Constantin Brancusi: Simbolo di James Joyce |
Un’idea è impressa in Ulisse di James Joyce: il movimento. La staticità è omessa e se Joyce indugia nel descrittivismo più capillare, anche il dettaglio ricade nel buco nero d’una mera accidentalità. È una questione di contesto, che in Joyce è ribaltato rispetto ai ready-made di Marcel Duchamp. Quest’ultimo estraeva dal contesto ciò che era immanente e contaminante nella sua suggestività, così che l’oggetto potesse apparire nel suo isolamento anatomizzato. Joyce fa la stessa cosa, ma al contrario: senza oggetti, con le parole, ossia coll’astrazione referenziale, l’arbitrarietà denominativa e l’espressione menzognera riposta nel cuore pulsante d’ogni principio semiotico.
In Joyce c’è la contaminazione e l’influenza subliminale che è presente nei primi lavori di Duchamp, ma anziché astrarre gli oggetti della quotidianità dal loro valore d’uso, lo scrittore irlandese affonda le radici del pensiero nell’intrico inestricabile del linguaggio, in una semiosi tendente all’infinito, senza dar la possibilità all’ermeneuta di chiudere il suo magico cerchio del senso. O meglio: glielo permette, ma limitatamente. «It is impossible to me to write these episodes quickly» («Mi è impossibile scrivere questi episodi velocemente»), si giustificava Joyce nel 1920 con chi gli chiedeva una più celere stesura di Ulisse. E aggiungeva: «The elements needed will fuse only after a prolonged existence together» («Gli elementi necessari si fonderanno solo dopo una prolungata coesistenza»).¹ Joyce colloca gli oggetti in contesti fittissimi e strutturati, finché si slaccino da sé, ipostatizzandosi, per poi riaffiorare altrove in una precarietà semiotica in cui prende corpo il nerbo animista e psicologista e poi non c’è già più.
Occorre contestualizzare la letteratura: sempre. Non che sia da offrirgli di necessità il suo territorio nell’ampia cornice storica in cui l’opera è stata realizzata. Sarebbe poca cosa questo slancio laborioso e meritorio. Il contesto lo dà il lettore: cosa mi sta evocando questo testo che ho sotto il naso, sia esso il mastodontico, filosofico e dolcissimo Guerra e pace di Lev Tolstoj o un’accorata, delicata poesiola tutta rime dell’intimista Giorgio Caproni? Virginia Woolf s’è piegata anima e corpo nell’intento di far del testo un mero (ma fondamentale) ponte tra lo scrittore e il lettore: un ponte tremolante su acque agitate, si potrebbe dire.
James Joyce rende al sommo grado questa impresa. Prima c’è il testo, sì, ma il testo non è il fine della scrittura, non è il luogo epigrammatico e monumentale d’un atto autoritario dell’autore, la monologica dettatura di ciò che debba dirsi del mondo contemporaneo. Al suo fondo, al di là dell’occhio mobile del testo, c’è il lettore, la sua attività costruttiva, le sue potenzialità nel far luce sui mille e più misteri di Ulisse.
Joyce contestualizza e poi via: ciò che è stato collocato in un luogo riappare magicamente ad illuminarne un altro. Delle idee dell’autore e delle aspettative del lettore non c’è che una pallida traccia. La letteratura smette di essere espressionistica, di modellare attraverso i lieviti della forma le idee preliminarmente approntate per uso e consumo d’un lettore che voglia identificarsi con la condizione umana di un altro uomo: lo scrittore che darebbe voce ai sentimenti del lettore. Non è stato sempre così o quasi? Se La divina commedia secondo Michail Bachtin o l’Amleto per Harold Bloom costituiscono il primo momento ‘moderno’ segnato dall’autocoscienza del personaggio, Ulisse costituisce forse il primo momento dell’autocoscienza del lettore: il lettore abbandonato a se stesso e ai suoi dubbi di fronte al testo letterario.
Per far questo Joyce usa le concomitanze polisemiche: una stessa parola non ha solo più significati, ma più territori semantici cui si riferisca. Prendiamo la «carne in scatola» di cui va pazza Molly: un barattolino di potted meat i cui residui si trovano anche nel suo letto alla fine della giornata (U 17.2122-25). Questo lessema sintagmatico ha un significato osceno e non c’è niente da fare: qualsiasi tentativo di edulcorare il romanzo di Joyce, di parlar per eufemismi e perifrasi, arrampicandosi sugli alti pioli d’una critica contegnosa e garbata, non può che veder molto alla lontana, come un puntolino sulla terra, l’indecenza saliente di questo libro, che non a caso, seppur poco compreso nella sua oscura articolazione stilistica, ha subìto tredici anni di censura in America.
A Molly piace la carne in scatola perché le piace fare sesso. Pot, così come la ‘grotta’ da cui è nata Molly («caved mountain» è uno dei significati dell’antica denominazione di Gibilterra secondo O’Shea, dal quale Joyce trasse spunto)², così come il vaso da letto su cui Molly passa metà della nottata, non sono che alcuni oggetti cavi d’una lunga lista riconducibili a Molly per metonimia e metafora insieme: chamber si riferisce al pitale e ad una stanza, per cui «chamber music» è sia la ‘musica da camera’ che Molly, cantante lirica, esegue, sia – proprio così! – la pisciatina sonora dell’eroina in «Penelope». Flussi, appunto: alimentari, discorsivi, concomitanze polisemiche, toccate e fughe della penna incontenibile e incontinente di James Joyce. A continuar l’elenco degli oggetti cavi riconducibili a Molly non si finirebbe più la lista. E son tutti, si direbbe, importanti.
Ma è tutto qui il giuoco? Potted meat ad indicare, con una metafora tirata per i capelli, che a Molly piace fare sesso? Perché la carne in scatola la compra, la mangia, non è un’effige sacra da tenere in camera da letto o un soprammobile, il sovvenire votivo delle proprie aspirazioni. Doppio senso, certo… Ma anche carne vera, letterale, nel senso proprio della letterarietà né pratica, né praticabile tipica dello statuto artistico del linguaggio: Molly preferisce la carne in scatola perché non ha voglia di cucinare. E che altro rapporto ci sarebbe tra Molly e la carne in scatola? Un indice joyciano relativo alle aspirazioni della sua eroina? La sostituzione simbolica di tali aspirazioni? Un’etichettatura alla Brecht da porre accanto all’eroina, per identificarla? O che altro?
I gusti di Molly non sono raffigurati solo per indicare il costume o le preferenze dell’eroina per certe pietanze. Dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei… Molly è raffigurata con rivestimenti esteriori che ne precisano l’interiorità, la femminilità in senso più esteso.
Bisogna fare un passo ulteriore, affondare nella melma del senso, inoltrarsi, senza troppo impantanarsi, nella nebbia d’oscurità delle parole e delle cose. Senza inciampar troppo: incespicando a tentoni. Potted meat, carne inscatolata, o meglio carne e recipiente di coccio, comunque un contenitore dalla foggia antica. È un prodotto moderno, non c’è dubbio: ma non per Joyce, che mescola gli elementi della modernità con rimandi all’antichità dall’inizio alla fine del suo libro. Potted meat è un’allusione al cannibalismo. Perché Molly, volente o nolente, e senza dubbio affatto ignara, non è solo la bella irlandesina di Ulisse, ma rappresenta una sorta di Ewigweibliche che si perpetua dalla notte dei tempi. Molly è l’emblema della Grande Madre, dell’energia femminile che riproduce la vita, della Natura che si oppone al fare storia della politica. Ma non è lei stessa, in quanto personaggio romanzesco, la Grande Madre, né pensa di esserlo. È una donna irlandese come tante, più bella di altre forse; e che si professa una convinta cattolica, benché poco praticante. Cos’è allora questa storia della Grande Madre? Che c’entra con Molly e i suoi problemi quotidiani?
In «Penelope» c’è un’apparente apertura di James Joyce alla metafisica. Solo apparente, si direbbe. C’è un substrato psicologista nel romanzo di cui dar conto. Lo confidava T. S. Eliot a Virginia Woolf: il romanzo di Joyce è troppo freudiano. Però poi, recensendolo, Eliot lo collegava al Ramo d’oro di James George Frazer, alle ricorrenze cui s’era votato il comparativismo del grande antropologo scozzese: quello era il libro che allora più interessava ad Eliot, come ha scritto Joyce stesso delle interpretazioni sbilanciate che Ezra Pound offriva di Ulisse. Capire Ulisse dalla prospettiva del lettore: un fenomeno ricorrente fin dagli inizi della sua pubblicazione e prima ancora, quando passava in stesure più o meno definitive nelle mani di amici, editori e redattori. Intentiones lectorum che han recato a Joyce tanti problemi personali.
Se c’è Frazer, c’è ancor di più Carl Jung nel simbolismo psichico di Molly. Proprio in quegli anni Joyce ne era interessato. Archetipi junghiani strappati alla metafisica e i cinque elementi essenziali della Grande Madre disegnati dallo junghiano Erich Neumann.³ Si confrontino quest’ultimi coi «four cardinal points», i «quattro punti cardinali» che Joyce attribuisce a «Penelope» in una citatissima lettera a Frank Bulgen.4 Si vedrà allora che l’unico elemento mancante rispetto al postumo schema di Neumann, la bocca, è proprio la forma che assume l’episodio per intero: la bocca parlante di Molly.
Cosa c’entra tutto questo con la carne in scatola e i gusti di Molly? Molto, direi. Non si può leggere Ulisse solo come una storia di tre personaggi principali presi dalle loro faccende quotidiane. Né votarsi ai soli parallelismi e antinomie con l’Odissea di Omero. Perderemmo molti dei significati che Joyce ha attribuito al «movimento degli oggetti», per usar qui una fortunata espressione che György Lukács, ne Il romanzo storico (1947), riferisce all’elemento di fondo del genere romanzesco.
Molly, mangiando la carne in scatola, compie un gesto di rigenerazione: si alimenta e tiene in vita in sé il morto del Bloomsday, Dignam. Dig-man, l’uomo da seppellire, secondo il ribaltamento che Joyce fa della parola man: un uomo che non è più un uomo, che, seppellito, è uno gnam o gnam gnam da masticare, come Bloom pensa nel cimitero di Glasnevin:
Ordinary meat for them. A corpse is meat gone bad. Well and what's cheese? Corpse of milk. (U 5.981-82)
Cibo consueto per loro. Un cadavere è carne andata a male. Beh e allora il formaggio? Cadavere del latte. (136)
Molly è il grembo, il vaso e l’urna da cui l’uomo rinasce, l’ashpit («raccattacenere») dal cui baratro la donna si rigenera da sola. Se c’è un morto importante nel Bloomsday, occorre anche che ritorni in vita, non solo con la seduta spiritica di «Ciclopi», non solo ne «Le mandrie del sole» e nella fantasmagoria di «Circe», ma sub specie scripturae.
L’associazione tra l’uomo nella cassa da morto e il potted meat è ricamata da Joyce stesso, per tramite di un ‘testo’ (il Freeman’s Journal) e di Bloom che lo legge:5
He [Bloom] unrolled the newspaper baton idly and read idly:
What is home without
Plumtree's Potted Meat?
Incomplete
With it an abode of bliss. (U 5.143-47)
[Bloom] [s]rotolò passivamente il giornale a forma di manganello e lesse passivamente:
Che casa è
Senza la [carne in scatola] Plumtree?
Una noia.
Se c’è, una dimora di gioia. (99)
Bisogna scivolar giù di tre capitoli, fino a «Lestrigoni», perché Bloom trovi il tempo per pensarci, associandolo a Dignam:
Ham and his descendants musterred and bred there. Potted meats. What is home without Plumtree's potted meat? Incomplete. What a stupid ad! Under the obituary notices they stuck it. All up a plumtree. Dignam's potted meat. Cannibals would with lemon and rice. White missionary too salty. Like pickled pork. Expect the chief consumes the parts of honour. Ought to be tough from exercise. His wives in a row to watch the effect. (U 8.742-47)
Insacco e i suoi discendenti ammastardati e allievitati lì. [Carni in scatola]. Che casa è senza la [carne in scatola] Plumtree? Una noia. Che annuncio stupido! Sotto i necrologi l’hanno infilato. Tutti sull’albero di susine. La [carne inscatolata] di Dignam. I cannibali loro sì con limone e riso. Missionari bianchi troppo salati. Come il maiale in salamoia. Immagino che il capo si mangi le parti più onorevoli. Saranno dure per via dell’esercizio. Le sue mogli in fila a osservare l’effetto. (187)
Il riferimento alle donne in fila e al capo tribù che mangia la parte migliore si ricollega, nella mente di Bloom, alle fedeli che aspettano di ricevere il corpus Christi (l’ostia, la ‘vittima’) dal sacerdote:
The priest went along by them, murmuring, holding the thing in his hands. He stopped at each, took out a communion, shook a drop or two (are they in water?) off it and put it neatly into her mouth. Her hat and head sank. Then the next one. Her hat sank at once. Then the next one: a small old woman. The priest bent down to put it into her mouth, murmuring all the time. Latin. The next one. Shut your eyes and open your mouth. What? Corpus: body. Corpse. Good idea the Latin. Stupefies them first. Hospice for the dying. They don't seem to chew it: only swallow it down. Rum idea: eating bits of a corpse. Why the cannibals cotton to it. He stood aside watching their blind masks pass down the aisle, one by one, and seek their places. (U 5.347-54)
Il prete le passava in rassegna, mormorando, col suo affare in mano. Si fermava accanto ad ognuna, estraendo il pane della comunione, scrollando una goccia o due (lo tiene in acqua?), e glielo infilava dritto in bocca. Il cappello di lei e la testa sprofondavano. [E poi un’altra. Il cappello di lei sprofondò subito.] E poi un’altra: una vecchietta. Il prete si chinò e glielo mise nella bocca aperta, mormorando tutto il tempo. Latino. La prossima. Chiudi gli occhi e apri la bocca. Che? Corpus. Corpo. Cadavere. Buona idea il latino. Prima le stupisci. Ospizio per i malati terminali. Non sembrano masticarlo: si limitano a inghiottire. Idea bizzarra: mangiare pezzetti di cadavere il motivo per cui i cannibali ne sono attratti. (104-5)
La donna viene definita, attraverso la bocca, un «[h]ospice for the dying» («[o]spizio per moribondi»). Con l’ironia che gli è propria Joyce parla del cappello in termini di pot, cui l’uomo è destinato, stabilendo un nesso tra meat e l’uomo: head («testa», ma anche «cappella» nel senso di glande, per cui in inglese ha anche lo stesso senso indecente di meat) dentro un pot. L’uomo è costretto in un involucro femminile («hospice») cui è destinato nella sua condizione mortale («for the dying»). Il brano citato sopra continua:
He approached a bench and seated himself in its corner, nursing his hat and newspaper. These pots we have to wear. We ought to have hats modelled on our heads. They [women] were about him here and there, with heads still bowed in their crimson halters, waiting for it [the host] to melt in their stomachs. (U 5.354-58)
Si avvicinò a un banco e si mise a sedere all’angolo, con in braccio il cappello e il giornale. Questi pitali che ci tocca tenere in testa. Sarebbe meglio se prendessero prima la forma della testa per farci i cappelli. [Le donne] [e]rano tutte intorno a lui, coi capi ancora chini negli emblemi di appartenenza cremisi, in attesa che quel coso gli si sciogliesse nello stomaco. (105)
Nello «Schema Gilbert» Joyce ha assegnato a «Penelope» gli attributi di «Earth» («Terra») e di «Flesh» (carne viva; e non ‘meat’, carne morta da mangiare).6 Ciò detto, l’immagine su cui Bloom ironizza è ribaltata in seguito da Joyce, proprio nel momento più saliente di Ulisse: il gran finale che è «Penelope». Che corpus sia associabile a body (corpo) è certo, per mera traduzione. Che sia associabile a corpse (cadavere) è invece una pensata di Bloom, che capovolge il senso eucaristico di corpus, il corpo di Cristo che rende eterna l’anima o, per dirla con un andante canonico: «corpus Christi edimus, ut vitae aeternae possimus esse participes» («mangiamo il corpo di Cristo per poter partecipare alla vita eterna»).
Quell’ingoiare senza masticare e la «rum idea» («idea bizzarra», sì, ma anche «idea rum», ossia «idea al rum» e «idea di ruminazione») verranno ribaltati nella scena a Howth, quando la diciassettenne Molly si toglierà di bocca un pezzetto di dolce e lo offrirà a Bloom per incoraggiarlo a chiederle di sposarlo. Verranno ribaltati; si toglierà di bocca… Già! O furono ribaltati, si tolse di bocca, come dovrebbe dirsi, visto che il romanzo si chiude su un evento che precede lungamente il Bloomsday. O sono ribaltati, visto che si tratta d’un ricordo rivissuto al presente da Molly, di un passato rivisitato. Futuro, presente e passato: tutti e tre insieme in una sola enunciazione di «Penelope», a riallacciarsi agli altri momenti della storia.
Nell’attribuirle la carne in scatola come uno dei suoi cibi preferiti James Joyce indica che la femminilità di Molly rigenera, fagocitando, la vita di un essere già morto: è il risvolto positivo della donna, che in Molly assume la forma della Grande Madre buona, costruttiva, ottimistica. O per dirla con le parole di Molly, gli uomini vogliono «get in there where they come out of» («entrar lì da dove fuoriescono») (U 18.806): espressione foggiata su misura per l’eroina, ma che Joyce stesso, negli appunti preparatori di Ulisse, indica con la più generica espressione «what we go into & get out of» («quella in cui entriamo & fuoriusciamo»): espressione di rinascita, e non il contrario.7
È Molly che, mangiando simbolicamente la carne in scatola, rigenera la vita? Ovviamente, no. Né è la femminilità tout court, ma il principio femminile che, secondo quanto fa intendere Joyce, è a fondo del processo creativo della scrittura: Molly rappresenta sì la Natura cui l’arte si inspira, è sì la Penelope moderna, ma rappresenta anche la parte iniziale del nome dell’eroina omerica, la ‘penna’ (‘pen’, in inglese). È con l’abbreviativo «Pen» che Joyce si riferisce a Penelope nei suoi appunti; è sul gioco di parole tra Penelope e la penna, tra il tessere il sudario per disfarlo e il costruire la trama del romanzo e disfarlo che Joyce ordisce un discorso importante su cosa significhi fare letteratura e che rapporto possa essa avere con la vita. Disfare non è annullare un’operazione compiuta, cancellarla e toglierla dalla faccia del mondo. Né per Joyce, né per Omero. Cancellare comporta un far trascorre il tempo, ossia dar corpo agli accadimenti testuali e dell’azione, così come tessere e disfare il sudario nell’Odissea porta al depauperamento di Itaca, di cui si lamenta Telemaco, e al ritorno di Ulisse, di cui si rallegra. Per Joyce si tratta di far rivivere la Dublino perduta e di mettere alla ribalta l’emozione che porta l’uomo a vivere la propria vita.
In Ulisse la carne in scatola è assunta nel suo gradiente di cibo che ha subìto un processo di modificazione e di conservazione, così come il sale al posto dell’uovo proprio accanto alla scatola di carne vuota sta a indicare la vita che viene conservata dalla femminilità, come se nulla dovesse andar perduto (U 17.296-18). Il sale è un elemento tipico della rinascita, e veniva messo ab antiquo nelle tombe: nella credenza, anziché l’uovo che si fa pulcino, è adagiato il sale in una forma cava, come in una tomba o grembo, un womb o tomb, in cui si aspetti che rinasca qualcosa. Di là dal fatto che il sale richiama l’idea del mare, cui la femminilità di Molly è associata per tangenza. Ecco l’apprezzamento di Molly alle virtù del sale mentre menziona due dei suoi cibi preferiti:
after we took the port and potted meat it had a fine salty taste yes because I felt lovely and tired myself and fell asleep as sound as a top the moment I popped straight into bed (U 18.131-34)
dopo la volta che abbiamo bevuto il porto e mangiato la [carne in scatola] aveva un delicato sapore salato sì perché mi sentivo bene e stanca e sono piombata nel sonno (705)
Qui salty non assume solo il significato di sapido, salato e, per estensione, saporito. Assume soprattutto il significato di salvifico, associato qual è alle parole port e potted meat nei significati di luogo d’approdo dei marinai e di uomo da conservare per una possibile palingenesi. Lo scomparto della credenza in cui Molly tiene i suoi cibi sembra una spiaggia in cui tutto si riversa alla rinfusa, per riemergere a futura memoria o perdersi nel deperimento. La femminilità conserva, ma sempre nel suo punto di contatto con la scrittura. Scrittura femminile, dunque (lo si vede non solo, ma soprattutto e soprattutto come prassi, nell’ultimo episodio), se è vero che Stephen scribacchia versi che non han la vena d’un frammentista di stazza e Bloom aspira a scrivere senza farlo mai. Questa è quantomeno un’interpretazione percorribile del perché alla ‘voce’ di Molly in «Penelope» Joyce volesse conferire un carattere grafico, di scrittura, con alcune lettere barrate ad emendare i refusi.
Se la panna che Molly aggiunge al tè in «Calipso» esprime la sua golosità, essa è anche il simbolo del nutrimento originario dell’uomo allo stato più puro. In quanto espressione della femminilità la panna è il fior fiore del latte, del nutrimento della vita che nasce, così come del giorno che sorge o, se si vuole, della storia che comincia con la ‘schiuma’ da barba, le ‘spume’ del mare, and last but not least, il latte che viene bevuto al mattino dai coinquilini della Torre Martello. È quello che Joyce chiama, in «Eumeo», «the galaxy of events» («la galassia degli eventi»), l’asse del latte o Via Lattea da cui è originata la scrittura poetica col suo carattere di rielaborazione e conservazione del passato: due caratteristiche tipiche anche della carne in scatola.
Prender per buone le singole ottiche dei personaggi e pretendere che Joyce v’abbia riposto le proprie idee è fuorviante. In Ulisse la donna è raccontata quasi esclusivamente dai personaggi maschili. Tranne in «Penelope» e dall’autore che insinua il suo sguardo tra le pieghe intimamente realistiche dei personaggi. Joyce è ovunque nel suo testo: trama il filo e si ritrae, offrendo il suo punto di vista in un dialogismo che non lo sovrappone a quello dei personaggi. L’ottica di Stephen è lungi dall’essere il punto di vista dell’autore. E tanto vale per quella di Bloom, nonostante stia sempre lì a contar soldi come faceva Joyce.8
Nei primi decenni successivi all’introduzione della pastorizzazione, il latte veniva guardato con sospetto, quale fonte di malattie. Se per Molly è motivo d’orgoglio avere «a great breast of milk with Milly enough for two» (U 18.570-71; «un bel senone di latte con Milly abbastanza per due»), ecco che per Bloom vale il contrario. L’informatissimo Bloom, rifacendosi alla manualistica dell’epoca, sospetta che Molly abbia causato a Milly una leggera anemia, avendola allattata più a lungo del necessario:
Day I caught her [Milly] in the street pinching her cheeks to make them red. Anemic a little. Was given milk too long. (U 4.432-34)
Quel giorno che [Milly] l’ho sorpresa in strada a pizzicarsi le guance per farsele diventare rosse. Un poco anemica. Ha bevuto latte per troppo tempo. (92)
Certo, le due affermazioni non sono perfettamente antitetiche, ma antitetica è la concezione dei benefici del latte, al punto che Joyce sostituirà il nome di Rudy con quello di Milly nelle ultime stesure del passo citato, con ogni probabilità per affermare il carattere benefico del latte, dato che Rudy muore dopo undici giorni, mentre Milly sprizza di vita ricalcando le orme ammalianti e le fattezze della madre.
Non meno pessimistico nei confronti dei benefici del latte è Stephen, coi suoi denti cariati che indicano, a detta di Mulligan, una carenza di latte. Le due concezioni della mascolinità e della femminilità espresse nel romanzo prendon corpo anche nella raffigurazione delle colazioni di Stephen e Molly: Stephen versa il tè (solido) nel latte (liquido) a mimare l’annegamento dell’uomo (un Leitmotiv di «Telemaco» e «Proteo»), cui fa da contraltare Molly in «Calipso» che, versando la panna densa nel liquido tè, alimenta il flusso della vita in una rotante spirale.
Il tè rappresenta il fluire della vita nel corpo dell’eroina, il suo continuo alimentarsi e purificarsi. Se si vuole si può cogliere anche un significato liberatorio della donna nel tè, dal momento che in una serie di lapsus Molly esprime il proprio dissenso nei confronti del marito facendo riferimento al tè, laddove questa bevanda non avrebbe ragion d’essere. Per esempio, dice che la Maybrick avrebbe messo l’arsenico nel tè (U 18.240), il che è una sua invenzione (si leggano le edizioni del Times londinese durante il processo Maybrick); conosce Boylan, mentre beve il tè; lo ricerca nello stesso locale con la scusa di andarvi a bere il tè; si lamenta del potere economico del marito riferendosi al tè; il tè è oggetto del suo desiderio di acquisti; le ricorda alcuni splendidi momenti della sua fanciullezza e via dicendo.
Oltre al tè, il Porto è una delle bevande preferite di Molly. Esso evoca sì la penisola iberica in cui Molly è nata, ma è anche un sinonimo di harbour, di porto, ciò che salva l’uomo dall’annegamento immaginato da Stephen nella prima parte del romanzo. Il mare e con esso la femminilità annegano l’uomo, pensa l’aristotelico Stephen; invece salva, fa pensare James Joyce con il «Port» o «port» che poi si potrebbe associare anche alla «porter» (l’irlandesissima Guinness) che piace tanto a Molly. E così via, slogando e dislocando in dislocuzioni. Port, appunto, come il sostantivo ‘porto’ in italiano, da cui si parte prima che il nostos riconduca a casa. Molly lasciata al mattino dentro il letto; ritrovata a letto la sera. Marion (il nome anagrafico di Molly Bloom), «star of the Sea» o stella maris, come Maria e Mary, «a beacon ever to the stormtossed heart of man» (U 13.7-8; «un faro perenne per il cuore tempestato dell’uomo»). Che poi non è che l’epiteto «stella del Mare» valga solo per Molly: non si chiama Mary anche la sua antagonista, la domestica che si lascia abbindolare dal marito? Le donne di Ulisse si completano l’una con l’altra. Le sfaccettature della femminilità son tante e son complesse, ma non quelle degli ethoi femminili che fan semmai da coro e preludio all’assolo di Molly in «Penelope».
Ciò detto, Molly è associata al mare in modo affatto diverso da come la pensa Stephen Dedalus. Lei stessa in alcuni passi di «Penelope» esprime il pericolo delle acque salmastre:
I couldnt even change my new white shoes all ruined with the saltwater and the hat I had with that feather all blowy and tossed on me how annoying and provoking because the smell of the sea excited me of course (U 18.970-73)
non mi sono potuta neppure cambiare le scarpe bianche nuove tutte rovinate acqua di mare e il cappello che avevo con quella piuma tutta piumosa sbattuta e scossa dal vento che fastidio e provocante perché il mare col suo odore mà sempre eccitata certo (726)
Non solo ‘acqua’, ma ‘acqua salmastra’. E scarpe bianche: come il latte. Per l’iconoclastia joyciana il colore della castità e del pudore non è il bianco, ma il rosso, quel «crimson» («cremisi») che hanno le donne ‘fagocitanti’ in chiesa o Gerty quando arrossisce. Il bianco indica semmai una femminilità su cui scrivere, una «blank page» («pagina vuota e bianca»), secondo l’ottica di Bloom in «Sirene»; ed è per Molly il colore della seduzione e della passione, come si inferisce da diversi passi di «Penelope».
Il pericolo del mare anche per Molly equivale, in un modo o nell’altro, alla triste scomparsa degli uomini al suo cospetto e alla conseguente perdita di sé:
those Officers uniforms on shore leave made me seasick (U 18.670-71)
le uniformi degli ufficiali in licenza mè venuto il mal di mare (708)
Ne consegue il tentativo di strapparli al mare, attraverso fantasticherie erotiche che, distolte dal senso letterale, assumono qualificanti ed ironiche suggestioni salvifiche:
I was thinking would I go around by the quays there some dark evening where nobodyd know me and pick up a sailor off the sea (U 18.1410-12)
stavo pensando ma ci andrei io sul lungofiume al buio qualche sera dove non mi conosce nessuno a prendermi un marinaio [strappandolo al mare] (736)
Il fatto che Boylan regali a Molly la bottiglia di Porto può significare che, col suo ruolo d’amante, lui le salva il matrimonio, mentre lei resta in attesa del ritorno dell’Ulisse moderno. Se si pensa a Molly come mera incarnazione di Madre Natura non se n’esce più. James Joyce ce la descrive poco e quel poco è offerto a tratti. Quel che sappiamo della fisionomia di Molly è prevalentemente quel che passa nella mente di Bloom. Ne vien fuori una donna raffigurata più alla maniera di Pierre Bonnard, un pittore dalla raffinata introspezione psicologica appunto, che non di Pierre-Auguste Renoir: Joyce, come Bonnard, incentra la ritrattistica sull’emozione che l’oggetto d’amore suscita piuttosto che sui dettami della ritrattistica tradizionale.9
L’attesa che grava sulla moderna Penelope non è statica, ha bisogno dei suoi riempitivi. Il Porto, oltre a segnalare una linea di demarcazione tra mare e terra, la riconduce alle sue origini iberiche, all’infanzia a Gibilterra, così come i dolcetti di un periodo della sua vita che non può più tornare indietro:
dont you will always think of the lovely teas we had together scrumptious currant scones and raspberry wafers I adore . . . what became of them ever I suppose theyre dead long ago the 2 of them its like all through a mist makes you feel so old I made the scones of course I had everything all to myself then (U 18.620-638)
non mi scorderò mai di quei tè buonissimi che abbiamo bevuto insieme quei succulenti scones con uva sultanina e cialde al lampone ci vado pazza […] che ne è stato di loro secondo me sono morti un sacco di tempo fa tutti e 2 è come tutto annebbiato ti fa sentire così vecchia facevo gli scones ovviamente avevo ogni cosa tutto per me sola (717)
Non può più tornare indietro quel tempo amabile ravvivato dal tè con gli «scones» e i «wafers»? O non sta già forse ritornando in vita con la sola evocazione lirica di quei momenti? È tutto «dead long ago» («morto tanto tempo fa») o proprio perché è morto da tempo la voce poetica di Molly li sta riportando alla luce aprendosi un varco nell’oscurità della stanza da letto e dell’inazione? Non è proprio l’enunciazione nostalgica a recare in sé il seme della resurrezione di luoghi e persone nuovamente raffigurati? Non siamo qui, come altrove in poesia, di fronte all’Unter-Schied di cui ha scritto Martin Heidegger, alla «dif-ferenza» che «porta il mondo al suo esser mondo, porta le cose al loro esser cose», che «in quanto linea mediana, media il realizzarsi del mondo e delle cose nella loro propria essenza, cioè stabilisce il loro essere l’uno per l’altro, di questo fondando e compiendo l’unità»?10 Ed è veramente la ‘raffigurazione’ ciò che conta e non piuttosto il suo nesso con un’emozione specifica e permeante che ritorna in vita in Molly prima, nei lettore di «Penelope» poi?
«Penelope» è tutto un riportare alla luce il passato, in nessi emotivi con l’eroina, tesi, nel progetto di Joyce, a coinvolgere la nostra ricezione di lettori. Secondo una sua formula che si riferisce a «Circe»: «Like its fellows [the previous episodes of Ulysses] it presents to me great technical difficulties and for the reader something worse» («Come i suoi compagni [gli episodi precedenti di Ulisse] mi pone davanti a grandi difficoltà tecniche e per il lettore a qualcosa di peggio»).11 Questo è valido anche per gli episodi successivi, tra cui «Penelope». Un doppio piano della poesia è qui pensato: la donna che si sente sola e s’esprime, cerca di convincersi delle sue giuste cause; il lettore che, benché tagliato fuori dagli immediati referenti, è toccato emotivamente dalla liricità permeante del componimento. Questi due piani fondamentali dell’episodio si intercalano nel piano più segnatamente ‘romanzesco’, in cui è il lettore a dover ricostruire l’intreccio che ha portato Molly al punto in cui enuncia il suo monologue (female): un monologo (femminile) poetico, misterioso e rigenerativo.
Così le vivande che offre la natura stan lì perché Molly ritrovi in sé, al solo pensarle, la giovinezza, in questo continuo sforzo di rigenerazione di sé e del passato che torna nell’espressione poetica. Frutta e verdura si fan cibi paesaggistici, impressionistici, toccate permeanti e fughe liriche dell’occhio che nutre il cuore ben più che lo stomaco. Questo carattere immaginativo e poetico del cibo è corroborato dal fatto che Molly non mangia né frutta, né verdure nel Bloomsday, se non forse le pesche di cui le fa dono Boylan prima del loro incontro.
Naturalmente molte delle questioni relative a Molly Bloom e Madre Natura (e la Grande Madre) meritano una centralità propria in uno scritto a parte dedicato a «Penelope», anche grazie all’ausilio dei lavori pubblicati da autori che negli ultimi sessant’anni si sono prodigati a ricostruire cronologie separate dei personaggi di Ulisse.
Poscritto
Di là dai testi menzionati nelle note, e dalla traduzione di Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi qui riprodotta, con alcune modifiche esplicite, nelle citazioni estese (James Joyce, Ulisse, Newton Compton, Roma 2015), ho qui usato, per mera ragione pragmatica, il testo dell’edizione critica di Hans Walter Gabler riprodotta in James Joyce, Ulysses, Vintage, New York 1986. Il testo di Gabler rende più facile, con la sua marcatura delle righe, ritrovare i passi da me citati. Resta il fatto che questa edizione Vintage ristabilisce il punto di interruzione alla fine del quarto «periodo» di «Penelope», un puntino che Gabler aveva omesso di sua iniziativa nell’edizione critica del 1984. Ciò detto, è mia opinione che qualsiasi edizione autorizzata da James Joyce sia, con tutti gli occorrenti refusi, più appropriata dell’edizione di Gabler, nel senso che quest’ultima non è stata certamente letta da Joyce, né da lui autorizzata. Credo inoltre che Joyce stesso amasse gli equivoci, le varianti, la non staticità monolitica del testo, i refusi e gli errori del mezzo a stampa, i trabocchetti che le frasi comportano. Se così non fosse, Joyce non sarebbe né l’autore di Ulysses e Finnegans Wake, né delle sue stesse lettere e note preparatorie ai romanzi. Egli ha tradito Ulisse, se così si può dire, al pari di come abbia riportato fedelmente o tradito il senso originario di una miriade di testi altrui, antichi, moderni e contemporanei. E per testi non intendo, qui, solo i testi scritti, ma anche figurativi e di altra natura (fotografie, pietre, almanacchi, dettagli ambientali, cronologici ecc.). In sostanza, Joyce non ha riservato ad Ulisse uno statuto privilegiato rispetto a come egli abbia proceduto riguardo ad altri testi. Così facendo, non ha tradito sé stesso.
Se uno ritenesse di leggere qualsiasi libro introduttivo su Ulisse per seguir la via maestra e procedere con gli anni da sé sarebbe un illuso. A mio parere lo studio introduttivo più significativo che sia stato pubblicato su Ulisse resta il primo, scritto da un amico di Joyce e con almeno un capitolo in cui ci sarebbe la mano di Joyce stesso: Stuart Gilbert, James Joyce’s Ulysses: A Study (1930). Anche il tentativo di dare un ‘ordine’ a Ulisse da parte di Giorgio Melchiori, avvertito peraltro da Mario Praz di alcuni difetti del suo approccio, ha un suo merito storico ma limitato, nel senso che rendere, per così dire, apollineo il dionisiaco testo joyciano è una contraddizione in termini, che trova la sua ragion d’essere in un tentativo di porre qualche punto fisso, più da filologo (non peraltro genetista) che da critico, ad un romanzo che sfugge da tutte le parti e che merita il contributo di centinaia di interpreti nel corso delle generazioni per esser meglio compreso.
Benché Ulisse sia stato concepito in Italia e proseguito in Svizzera e Francia, ben pochi studi su questo romanzo sono disponibili in italiano, lingua che Joyce parlava (è la lingua dei suoi figli) e nella quale scriveva. Quasi tutti gli scritti su Joyce sono tutt’oggi in inglese e mai tradotti in italiano. Gli interventi italiani sono per questo motivo molto arretrati, poiché sono soprattutto prodotti da anglisti, e soprattutto da anglisti italiani che seguono canoni esteri anziché avventurarsi in robuste letture dell’opera joyciana. Se personalmente ho avuto la fortuna, grazie a Rosy Colombo, di avventurarmi a scrivere su Ulisse sia per la mia tesi di laurea che per la dissertazione dottorale, studi innovativi su Ulisse in Italia ce ne sono pochi, nonostante vi si tengano molte conferenze. Colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente Nadia Fusini, correlatrice della mia tesi di laurea e mia co-tutor del dottorato, per le sue osservazioni sull’immaginario femminile e Franca Ruggieri, presidente della commissione finale esterna del dottorato, per le sue osservazioni riguardo al mio lavoro su Joyce.
Al problema della grande carenza di traduzioni italiane degli studi su Joyce, si aggiunga la censura della traduzione di Ulisse promossa dalle leggi italiane, che hanno impedito che il romanzo venisse tradotto da traduttori diversi. Per quasi un secolo Ulisse, per motivi mercantili, è stato tagliato fuori dal dibattito culturale italiano, dalle sue problematiche in quanto opera critica della società e della vita, imponendo che Mondadori fosse la sola casa editrice autorizzata a diffondere l’opera, in una sola traduzione, quella di Giulio de Angelis, carente non per suo demerito, storicamente importante, ma del tutto da sé sola inadeguata. Solo con il venir meno della censura su nuove traduzioni di questo romanzo, ossia con il venir meno del diritto d’autore a settant’anni dalla morte James Joyce (morì nel 1941), si hanno nuove traduzioni, e ciascuno, che non legga l’inglese, può capire da sé la differenza, spesso abissale, tra l’una e l’altra. Di fatto, ce ne sono ancora poche, e anche le note sono spesso ataviche, affrettate, che non tengono conto di osservazioni nuove e non tanto originali in sé, quanto illuminanti. Ulisse è stato scritto in inglese. Si tende a dire di sì, in quanto l’inglese è la lingua base del romanzo. Certo Joyce inserisce frasi e discorsi in italiano, francese, tedesco, latino, greco antico e altro. Ma i giochi di parole? Potrebbe uno studioso inglese comprendere i giochi di parole, gli storpiamenti dell’inglese che Joyce fa sulla base dell’italiano. Se non si addentra nell’italiano ne dubito. La vastità culturale di Joyce, i suoi smarchi dai concetti precedenti, fanno sì che la sua opera sia importante che la si interpreti con contributi vari, non solo degli irlandesi, ma anche dei francesi, degli italiani, degli spagnoli e perfino dei giapponesi. Molly, non troppo in fondo, è nata e cresciuta nella penisola iberica. Chi siano il padre e la madre di Molly Bloom tutt’oggi non lo si è capito, nonostante le menzioni a l’uno e all’altra. Forse perché James Joyce non riteneva importante che lo si sapesse. Ma riteneva fondamentale che non lo si sapesse per certo.
Note:
- Joyce, James, Selected Letters of James Joyce, Faber and Faber, London 1975, p. 241. A cura di Richard Ellmann.
- Cfr., O'Shea, Henry George, O'Shea's Guide to Spain and Portugal, Adam & Charles Black, Edinburgh 1889, p. 157. A cura di John Lomas.
- Cfr. Neumann, Erich, La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell'inconscio, Astrolabio Ubaldini, Roma 1981, Schema 2.
- Cfr. Joyce, James, Selected Letters of James Joyce, cit., p. 285.
- La pubblicità del Plumtree’s Potted Meat è ispirata, oltre all’effettiva esistenza di un simile prodotto, all’inserzione della Meath Bakery pubblicata, così come scrive Joyce, in prima pagina, colonna a sinistra, sotto gli annunci mortuari il 16 giugno 1904. Il giornale dell’inserzione della Meath Bakery non fu il Freeman’s Journal, ma l’Evening Telegraph. Joyce ci ricama sopra, togliendo la "h" finale al nome della panetteria, sostituendo la carne in scatola al pane, ma mantenendo la famiglia quale target pubblicitario. Recupera ironicamente anche il carattere d’antichità del prodotto, ispirandosi al fatto che il nome Meath della panetteria viene dalla poco suggestiva Meath Street, che deve avergli fatto venire in mente l’antichissima nobile contea irlandese, per cui scrive «Ham and his descendants musterred and bred there», giocando sull’omofonia tra bred e bread ma mantenendo uno slittamento tra la carne (ham) e la sua illividita discendenza (bread). La scrittura di Joyce è ricchissima di questi guizzi metatestuali, spesso a mo’ di dislocazioni/dislocuzioni/slogature.
- Gilbert, Stuart, James Joyce’s Ulysses. A Study, Vintage Books, New York 1955, p. 30. Interessanti le riflessioni sul «potted meat» del Tindall, che però non fa distinzioni tra «flesh» e «meat», considerandoli entrambi attributi di Molly. Vedi: Tindall, William York, A Reader’s Guide to James Joyce, The Noonday Press, New York 1959, pp. 149, 156-57, 159, 169, 221 e 233.
- Cfr. Herring, Phillip F., Joyce's «Ulysses» Notesheets in the British Museum, University of Virginia Press, Charlottesville 1985, ‘Penelope’ 5:27.
- Vedi: d'Ugo, Nicola, «Ulisse polifonico. L’irriducibile dialogismo di James Joyce», Amnesia Vivace, n. 32, gennaio 2010.
- Cfr. d'Ugo, Nicola, «L’oggetto d’amore in Pierre Bonnard», Notizie in… Controluce, n. IX/6, giugno 2000, p. 20.
- Heidegger, Martin, «Il linguaggio», in Id., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1988, p. 37.
- Joyce, James, Selected Letters of James Joyce, cit., p. 266.
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