Vita, morte: un paese che incollana
d’ocra una collina, una bimba
che stende dita al greve voltolare
d’una foglia, un ruscello che si sfronda
sui sassi d’un passante d’auto.
Fuggire la felicità di luogo
in clima per non essere infelici.
Pigri contro i frantumi d’una fede,
senz’aspettarsi nulla di meglio.
Ecco, ritorna un amaro di mare.
E lei ch’è salita precipitando
non ha pace quanto me. Serrano
tempi diversi, ma la stessa guerra
di trincea – attesa – che non dà senso
al ch’io recida ogni nodo ravvolto
fin qui, al friccicare dei ciottoli,
a ogni ritorno di risacca.
Vorrei ricogliere della conchiglia
i frutti della primavera,
amorosa coi suoi viali ampi
trascorsi negli occhi. E spalle di carpini,
fianchi d’ippocastani, gambe d’olmi
resilienti al vento. Sebbene un mare,
muliebre onnipresenza contro
la flebile astanza d’esserci,
costretta e non voluta, putrido
di putredine, fracido di foglie
(quell’attimo che ci conobbe
divenendo entrambi altro: ed ora un tetro
di tedio, un dio buio di nulla), ci stringa
sotto un cielo ripido. Così contro
l’inverno un arruffo di pigolii
tra le rame magre s’arrischia
per trattenersi in vita. Ed una sola
domanda: Perché?
Nessun commento:
Posta un commento