Visualizzazione post con etichetta 'Ulisse'. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta 'Ulisse'. Mostra tutti i post

12 ottobre 2017

«"Ulisse" polifonico. L'irriducibile dialogismo di James Joyce» di Nicola d'Ugo




Ulisse. James Joyce. Già pronunciare i due nomi mette paura! Ma poi diventa motivo di orgoglio. Un'opera letteraria cosí importante, cosí complessa… Complessa, sí: difficile da seguire forse non proprio. Difficile piuttosto da ultimarne la lettura. Ma a lettura finita... Non si ricomincia da capo: ciò che conclude illumina l'inizio, ci dice che Stephen Dedalus, giunto a pochi passi da Molly proprio a casa sua in Eccles Street, rinuncia ad incontrarla. Mentre forse era tutto lí quel che cercava: la poesia, il senso della vita, l'ombelico del mondo, il tempio d'Apollo a Delfi.

Strana poesia però, cosí sensuale, cosí carnale che, trattandosi di Molly, «[y]our head it simply swirls», «la testa te la fa proprio girar» (U 4.438), direbbe Bloom. Sí, ti fa proprio girar la testa: piú dionisiaca che apollinea, non fosse per quella casa che la ospita, punto fermo del lungo inconcludente andare a zonzo di Leopold. O forse non è cosí, sono solo impressioni che vengono a galla a me lettore, come nell'inizio di «Sirene»: frasi smozzicate, zampilli della memoria, rigurgiti della frase. I «frammenti […] puntellati contro le mie rovine» di T. S. Eliot, le «inutili macerie del tuo abisso» montaliane, le «cascatelle trattenute da un dito» di Zanzotto.

Che poi non è la stessa cosa. Parlare di correlativi oggettivi è troppo facile. È una nozione estetica, non una poetica e ancor meno un linguaggio. Se Montale lavora sull'esperienza individuale, Zanzotto fa giochi con gli oggetti, evocando scenari impraticabili ma suggestivi. Ed Eliot? Lui lavora con le voci, gli stili, le brusche interruzioni: almeno ne La terra desolata (1922). Testimonia di un soggetto frantumato: né soggetto sconsolato, né oggetto pervasivo.

Voci, stili, brusche interruzioni… sembra di essere nell'Ulisse. Ma l'Ulisse ha un sostrato comune, una storia che fa da sfondo, un filo continuo che porta da un luogo a un altro i personaggi. Di interruzioni ce ne son molte, ma i personaggi non si sognano di apparire dal nulla, di essere in due posti diversi allo stesso momento, di saltellare in avventure di tre secoli, salve le stramberie di «Circe», che sono tutto un altro paio di maniche. I personaggi stanno buoni buoni al posto loro: chi nella Torre, chi nell'Ormond Bar, chi a portare a spasso i bambini sulla spiaggia. La giornata è solo una, il 16 giugno 1904. Il luogo è Dublino e non un altro. Terra desolata? No, qui c'è un romanzo bell'e buono, fatto di fabula ed intreccio classici.

Quello che colpisce qualsiasi lettore di Ulisse sono tre caratteristiche: il velo d'oscurità che avvolge le situazioni, l'erudizione dell'autore e il cambiamento di stile in cui sono scritti gli episodi. Se c'è qualcosa che rende familiare un testo, nel prosieguo di una lettura lunga come l'Ulisse, è la chiave interpretativa. Incontrato uno stile, per quanto arduo sia, la buona volontà di chi legge può pacificarsi almeno in questo: di questo libro apprezzo il suono o le immagini o qualche idea sul mondo. Paul Valéry avrebbe seguito la serie: se il testo suona bene allora le immagini, se queste funzionano cerchiamone un senso. 

6 settembre 2015

«James Joyce, Molly Bloom e Madre Natura» di Nicola d'Ugo

Constantin Brancusi: Simbolo di James Joyce

Un’idea è impressa in Ulisse di James Joyce: il movimento. La staticità è omessa e se Joyce indugia nel descrittivismo più capillare, anche il dettaglio ricade nel buco nero d’una mera accidentalità. È una questione di contesto, che in Joyce è ribaltato rispetto ai ready-made di Marcel Duchamp. Quest’ultimo estraeva dal contesto ciò che era immanente e contaminante nella sua suggestività, così che l’oggetto potesse apparire nel suo isolamento anatomizzato. Joyce fa la stessa cosa, ma al contrario: senza oggetti, con le parole, ossia coll’astrazione referenziale, l’arbitrarietà denominativa e l’espressione menzognera riposta nel cuore pulsante d’ogni principio semiotico.

In Joyce c’è la contaminazione e l’influenza subliminale che è presente nei primi lavori di Duchamp, ma anziché astrarre gli oggetti della quotidianità dal loro valore d’uso, lo scrittore irlandese affonda le radici del pensiero nell’intrico inestricabile del linguaggio, in una semiosi tendente all’infinito, senza dar la possibilità all’ermeneuta di chiudere il suo magico cerchio del senso. O meglio: glielo permette, ma limitatamente. «It is impossible to me to write these episodes quickly» («Mi è impossibile scrivere questi episodi velocemente»), si giustificava Joyce nel 1920 con chi gli chiedeva una più celere stesura di Ulisse. E aggiungeva: «The elements needed will fuse only after a prolonged existence together» («Gli elementi necessari si fonderanno solo dopo una prolungata coesistenza»).¹ Joyce colloca gli oggetti in contesti fittissimi e strutturati, finché si slaccino da sé, ipostatizzandosi, per poi riaffiorare altrove in una precarietà semiotica in cui prende corpo il nerbo animista e psicologista e poi non c’è già più.

Occorre contestualizzare la letteratura: sempre. Non che sia da offrirgli di necessità il suo territorio nell’ampia cornice storica in cui l’opera è stata realizzata. Sarebbe poca cosa questo slancio laborioso e meritorio. Il contesto lo dà il lettore: cosa mi sta evocando questo testo che ho sotto il naso, sia esso il mastodontico, filosofico e dolcissimo Guerra e pace di Lev Tolstoj o un’accorata, delicata poesiola tutta rime dell’intimista Giorgio Caproni? Virginia Woolf s’è piegata anima e corpo nell’intento di far del testo un mero (ma fondamentale) ponte tra lo scrittore e il lettore: un ponte tremolante su acque agitate, si potrebbe dire.

James Joyce rende al sommo grado questa impresa. Prima c’è il testo, sì, ma il testo non è il fine della scrittura, non è il luogo epigrammatico e monumentale d’un atto autoritario dell’autore, la monologica dettatura di ciò che debba dirsi del mondo contemporaneo. Al suo fondo, al di là dell’occhio mobile del testo, c’è il lettore, la sua attività costruttiva, le sue potenzialità nel far luce sui mille e più misteri di Ulisse.

Joyce contestualizza e poi via: ciò che è stato collocato in un luogo riappare magicamente ad illuminarne un altro. Delle idee dell’autore e delle aspettative del lettore non c’è che una pallida traccia. La letteratura smette di essere espressionistica, di modellare attraverso i lieviti della forma le idee preliminarmente approntate per uso e consumo d’un lettore che voglia identificarsi con la condizione umana di un altro uomo: lo scrittore che darebbe voce ai sentimenti del lettore. Non è stato sempre così o quasi? Se La divina commedia secondo Michail Bachtin o l’Amleto per Harold Bloom costituiscono il primo momento ‘moderno’ segnato dall’autocoscienza del personaggio, Ulisse costituisce forse il primo momento dell’autocoscienza del lettore: il lettore abbandonato a se stesso e ai suoi dubbi di fronte al testo letterario.

Per far questo Joyce usa le concomitanze polisemiche: una stessa parola non ha solo più significati, ma più territori semantici cui si riferisca. Prendiamo la «carne in scatola» di cui va pazza Molly: un barattolino di potted meat i cui residui si trovano anche nel suo letto alla fine della giornata (U 17.2122-25). Questo lessema sintagmatico ha un significato osceno e non c’è niente da fare: qualsiasi tentativo di edulcorare il romanzo di Joyce, di parlar per eufemismi e perifrasi, arrampicandosi sugli alti pioli d’una critica contegnosa e garbata, non può che veder molto alla lontana, come un puntolino sulla terra, l’indecenza saliente di questo libro, che non a caso, seppur poco compreso nella sua oscura articolazione stilistica, ha subìto tredici anni di censura in America.

A Molly piace la carne in scatola perché le piace fare sesso. Pot, così come la ‘grotta’ da cui è nata Molly («caved mountain» è uno dei significati dell’antica denominazione di Gibilterra secondo O’Shea, dal quale Joyce trasse spunto)², così come il vaso da letto su cui Molly passa metà della nottata, non sono che alcuni oggetti cavi d’una lunga lista riconducibili a Molly per metonimia e metafora insieme: chamber si riferisce al pitale e ad una stanza, per cui «chamber music» è sia la ‘musica da camera’ che Molly, cantante lirica, esegue, sia – proprio così! – la pisciatina sonora dell’eroina in «Penelope». Flussi, appunto: alimentari, discorsivi, concomitanze polisemiche, toccate e fughe della penna incontenibile e incontinente di James Joyce. A continuar l’elenco degli oggetti cavi riconducibili a Molly non si finirebbe più la lista. E son tutti, si direbbe, importanti.

8 maggio 2012

«'Ulisse' di James Joyce ha novant’anni» di Nicola D'Ugo


Marilyn Monroe che simbolicamente
legge Ulisse di James Joyce, ritratta
da Eve Arnold a Long Island nel 1954.
Il 2 febbraio scorso non solo ricorreva la nascita di James Joyce, ma anche il novantennale dell'uscita di Ulisse, edito in inglese a Parigi poiché era censurato in America e non aveva speranza di esser pubblicato in altri paesi di lingua inglese. Joyce volle che Ulisse uscisse il giorno preciso del suo compleanno: né uno prima, né uno dopo. Ci teneva molto e lo pretese. Ma fu solo per via del suo quarantesimo compleanno? C'è da dubitarlo. Joyce amava le concomitanze polisemiche, le confluenze di significati, le coincidenze volute ma che sembrassero anche casuali. Ed era superstizioso.

La data di pubblicazione di Ulisse è una delle più memorabili della storia letteraria. Basta sapere il secolo in cui uscì; più il numero 2. Semplice: 2.2.22 (Il 2 febbraio del 1922). Il 2 coincide anche col fatto che Ulisse è il 2° romanzo di Joyce. Ed era anche la 2a volta che il romanzo veniva pubblicato (un’edizione precedente, a puntate su rivista, fu interrotta 2 anni prima dalla censura, o, per l’esattezza, 1 anno e 2 mesi prima). Il 2/2/22 è la 2a uscita del suo 2° romanzo che coincide col compimento dei primi 20 anni di Joyce nel 20° secolo e del suo 2° giro di boa dei 20 anni. Quante di queste ed altre coincidenze siano state volute, lo poteva sapere solo Joyce stesso, ma voleva che altri ci pensassero per conto proprio. Si divertiva così anche scrivendo le sue opere letterarie.