18 luglio 2015

«Il taglio. Conversazione con Felice Cimatti» di Doriano Fasoli

Felice Cimatti insegna Filosofia del linguaggio all’Università della Calabria. Fra le sue recenti pubblicazioni, La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens (Ombre Corte, 2011) e Filosofia dell’animalità (Laterza, 2013). Ha curato, insieme a Silvia Vizzardelli, Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi (Quodlibet, 2012); con Alberto Luchetti Corpo, Linguaggio e psicoanalisi (Quodlibet, 2013); e con Leonardo Caffo A come animale. Per un bestiario dei sentimenti (Bompiani, 2015). Nel 2012 ha ricevuto il Premio Musatti dalla Società Psicoanalitica Italiana. È docente dell’Istituto Freudiano, sede di Roma. È uno dei conduttori del programma di attualità culturale Fahrenheit di Rai Radio 3. L'intervista che segue si incentra sull'ultimo libro di Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte, uscito in questi giorni per i tipi Quodlibet.

Doriano Fasoli: A cosa rimanda il titolo del suo libro?

Felice Cimatti: L’idea è quella di un taglio, è una espressione di Lacan, una linea netta che lascia sul corpo umano una ferita che non si rimargina. Viene in mente uno dei tagli di Fontana, come questo riprodotto qui sotto. Il taglio è una ferita netta, che lascia una traccia indelebile nel corpo umano. Al taglio è connessa anche l’idea che i bordi della ferita non possono più ricongiungersi. Nel corpo rimane quella linea, e il dolore che lo accompagna. Il punto è che si tratta di una ferita che non si rimargina. L’animale umano è questo taglio.

In questo senso il sottotitolo del libro è Linguaggio e pulsione di morte. Il taglio, seguendo Lacan (ma anche il Wittgenstein del Tractatus, che prima di Lacan aveva lucidamente intravisto gli effetti del linguaggio sul corpo umano), è il linguaggio. Gli esseri umani parlano, e il fatto del parlare installa nel corpo umano un dispositivo impersonale ed autosufficiente che persegue un proprio obiettivo, che non coincide con quello del corpo che lo ospita. Sembra una idea misteriosa, in realtà se si legge Chomsky, ad esempio, il più grande linguista del ’900, si scopre che la facoltà del linguaggio è appunto un dispositivo che ‘genera’ (è esattamente l’espressione di Chomsky) enunciati in modo del tutto non intenzionale. Li genera perché non può non generarli, il linguaggio è questo dispositivo. Il linguaggio, per Chomsky, impersonalmente parla. Non siamo noi che usiamo il linguaggio, al contrario, il linguaggio è un dispositivo che genera enunciati. Per questo, è ancora Chomsky a dirlo, la funzione principale del linguaggio non è la comunicazione. La comunicazione serve a noi umani, ma il linguaggio umano non è fatto per questo (la comunicazione è la funzione dei linguaggi animali). Il linguaggio può generare enunciati di lunghezza infinita, che noi non usiamo perché non abbiamo la capacità di usarli (limiti di memoria, di attenzione, e così via). Il linguaggio è molto più potente di noi. Lacan la pensa così. Il linguaggio è la pulsione di morte allora, perché innesta nel nostro corpo finito, mortale, limitato, un dispositivo che lo proietta oltre sé stesso, dove il corpo non può andare. Prendiamo il caso del desiderio umano, distinto da un bisogno (ad esempio la fame) che una volta soddisfatto si acquieta. Un desiderio è indipendente dalla sua eventuale realizzazione, proprio perché non è un bisogno. Don Giovanni seduce migliaia di donne spinto da un desiderio che non ha nulla di biologico e di umano. È un desiderio che è spinto da un meccanismo interno – la pulsione di morte – che non può essere soddisfatta. Si pensi alla sequenza dei numeri naturali: 1, 2, 3 … n. Il linguaggio come dispositivo è questa forza interna che non si arresta, perché la sua esistenza consiste in questa stessa procedura. Il corpo umano, in quanto corpo parlante, è questa procedura. Il taglio è allora l’effetto sul corpo di un dispositivo che lo proietta sempre oltre sé stesso. Oltre i propri bisogni e le proprie possibilità corporee (si pensi alle dipendenze, alle ossessioni e così via).

Com’è articolato il libro?

È diviso in tre parti. La prima, «Dal corpo alla parola», analizza il modo in cui la psicoanalisi, in particolare Freud, Lacan e Laplanche, descrive il formarsi dell’animale umano. La psicoanalisi incarna una particolare teoria antropologica (simile a quella di Maurice Godelier, nel libro Al fondamento delle società umane): l’essere umano non nasce subito umano, bensì lo diventa nel tempo, in un processo senza fine, man mano che le strutture sociali (quello che Lacan chiama il Simbolico) vengono impiantate nel suo corpo. In questo senso l’umano propriamente non nasce come animale e poi diventa umano: al contrario, nasce subito dentro l’ambito umano. Si pensi a quanto è importante il fatto di ricevere un nome prima di nascere, con tutto quel che comporta ricevere proprio quel nome. Il corpo umano è da subito segnato dal taglio, e dalla sofferenza che comporta. Sofferenza che, in fondo, significa che il suo rapporto con il mondo, a partire dal proprio stesso corpo, è sempre mediato dal linguaggio. L’umano, su questo punto Lacan insiste molto, è l’unico vivente che ha un corpo, che non si limita ad esserlo. Il cosiddetto problema mente/corpo – nonostante i volenterosi e ingenui sforzi delle scienze cognitive – è irrisolvibile, perché l’umano è quella scissione. La seconda parte, «Parlessere» (altra definizione lacaniana), descrive più in dettaglio che significa essere un corpo segnato dal linguaggio. La terza e ultima parte, «Dalla parola al corpo», discute del grande assente della psicoanalisi: il corpo, appunto. Nonostante il luogo comune la psicoanalisi non è la cura che cerca di far ricordare alle persone quello che hanno dimenticato: al contrario, è una pratica che cerca di riportare la parola al corpo. La psicoanalisi è una terapia che mira al silenzio del corpo, più che alla parola della mente. Lacan prova a rappresentare questo passaggio con un nuovo concetto, quello di «sinthomo»: il corpo psicoanalitico è un corpo sintomo, un corpo che significa qualcosa, che uno specialista interpreta e spiega («questo sogno vuol dire questo e quest’altro…»). Il «sinthomo», invece, è un corpo tutto corporeo, che finalmente non significa più nulla, un corpo capace di essere soltanto un corpo. È sempre un corpo segnato dal taglio, ma è un corpo che ha imparato a fare qualcosa di quel taglio. Proprio come Fontana, che trasforma quel dolore originario in una esperienza estetica. L’idea ‘terapeutica’ del libro, se proprio se ne vuole trovare una, è questa: il vivente umano non è mai stato un corpo, la psicoanalisi è l’unica pratica che ha come obiettivo fare di un soggetto umano – quindi di una entità scissa e ‘tagliata’ – un corpo.

Quali sono stati i suoi fondamentali riferimenti nella costruzione del libro?

Jaques Lacan soprattutto, come il pensatore che più di ogni altro ha studiato l’impatto del linguaggio sul corpo umano. Il luogo comune che vuole Lacan come colui che riduce tutto a linguaggio è profondamente sbagliato, oltre che ingiusto. Poi Freud, naturalmente, anche se il Freud che preferisco è quello che piace a Laplanche, quello dei Tre saggi sulla teoria sessuale, quello della sessualità specificamente umana «perversa e polimorfa», quindi il Freud delle pulsioni e non degli istinti. Il Freud che non confonde la psicoanalisi con la psicologia, e che non pensa che la psicoanalisi un giorno verrà riassorbita dalla neurologia e della biologia.

La psicoanalisi, in effetti, è la scienza del modo in cui si diventa umani, un processo che è sostanzialmente non biologico. La psicoanalisi, per come la vedo io, non ha niente a che fare con la biologia o le scienze cognitive, altro sapere oggi di gran moda. E non ha niente a che fare con questi saperi, perché trascurano proprio ciò che rende umano l’umano, cioè la dimensione simbolica dell’esperienza propriamente umana. L’uomo della biologia è una specie di scimmia (il che, in senso soltanto zoologico è affatto vero). Ora, è vero che scimpanzé ed esseri umani sono molto simili, ma è anche vero che dal punto di vista del dispositivo – il linguaggio – che rende umano gli umani c’è una enorme differenza. Questo non vuol dire che siamo animali superiori o speciali, ma che siamo profondamente diversi (ho provato a sviluppare questo punto nel libro Filosofia dell’animalità, edito da Laterza). Oltre a questi psicoanalisti, nel libro è molto presente, in modo implicito ed esplicito, Ludwig Wittgenstein, il filosofo non filosofo che più amo; e poi Gilles Deleuze, il filosofo dell’immanenza. E poi c’è l’eco delle discussioni con colleghi e amici psicoanalisti, in modo particolare Alberto Luchetti, Manuela Fraire, Antonio Di Ciaccia e Massimo Recalcati. Le loro psicoanalisi sono spesso molto diverse, eppure la fortuna di poter parlare con loro mi ha molto aiutato a costruire un mio punto di vista.

La psicoanalisi continua a mantenere tutt’oggi la sua carica rivoluzionaria?

Francamente non mi sembra. Credo che sempre più l’istituzione psicoanalitica, come peraltro capita un po’ a tutte le istituzioni, abbia come missione principale quella di proteggere sé stessa, lasciando sullo sfondo quel potenziale rivoluzionario che suscitò così tante speranze: ad esempio, nell’Europa subito dopo la prima guerra mondiale, per non parlare di quello suscitato delle ricerche di Wilhelm Reich (qui lo vediamo in un ‘esperimento’ con un accumulatore orgonico).

Questo è il motivo, o almeno uno dei motivi, per cui Lacan continuamente fondava e poi scioglieva istituzioni psicoanalitiche, perché vedeva con lucidità il limite intrinseco delle istituzioni: diventare luoghi sclerotici e sclerotizzanti. La psicoanalisi mette in movimento il desiderio, che come diceva Deleuze è sempre rivoluzionario, e però proprio per questa stessa ragione spaventa. Sempre di più si ha l’impressione che i primi ad essere spaventati da questo desiderio siano gli stessi psicoanalisti. D’altronde la psicoanalisi sta diventando (o tornando ad essere) sempre più una esperienza per persone benestanti se non ricche. E ai ricchi la rivoluzione non è mai piaciuta. Da questo punto di vista ho l’impressione che l’arcipelago lacaniano, almeno quello italiano, che conosco un po’ meglio, sia più aperto all’esigenza di rendere più accessibile l’analisi a tutti. Allo stesso tempo rimango convinto che, almeno sul piano individuale, l’esperienza psicoanalitica rappresenti la possibilità di una straordinaria esperienza di libertà e cambiamento.

La psicoanalisi è stata sovente presa di mira, criticata, attaccata. Tra i suoi numerosi detrattori chi bisogna annoverare? I portabandiera delle terapie cognitivo-comportamentali, tanto per fare un esempio?

Ci sono diversi tipi di critiche. C’è quella di chi l’accusa di non essere scientifica. Una strana accusa, intanto perché molto spesso questi critici non sono scienziati, anzi, spesso sono filosofi della scienza; e la filosofia non è una scienza, quindi non è chiaro quale sia l’autorevolezza e l’attendibilità ‘scientifica’ di chi propone questa critica. Oltre al fatto che la psicoanalisi non ha mai preteso di essere una scienza come la fisica o la geologia. C’è poi una questione di ordine ancora più generale: una terapia, e la psicoanalisi è una terapia (oltre ad essere una teoria del modo in cui si sviluppa la peculiare sessualità pulsionale umana), può essere efficace benché si basi su di un metodo che la ‘scienza’ (ammesso che esista questa entità chimerica come la scienza al singolare) non prende in considerazione; una persona può stare bene anche malgrado la scienza (effetto placebo). Non tutto quel che ha valore nelle nostre esistenze ha una base scientifica. In più, almeno per la tradizione lacaniana, la psicoanalisi non è una psicologia, quindi non deve in alcun modo adeguarsi ai suoi metodi (ammesso che la psicologia possa essere definita una scienza; qual è, in effetti, il suo oggetto specifico? La mente. E che cosa è, concretamente, la mente? Il cervello? Ma non se ne occupa già la neurologia?). In generale la psicoanalisi viene criticata da tutti quelli che la vedono come una pericolosa pratica irrazionale. Anche qui, però, c’è da discutere sul perché di questa ansia di razionalità (non dimentichiamo che Auschwitz è stato il ‘perfetto’ prodotto della razionalità tecnico-scientifica in una delle nazioni più sviluppate del suo tempo). Qui ancora è evidente che la psicoanalisi, con il suo parlare di sessualità, di pulsioni, di desiderio, faccia ancora paura, nonostante la fragilità e la debolezza della psicoanalisi ‘ufficiale’. Il punto è che parlare di inconscio, nel tempo del pervasivo capitalismo contemporaneo che pretende di diventare l’unica modalità di relazione fra gli esseri umani, un capitalismo tutto incentrato su nozioni fantasmatiche e mitologiche come quella di «soggetto razionale» e di «scelta», significa mettere in crisi l’intera ideologia del nostro tempo. E questo, evidentemente, non è accettabile, ma non per ragioni scientifiche, bensì per motivi brutalmente economici. Ammettere che quello del mercato e dei suoi agenti razionali è un mito, come quelli degli aborigeni dei deserti australiani, non è ammissibile. In questo senso forse, nel rispondere alla domanda precedente sono stato troppo pessimista: in realtà la psicoanalisi incarna ancora, nonostante la sua ansia conformistica e domestica, una potente (benché paradossalmente repressa) istanza creativa e libertaria.

Forse per questo, nonostante tutto, è ancora così attraente. Quanto alle critiche che provengono dalle terapie cognitivo-comportamentali sono le critiche di chi vuole accaparrarsi clienti e riconoscimenti pubblici; qui la scienza non c’entra nulla (fra l’altro l’idea stessa di mettere insieme due aggettivi così diametralmente opposti come «cognitivo» e «comportamentale», ossia Chomsky e Skinner, mostra quanto tutta questa faccenda non sia seria: una terapia può dirsi cognitiva se si appella al soggetto e alle rappresentazioni mentali; una terapia è comportamentale se esclude l’esistenza di soggetti e di rappresentazioni mentali. Una terapia cognitivo-comportamentale è come un cerchio-quadrato, o un astemio-ubriaco).

«Uno dei fattori meno contestabili del relativo discredito in cui è caduta la psicoanalisi è la frammentazione del suo sapere, la sua dispersione, al di là di quanto è tollerabile, perché mette in causa la sua unità, e quindi la sua identità, e rende evidente l’assenza di consenso tra gli psicoanalisti». Condivide queste parole di André Green? E tale fattore di cui egli parla è il solo o le cause del problema sono anche altre?

Green ha perfettamente ragione. Il punto è che la psicoanalisi ‘ufficiale’ non sembra avere un suo oggetto specifico, quello che invece Freud, nel suo libro teoricamente ed empiricamente più importante, i Tre saggi sulla teoria sessuale, aveva individuato nella sessualità pulsionale (quindi non istintiva). Una sessualità non riproduttiva e non genitale. Secondo Freud questo è l’oggetto specifico della psicoanalisi. Una volta smarrito questo oggetto, si ha la sensazione che la psicoanalisi non abbia più un suo oggetto: l’inconscio, le emozioni, la relazione madre-bambino, il transfert ed il contro-transfert, la sessualità genitale, il simbolismo onirico e così via non sono oggetti (nel senso di oggetti di una disciplina scientifica) su cui la psicoanalisi abbia qualcosa da dire di davvero proprio, qualcosa che altre pratiche scientifiche non potrebbero ugualmente dire (e spesso anche meglio ed in modo più comprensibile). In questa che talvolta appare come una vera e propria confusione teorica (la situazione sembra quella di una prassi senza teoria), è chiaro che le critiche della psicologia o della neurologia hanno facile presa, perché almeno questa psicoanalisi non ha davvero modo di replicare. Non c’è niente di più triste, ad esempio, di quegli psicoanalisti che cercano di darsi un’aria ‘scientifica’ citando neuroscienziati (Damasio e Edelman vanno fortissimo fra gli psicoanalisti), come se bastassero un po’ di neuroni (per non parlare dei «neuroni specchio», che sono citati in continuazione e a sproposito) per rendere i concetti psicoanalitici più ‘seri’ e ‘scientifici’. Il punto è che la neurologia non sa che farsene di questa psicoanalisi. Non è che se qualcuno trova la regione cerebrale del Super-Io, per fare un esempio paradossale, allora questo concetto è scientificamente valido. Un concetto scientifico è valido se è inserito in un contesto coerente e sensato, e se serve a scoprire altri fenomeni. Si pensi al concetto di numero immaginario, il cui valore è ovviamente del tutto indipendente dalla sua eventuale localizzazione cerebrale. Nessun matematico si preoccupa delle sue basi cerebrali, perché quel concetto è comunque necessario per lo sviluppo della matematica. Lo stesso deve valere per i concetti psicoanalitici, che valgono, se valgono, perché necessari per la sua teoria e adeguati rispetto al suo oggetto specifico. Un sapere che fonda la propria attendibilità su un'altra disciplina scientifica è giustamente destinato a sparire per essere assorbito al suo interno. Uno psicoanalista che si affida alle neurologia è qualcuno che sta dicendo che il suo sapere è, al massimo, temporaneo.

Quando avvenne il suo primo incontro con la figura di Jacques Lacan?

I libri ci aspettano. Avevo gli Scritti da molto tempo, li avevo sfogliati senza riuscire ad entrarci. Come dicono tutti, sono difficili, e non ero abbastanza ambizioso per misurarmi con la loro difficoltà, quindi mi limitavo a ripetere il luogo comune, che ormai sento come stucchevole, «Lacan è illeggibile». Poi c’è stato un incontro, con uno psicoanalista lacaniano, Antonio Di Ciaccia (che è anche il traduttore italiano di Lacan), e un po’ alla volta Lacan ho cominciato a ‘capirlo’, nel senso che quello che diceva sul linguaggio e sull’animale umano risuonava con qualcosa che avevo già cominciato a pensare per altre vie. Ho cominciato a cogliere le somiglianze con Wittgenstein, e poi con la psicologia di Vygotskij, con Saussure naturalmente, e infine con Deleuze. Ho letto Lacan a partire dalle domande che questi autori, quelli su cui avevo lavorato fino a quel momento, mi avevano insegnato a cogliere. Ho cominciato a costruire una mappa lacaniana, per così dire, una mappa che – almeno così spero – mi aiuta a capire dove vuole arrivare, e come vuole arrivarci.

È una idea di Wittgenstein: conoscere un linguaggio è come sapere come muoversi in una città, averne in mente la mappa appunto. Negli anni mi sono costruito una mappa di Lacan. Certo è ancora molto incompleta, però mi sembra di cominciare a sapermi muovere. Quando mi succede, e succede sempre, che mi fermo a chiedere cosa voglia dire un certo passo, cerco sempre di collocarlo su questa mappa, per immaginare il punto in cui mi trovo, e dove posso arrivare da quel punto. Posso dire solo che leggere Lacan è appassionante. A chi non lo capisce non so che dire. Non mi sembra una obiezione rispetto al valore di Lacan. Io non riesco a seguire le dimostrazioni dei teoremi di incompletezza di Gödel, ad esempio, ma questo vuol dire solo che non sono abbastanza in gamba per capire la logica matematica. È un problema mio, evidentemente, non di Gödel. Vale lo stesso per Lacan, chi non lo capisce forse dovrebbe avere la stessa umiltà, e ammettere che non è abbastanza sveglio per riuscire a capirlo.

Secondo Bion – uno studioso che ha creato proprie categorie semantiche – la psicoanalisi deve trovare al proprio interno, nella sua esperienza, gli strumenti per il filosofare e proporre le sue proprie categorie «scientifiche». Qual è la sua posizione rispetto al rapporto tra filosofia e psicoanalisi e al bisogno di stabilire il senso di questo rapporto?

Sono d’accordo, lo ricordavo prima: la psicoanalisi deve avere un suo oggetto specifico, altrimenti non è un sapere scientifico (non nel senso di una scienza come la fisica, ma in quello di un sapere che ha un oggetto e un metodo proprî). Per il Freud dei Tre saggi questo oggetto è la sessualità pulsionale. Rinunciare al proprio oggetto significa rinunciare alla propria autonomia scientifica.

Sul rapporto fra filosofia e psicoanalisi, da un lato direi che non c’è un rapporto particolare, né che ce ne sia bisogno. Nel senso che se la psicoanalisi diventa una dottrina filosofica, come la filosofia della scienza o la filosofia della musica, allora questo rapporto non mi interessa per niente. Niente provo di più ridicolo di quella filosofia che pretende di stabilire ciò che è giusto e corretto in un qualche altro campo disciplinare. Il filosofo non ha nessun titolo per parlare della psicoanalisi, non più di qualunque altra persona informata dei fatti. Dall’altro, ed è forse quello che mi interessa di più, la filosofia – prima di essere un sapere particolare, come la botanica o l’elettrodinamica – è un sapere su sé stessi, è un lavoro per diventare sé stessi, nel senso di provare ad essere persone «decenti», come diceva Wittgenstein. Qui vedo una vicinanza con la psicoanalisi, nel senso di un lavoro che mira a permettere all’animale che parla di diventare un corpo. Credo che la filosofia, in questo senso specifico, non disciplinare né accademico, abbia a che fare con quel corpo che non siamo mai riusciti ad essere. Mi interessa la psicoanalisi perché mi aiuta a capire meglio quello che vuol dire essere un esemplare della specie zoologica Homo sapiens; ma questo sapere mi serve, almeno è questa la mia speranza, per provare ad essere un umano meno indegno.

Bion, durante la prima guerra mondiale, era un ufficiale carrista, comandava un carro armato come quello della fotografia qui sopra. Come molti ho sempre pensato che ci fosse un collegamento fra questa esperienza e quella successiva psicoanalitica. Essere dei viventi segnati dal taglio significa essere impauriti. E chi ha paura si nasconde, ad esempio dentro un carro armato. Ecco, penso che la psicoanalisi, e forse anche la filosofia, aiuti ad uscire fuori da quelle corazze, che sono una protezione solo perché sono anche una prigione. Dentro un carro armato ci si muove con difficoltà, c’è poco spazio e poca aria. La psicoanalisi aiuta ad uscire all’aperto. La filosofia che mi piace prova a fare la stessa cosa.

Doriano Fasoli

(Giugno 2015)

 

 

 

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