e la stessa consistenza del corno del paziente, non sta nelle regole e negli obiettivi che disciplinano l’arte e la scienza della psicoterapia.
Ernest Hemingway scrive che quando il toro entra nell’arena è sanguinante, ferito dalle numerose banderillas che i picadores gli hanno inferto, è dunque un animale fiaccato. La furia e la violenza che esso minaccia di agire sono anche reazioni al maltrattamento subito e alla crudele esposizione della sua dolorosa e impari condizione. Quando il paziente fa ‘intravedere’ l’ombra del suo corno è perché sta reagendo al dolore delle sue ferite psichiche, ferite che il terapeuta, simile ad un picador, ha forse inavvertitamente riaperto: nel processo della cura capita a volte che si riaprano delle ferite psicologiche non completamente cicatrizzate. Nel processo di psicoterapia alcuni degli obiettivi di base sono che entrambi i protagonisti ‘in gioco’ sopravvivano psicologicamente all’incontro/scontro e che guadagnino qualcosa in termini di esperienza e in termini di apprendimento: dal punto di vista etico il guadagno che se ne può ricavare, una crescita psicologica, deve averlo di gran lunga maggiore il paziente. Nel setting terapeutico ogni volta il terapeuta si impegna in un esercizio di cura e il paziente ogni volta si impegna a fare in modo che scoprendo le sue ferite esse possano essere curate. Quando si entra in una fase critica del processo terapeutico gli attori in campo lavorano perché il patologico ‘sanguinamento psichico’ che rende la persona/paziente fragile, e a volte furiosa, finalmente cessi. Le ferite sanguinanti dell’anima sono tracce evidenti dei traumi psicologici, a volte anche fisici, che in passato la persona ha subito. In alcuni momenti del ‘processo’ il paziente potrebbe avere una percezione ‘fantasmatica’ della realtà traumatica passata come di nuovo attuale. Può accadere allora che si rivolga con fiducia al suo terapeuta solo dopo essere riuscito a mostrare quello che rimane della sua forza reattiva e vitale. Questa energia si esprime generalmente in una modalità verbalmente rabbiosa che spesso coinvolge il terapeuta: in quel momento, per il paziente, esso appare come una parte del ‘mondo esterno’ a lui ostile. Nei pazienti più sofferenti questa caotica situazione psichica con la sua particolare modalità espressiva è una sorta di ribellione e insieme una tenace resistenza allo spaventoso sentimento di un imminente ‘crollo psichico’.
Il corno del terapeuta
Avevo più sopra accennato al ‘corno del terapeuta’, anch’esso può manifestarsi come una minacciosa figura d’ombra. Donald Winnicott ha scritto, nel 1947, un bellissimo saggio: «L’odio nel controtransfert». Per la prima volta nella letteratura psicoanalitica viene scritto che il terapeuta può provare un sentimento di odio verso i ‘casi’ particolarmente difficili, pazienti che dal punto di vista psicopatologico vengono classificati come al confine con la psicosi oppure come francamente psicotici. Con questi pazienti spesso il lavoro di psicoterapia richiede tempi molto lunghi e al terapeuta si richiede un particolare impegno psicologico. In questo breve, coraggioso e illuminante saggio, Winnicott scrive che ogni volta che il terapeuta accompagna il suo ‘paziente difficile’ alla porta per concludere la seduta, esprime in quel modo una parte del suo odio provando ‘sollievo’ per la fine di quell’incontro. Nel paziente grave questo congedo rituale può provocare un sentimento di abbandono anche se solo momentaneo; congedandolo il terapeuta lascia il paziente al suo difficile destino quotidiano. Secondo Winnicott, se questo sentimento di sollievo – una pallida proiezione del sentimento di odio misconosciuto situato nel profondo – rimanesse tutto in superficie e non venisse analizzato/interpretato non riusciremmo mai ad entrare nel sentimento di odio che a sua volta prova o ha provato il paziente nei confronti del terapeuta. Il rischio per entrambi è che questa parte emotiva, potente e coinvolgente, sfugga ad una possibile elaborazione e che inaspettatamente essa possa ‘apparire’ sconvolgendo il setting terapeutico, trasformandolo in una arena. In una tale evenienza chi corre più rischi, in termini psicologici, è il paziente. Il grande impegno che il terapeuta deve profondere nella cura a lungo termine del ‘paziente difficile’ è causa di affaticamento mentale e di stress e queste conseguenze potrebbero causare un involontario ‘ritiro’ personale e professionale del terapeuta che solo la sua consapevolezza – ed una eventuale supervisione del caso – potrebbe scongiurare. Quando questo accade è il paziente a pagare un costo psicologico in termini di stallo e/o di regressione del processo terapeutico. Winnicott si spinge magistralmente oltre, argomentando con finezza clinica e teoretica che per i pazienti più gravi può essere molto importante, in un certo momento della cura, divenire chiaramente consapevoli che l’odio che il terapeuta ha provato nei loro confronti era un odio ‘reale’. In maniera naturalistica Winnicott afferma che se il paziente avverte che in quei particolari momenti della cura il terapeuta non è stato capace di odiarlo allora penserà che in altri momenti della cura egli non sarà capace di amarlo.
E poi arrivò il pianto
In un momento particolare della terapia Don Juan finalmente pianse, copiosamente. Era lì davanti a me che piangeva e si asciugava le lacrime. Lo colse un sentimento di tristezza profonda e apparve inerme, privo di ogni difesa, non provò vergogna né tentò di frenare artificiosamente le sue lacrime. Espose la sua fragilità, il suo dolore, il suo bisogno di essere visto mentre era preda della sua tristezza. Non ci fu imbarazzo, fu come se entrambi eravamo in attesa di quel momento ‘rivelatore’ della sua anima più profonda che da tempo reclamava di apparire. Eravamo quasi al termine della seduta e le lacrime fluirono fino ad esaurirsi, solo allora l’uomo si ricompose e disse che mai aveva pianto in presenza di qualcuno. Quando ci salutammo la sua anima reclamò un abbraccio.
(Dicembre 2023)
Nessun commento:
Posta un commento