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16 dicembre 2017

«“La stagione dell’amore” di Claudia Monteiro de Castro», di Cinzia Baldazzi




A volte, leggendo opere di poesia, dinanzi all’invocare un «nulla che sia pieno del tutto», in particolar misura se l’invito è ramificato in un’intelaiatura di regole formali e logiche alternative, vengo tentata a scoprirne l’incentivo ideale, il motivo urgente. Sono spinta a indagare perché esso è capace – evitando di sostare nella fantasia all’ombra di un sogno, sia pure dilatato nello spazio e nel tempo – di piegare l’ars dell’autore a utilizzare un metalinguaggio poetico, operativo e tangibile, offrendo, sia pure nel breve intervallo di strofe, un nucleo intuitivo inerente alla vita in atto, e dunque a noi: insomma, una sorta di perché del versificare esistenziale ed energico, onnipresente.

In «Ti racconto un segreto», scrive Claudia Monteiro de Castro:

Di una cosa sono sicura
ci sono ancora i poeti
a vagabondare per il mondo.

Condivido, da tanta esperienza, tale certezza e, interpretando la silloge La stagione dell’amore (Palombi Editore, Modena 2017) di questa poetessa nata a Rio de Janeiro e residente a Roma da oltre un quindicennio, ho avvertito quanto la sua prospettiva nasconda, in realtà, nella trama semiologica intessuta, un profondo mosaico di pertinenze, niente affatto legato alla τύχη (týchē) greca, cioè al caso. Come presume la nostra autrice, magari, in giro vagano cantori «mascherati, / in borghese»: per comprenderli meglio, o decifrarne il cuore del messaggio, per riconoscerli tra molti, sarebbe opportuno camminare piano e, con uno sguardo scrupoloso, osservarli.

Ma a quale motivazione o incentivo alludo? Alla tensione diffusa di affrontare le parole – mentre «inseguono», «volano», «aleggiano» – per mezzo di significanti-significati immersi in un target artistico in modo responsabile e a termine: non complici dell’erroneo principio che l’individualità possieda una chiave esplicativa di ampiezza universale (suggerisce Claudia: «L’inchiostro sgorga / seducente: le pagine vuote / si arrendono / innocenti»), piuttosto inclini a rovesciare il simbolismo scontato e onnisciente in una lingua quotidiana, legittimata dall’uso. Una simile oggettività è stata edificata collettivamente da paradigmi di vocabolo e contenuto, ricchi di spiritualità e virtù coerenti, per un lato tipiche dell’umanità nella storia, nei millenni, per l’altro caratteristiche del concetto in sé dell’arte, dove il locus delle metafore è chiarito da solo, generando ed essendo generato.

In «Cammino a via Camozzi» si legge:

A tutto ci si abitua:
all’allegria, alla tristezza,
al vizio, all’astinenza,
alle parole fiacche,
ai giorni opachi,
[…]
Non trarre in inganno,
però,
l’immobilità delle cose.
Anche le rocce si muovono.

Per la Monteiro de Castro, ogni fenomeno o mera sembianza è da catturare nella perpetua differenza, scortati in una dinamica orientata a frantumarli, non annullandoli: l’autrice ne ricava una ratifica della loro saldezza proprio nell’essenza suscitata, antagonista di sicurezze categoriali limitative. In conclusione:

E basta poco:
sfiorarsi,
annusarsi.
Basta un passo
e di colpo
si capovolge
tutto.

Cogliendo un costrutto così plasmato, scaturisce immediato il quesito del perché l’ambito del conscio, non mirando a consacrare un criterio normativo di apprendimento e sintesi, pure sia ritenuto la fonte peculiare sulla quale gli scrittori possano persistere: con la reale conoscenza imperniata su intuizioni, nella poetica della Monteiro l’eventualità di continuare a nutrire opinioni non sviluppate su un simile percepire, si configura spontanea come un giudizio da scartare.